rivista anarchica
anno 35 n. 307
aprile 2005



a cura di Marco Pandin

 

The great Santa Barbara oil slick

Ho sognato che John Fahey è venuto a trovarmi, l’altra notte. L’ho visto che se ne stava in piedi accanto al mio letto, i vestiti indossati da qualche giorno, spettinato, barba lunga e gli occhi sporchi.
Era proprio come l’avevo visto l’ultima volta: in occasione di un suo concerto a Venezia fuggì dal manager e dalla crew per parlare, bere un paio di birre proibite e mangiare una pizza in compagnia di un paio di ragazzi sconosciuti, ed io ero uno dei due.
Allora avevo solo vent’anni e lui era un mito rimasto vittima dei rovesci della fortuna: la stessa persona applaudita alla Carnegie Hall e celebrata al Grammy Award come l’anello di congiunzione tra la musica popolare e quella d’estrazione colta era stata imbrogliata dai padroni del vapore con una manciata di spiccioli e si era ridotta a sopravvivere in un motel di infimo ordine. Quando erano finiti i soldi, si era dovuto arrangiare per strada a pernottare in una vecchia auto.
Mi raccontò con la bocca piena di pizza che era costretto a suonare in giro – talvolta agli angoli delle strade – per pagare vecchi debiti, il cibo e l’alcool e le medicine di tutti i giorni. Rieccolo ora proprio qui, nel bel mezzo del mio sogno.
Marco – mi chiama sibilando il mio nome tra i denti ingialliti e toccandomi con le dita macchiate di tabacco – svegliati. Dobbiamo andare. Muoviti, dai.
Nel sogno io mi vedo che lo guardo sapendo già tutto: è proprio lui, so perché è venuto qui. Do un’occhiata alla sveglia: è vero, è tardi. Dobbiamo andare.
Mi alzo facendo piano per non svegliare Lucia e le bambine, infilo gli stessi jeans neri di ieri e la stessa t-shirt nera, traballo verso il bagno per lavarmi faccia e denti ma mi accorgo che lui è già lì in piedi in mezzo alla porta aperta che mi fa segno di seguirlo.
Ha con sé una vecchia Martin opaca e un po’ ammaccata, e una borsa piena di fogli con dentro anche una mezza bottiglia di bourbon: Marco, è tardi, dobbiamo andare – insiste. Neanche il tempo di un caffè, mastico una mezza bestemmia assieme a una brooklyn mentre infilo i piedi nei sandali e quasi mi ammazzo perdendo l’equilibrio. Mi infilo in tasca il portafoglio, e finalmente chiudo piano la porta di casa dietro di me.
Lui è già giù in strada che mi aspetta. Camminiamo lentamente – so che non può fare grossi sforzi, gli hanno trovato addosso un sacco di rogne – fino alla stazione senza incontrare nessuno, neanche un gatto. È buio come fa buio alle quattro e mezza del mattino di una mattina di luglio, e nell’aria c’è solo il rumore dei nostri passi e del suo respiro. Ci fermiamo un paio di volte, solo per un momento, senza dirci niente. La stazione è ancora chiusa, aprirà alle sei, solo noi due accanto ai binari.
John rolla del tabacco che ha tirato fuori dalla borsa e si accende una sigaretta.
Finalmente riesco a mettere in croce due pensieri e a dirgli qualcosa di sensato, o almeno così mi sembra: John, che cazzo ci fai qui, sei morto a febbraio... Mi viene in mente Joan Baez, cui era successo lo stesso con Joe Hill (un immigrato scandinavo in America, le sue canzoni incitavano all’agitazione, alla protesta sociale e al sabotaggio nelle fabbriche nei primi anni del secolo: venne imprigionato ed assassinato legalmente dopo un processo farsa, e raccontano che fu lui stesso a ordinare al plotone di aprire il fuoco), e non posso fare a meno di sorridere mentre per scherzo gli accenno I dreamed I saw John Fahey last night, alive as you and me... Anche John sorride: I never died, mi dice, proprio come nel sogno di Joan Baez.
Sorride di traverso, con la cicca che gli penzola tra le labbra serrate. Ma John Fahey non è Joe Hill, anche se hanno usato entrambi gli stessi attrezzi – la chitarra – e fatto quasi lo stesso mestiere scomodo. Joe a scrivere canzoni proibite e a cantarle nelle fabbriche e nelle periferie delle città industriali, John scappato da una famiglia che odiava, s’era messo a fare il radical nella scena new folk californiana degli anni Sessanta e poi – eccolo, il sovversivo, il rompiballe – a inveire contro chi della protesta aveva fatto un mestiere redditizio.

John Fahey

Sono contento di rivederlo dopo tanto tempo. Per me John era stato una scoperta dell’università: un musicista prezioso che ascoltavo devotamente, cibo difficile per le orecchie mentre i miei coetanei impazzivano per la febbre del sabato sera. John è la personificazione dello spirito più puro della musica alternativa americana, sinonimo di ricerca ed innovazione ed allo stesso tempo di profondo rispetto per le radici, resistenza alla commercializzazione, assoluta mancanza di compromessi.
Musica “alternativa” quindi nel vecchio senso attribuito a questa parola, cioè “musica contro”: questo lo ha imposto come figura di culto nella folk music scene e gli ha portato col tempo una certa popolarità, ma a costo di emarginazione, dolore e disastri di relazione, salute ed amore. John inventò nei primi anni Sessanta una nuova musica, mai sentita prima d’allora, amalgamando con tecniche d’improvvisazione e la leggerezza del suo fingerpicking virtuosistico la profondità delle radici del blues, del bluegrass e del country and western con le lacrime, sudore e sangue del canto popolare…
Smettila con ’ste cazzate – mi interrompe leggendomi nel pensiero. Non credo che il mio contributo alla musica sia poi così importante. Sospira, rosicchiando e succhiandosi il pollice come fa un bambino bisognoso d’affetto: tante delle mie vecchie cose sono così imbarazzanti, quand’ero giovane ero così presuntuoso e stupido...
Cerco di interromperlo, lui si infastidisce di frustrazione. Va bene, lo ammetto – si scalda fissandomi con gli occhi stanchi, il nervosismo che affiora traducendosi in un accenno appena di nistagmo. Ho scritto della roba buona, tutte quelle accordature strane che ti piacciono tanto. Ma apri gli occhi, cristo santo. È roba kitsch, Marco: quelle musiche sono mescolanze di emozioni senza un contesto preciso, non c’è un minimo di discorso dietro che le tenga in piedi. Ecco perché penso che facciano schifo, e ti dico che sei un coglione, tu, a spendere soldi per quella roba vecchia…

John Fahey
Lo interrompe un colpo cattivo di tosse misto al rumore improvviso del treno che arriva da lontano, dietro la curva della collina: è ancora presto, nessun annuncio di voce sintetica, ma tutt’e due sappiamo che questo è il treno giusto. Ancora un minuto. Il treno arriva e si ferma. Saliamo, seconda classe. Me ne sto zitto, faccio un po’ l’offeso: non ho voglia di sentire ancora i suoi rimproveri e dentro di me l’ho già mandato affanculo. Chiudo la porta metallica dietro di me, uno scossone e il treno riparte.
Nel nostro scompartimento non c’è nessuno ma si sente che c’è qualcuno, qualche porta più avanti, che discute. Sembra che litighino, una scenata di un lui a una lei o di una lei a un lui non si capisce bene. Ci sistemiamo, John da una parte, io dall’altra.
John prende in mano la chitarra, io resto a guardarlo finché lui inizia a suonare, s’interrompe subito e sistema l’accordatura, poi guardo fuori del finestrino. Mi attira la luce delle lampadine fuori delle case, a illuminare le porte chiuse. Ed ecco che improvvisamente il vecchio inizia a suonare, e cuce assieme alcune delle vecchie cose, forse musiche di cui aveva parlato male appena qualche minuto prima, sul binario.
Suona “Special rider blues” e “Jesus is a dying bedmaker” (due pezzi rimasti sepolti in qualche archivio per quasi trent’anni: aveva raccolto quasi un’ora e mezza di musica per il suo album “America” del 1971, ma John si fece persuadere dai discografici che nessuno avrebbe mai acquistato un album doppio di sola chitarra acustica, così ne tagliò la metà), poi accenna a “Keep your lamps trimmed and burning” facendo il verso a Jorma Kaukonen, per poi sorprendermi alle spalle... Ta-ra-ra-boom-de-ay!
Le conosco anch’io le canzoni di Joe Hill – mi dice sorridendo strafottente. E quelle di Woody. Le so suonare tutte. E me la cavo a cantare nonostante il fumo, l’alcool e il cibo cinese che quegli stronzi di dottori non vogliono che io mi ficchi in pancia per il diabete.
Perché questa roba vecchia, John? Suonami qualcosa di nuovo – gli chiedo, facendogli il verso.
Non so – fa lui, improvvisamente triste. Sospira, curvandosi sulla chitarra. È una sensazione confusa, o un arcobaleno di sensazioni come questi pezzi di vecchi blues e inni religiosi, che col tuo Joe Hill forse non c’entrano niente. O forse sì, non so... È appena l’alba, eppure mi sento stanco.
Chiude gli occhi e appoggia la testa allo schienale, respira a fondo cercando un po’ d’ossigeno per scacciare l’affollamento dei pensieri. Sembra stanco. Sembra triste. Sembra che abbia addosso tutta la pesantezza del mondo. Smetto di guardar fuori. Le case e i campi lì al di fuori del finestrino hanno un’aria meno misteriosa e decisamente meno interessante adesso che c’è un po’ di luce. Per strada le prime auto, gente che va a lavorare. John ogni tanto riprende a toccare con la punta delle dita le corde della sua chitarra come solo lui sa fare. Suona il “Requiem per Mississippi John Hurt” e un tango sconosciuto. La sua voce di vecchia tartaruga impastata di malattia e stanchezza canta solo per me, mista al rumore del treno. Tiene addosso gli occhiali scuri, proprio come una volta: all’inizio si faceva chiamare Blind Joe Death e si presentava ai concerti con un paio di occhiali neri e si faceva accompagnare sul palco, facendo finta di essere cieco.
Eccolo qui accanto a me, vecchio e sconfitto come può esserlo una tigre, che guarda fuori e con la mano cerca a tentoni la bottiglia di bourbon nella sua borsa. Beve un lungo sorso, come nelle tante sue versioni del blues dei desperati.
Sono arrivato, Marco – mi fa John, alito di cane. Ho un lavoro da fare, la chitarra tienila tu.
Una luce come di lampo si accende dietro le sue lenti scure, che si toglie per un momento mostrandomi per l’ultima volta gli occhi sporchi. Prende la sua borsa ed esce dallo scompartimento. Traballa. Lo vedo allontanarsi lungo il corridoio, a me manca il coraggio di fermarlo, manca la voce per dirgli qualcosa, anche solo un grazie.
Il vecchio si avvicina alla porta. Scende. Senza voltarsi indietro. Tutto quello che mi resta è un vuoto che rimbomba in testa e nel cuore e una Martin ammaccata, e un nodo che mi stringe la gola.
Il treno ha uno scossone, riprende lentamente il suo viaggio. Mi sporgo dal finestrino e vedo John che si allontana sul binario, passo strascicato. Lo vedo da dietro, il fumo della sigaretta appena accesa gli avvolge la testa come una piccola nuvola bianca. Lo si potrebbe scambiare per un vecchio vagabondo qualsiasi con una sigaretta in bocca, invece è un fantasma che non se ne andrà mai via da questo sogno.

John Fahey

Nota: “The great Santa Barbara oil slick” è un cd recentemente stampato dalla indie americana Water, che contiene la registrazione del concerto di John Fahey al Matrix di San Francisco del 14 febbraio 1968 più tre registrazioni probabilmente riconducibili all’anno successivo. Un lavoro prezioso, compiuto con enorme rispetto e dedizione.

Marco Pandin

 

Musica a cui voler bene

E questa puntata ha un sottotitolo bello chiaro: Sardegna. Quattro segnalazioni quattro tutte da questa terra meravigliosa e dura, come ogni amore che si rispetti. Mario Brai è un musicista che conosco personalmente e col quale, purtroppo fugacemente, ho suonato anni fa a Cagliari. Mario canta, suona violino e chitarra ma soprattutto sta dietro al progetto Marenostrum. Autore di 2 CD (almeno credo) vorrei segnalare il suo lavoro perché pochi musicisti hanno la sua potenza e la sua facilità di comunicazione. Unitamente a un gruppo di musicisti molto bravi, Brai ti porta proprio in mezzo alla musica della sua gente, i Tabarkini, emigranti liguri, prima in Tunisia e Carloforte poi, isola di San Pietro, Sardegna. Quindi proprio al centro del Mediterraneo e la sua musica, araba, africana e sarda. Il tutto è reso in modo brillante, molto funky e coinvolgente ma senza perdere di “rispetto” folk verso la materia. Ispirati dalla benemerita lezione di Mauro Pagani, ricordato nel booklet, Mario Brai e Marenostrum è per chi vuole appassionarsi al cuore migrante della musica senza confine. www.carloforte.net/marenostrum

Una si schianta da un dirupo è un CD di nihilCDME, credo pubblicato in forma semi-privata (ma cercatelo senz’altro presso nihilcdme@tiscali.it). Roberto Belli (da Cagliari, fondatore e animatore del progetto musical-performativo Machina Amniotica, di cui già sapete leggendo la Rivista) è colui che sta dietro a questa nuova uscita. Elettronica brumosa e oscura (non opprimente comunque) veicola una voce narrante di grande fascino. Fascino malato qualcuno obbietterà, ma di questo si tratta infatti: un salto oltre il guardrail della nostra indifferenza, oltre la trasformazione corpo-macchina in atto, corpi-lemming al suicidio garantito, Roberto va oltre il linguaggio stesso masticando aggettivi meccanico-fisiologici come oscenità o ultime tenerezze, alla festa dell’Identità. Il Crash, lo schianto, è già avvenuto e non ce ne ricordiamo nemmeno più.
Chichimeca vuol dire “barbari” nell’antica lingua olmeca (Messico). Il gruppo che porta questo nome ha pubblicato nel 2003 un album (Barbari per l’appunto) uscito per l’etichetta sarda Tajra e distribuito da Audioglobe. La cantante, Claudia Crabuzza, ha collaborato con i Tazenda e il noto gruppo Sardo ha più che un legame con i Chichimeca. Il CD è molto bello, suonato benissimo. Claudia caccia fuori bei testi, molto diretti, con voce intrigante, tra Nada e Marianne Faithfull su arrangiamenti legati alla musica Ispano-America (ranchera, Tango e molto Messico) unitamente alla danza popolare del Mediterraneo. Si alternano situazioni (in lingua spagnola) di dolore e lotta da San Cristobal, ad esempio, a canzoni agro-dolci in italiano più vicine alla nostra tradizione d’autore e che a me sembrano le migliori, Viola, Oggi è Natale e La nave su tutte. www.chichimeca.it oppure www.kuntra.com

Per completezza segnalo un libro L’altezza del gioco di Giulio Stocchi anche se uscito da più di un anno. Perché a pubblicarlo è la CUEC di Cagliari (www.cuec.it) nella collana EstroVersi diretta da Alberto Lecca e Antonello Zanda, illustri autori e animatori della cultura poetica in Sardegna. Stocchi è un poeta militante, nato nel 1944 e attivo a Milano. Ha pubblicato vari dischi e libri tra cui Compagno Poeta (Einaudi 1980) e l’album Cantata Rossa per Tall-el-Zaatar insieme col jazzista Gaetano Liguori. Quindi un autore nel cuore della poesia di ispirazione sociale legata alle lotte operaie e internazionaliste. L’altezza del gioco raccoglie scritti e testi di 30 anni e contiene splendide fotografie del reporter Fulvio Magurno. I volumi proposti da EstroVersi sono tutti di alto livello e quest’ultimo ne è conferma. Tu leggerai/fino all’ultima parola/del libro che è in te/sfoglierai/pagina dopo pagina/lettera su lettera/ti affaticherai/e il silenzio ti circonda/ma per comprenderlo /appunto/perchè esso/parli.

Alla prossima.

Stefano Giaccone