rivista anarchica
anno 35 n. 307
aprile 2005


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

La lunga marcia di Jean Ferrat

Jean Ferrat è uno dei grandi autori della canzone francofona del secondo ’900. Su questo non ci piove.
Una gavetta durissima portò il giovane proletario francese, che aveva sulle spalle la tragedia personale di un padre deportato e assassinato ad Auschwitz, ad essere conosciuto e poi a trionfare nei teatri e nelle Hit Parades del suo paese. I cabaret più infimi accolsero le sue prime, timidissime esibizioni, le feste politiche e i teatri sancirono la permanenza della sua voce originale. E meno male per lui!
Anche perché proprio per l’abitudine a cantare temi forti Ferrat è stato uno dei “clienti abituali” della censura francese.

Notte e nebbia
Erano venti e cento, erano mille
Nudi e magri e tremanti nei vagoni di piombo
Che ferivano la notte con le unghie battenti
Erano venti e cento, erano mille(…)
I tedeschi sorvegliavano dalle torri di guardia
La luna taceva, come tacevate voi
Un accenno a uno sguardo gettato fuori
E la vostra carne era tenera per i cani poliziotto
Mi dicono adesso che queste parole non sono più di moda,
Che vale la pena di cantare solo l’amore,
Che il sangue secca presto nei libri di storia
E che non serve a nulla prendere la chitarra.
Ma chi avrà il coraggio di fermarmi?
L’ombra s’è fatta umana, oggi è estate,
Twisterei le parole se occorresse twistarle
Perché un giorno i bambini sappiano chi eravate.(…)

A dispetto dunque dell’aperta antipatia e talvolta del ferreo ostracismo di radio e televisioni, molte sue canzoni sono entrate in quella meravigliosa fase di dominio popolare che fa si che la gente fischietti per strada La montagne dimenticando financo il nome dell’autore. Ci si perde in gloria, ci si guadagna in eternità, diceva un poeta.
Ferrat è peraltro un uomo schivo, un antidivo nato. Fermissimo nella sua convinzione di essere un solido artigiano musicale, più che un semidio onnisciente, ha limitato la composizione dei suoi propri testi solo a quelli che giudicava meglio riusciti (e ce ne sono non pochi) o più urgenti, “limitandosi” invece spesso a mettere in musica alcuni parolieri di fiducia (da Coulonges e Gougaud fino ad Allain Leprest, di cui già s’è parlato in questa rubrica) o intraprendendo con la voce poetica di Luis Aragon, un dialogo durato trentacinque anni (dal ’61), e culminato in quella che a tutt’oggi rimane la sua produzione più recente: il disco di inediti del ’95 che presenta 16 versioni cantate di altrettante poesie del grande Luis. Si aggiunga che, pur nel rispetto totale del pubblico, il buon Jean non ha mai nascosto di detestare il necessario esibizionismo del mestiere. Così dal ’74, anno di una tournée trionfale culminata nelle tre settimane di tutto esaurito al Palais des sports, Ferrat ha rinunciato a dare concerti, preferendo dedicare le sue energie alla composizione e all’incisione di dischi.
Ferrat è un figlio prediletto della tradizione popolare e “realiste”, un melodista incantato e un interprete in possesso di una meravigliosa voce di baritono, sonora, intonata, ricca di armonici, una delle più piacevoli e tranquillizzanti che abbiano frequentato i microsolchi dei vecchi vinili. La sua umanità e una simpatia molto “gauloise” lo mettono al riparo dal rischio di passare per un “crooner” fuori tempo massimo, per un sussurratore stantio.
In possesso di tali mezzi avrebbe potuto facilmente dare l’assalto a una carriera di tutto riposo, invece il nostro, morso dal serpe dell’impegno sin dai primi anni ha voluto disseminare i suoi dischi di canzoni antimilitariste, anticoloniali, di celebrazioni emozionate di momenti della storia del movimento operaio.

Mi ascoltereste ancora se vi parlassi di un mondo
Che mi canta sul fondo con rumore d’oceano
Mi ascoltereste ancora se la rivolta fluisse
In questo nome che lascio andare ai quattro venti
La mia memoria canta in sordina
Potëmkin (…)

Nel bene e nel male Ferrat si è però, dai primi anni della sua carriera, assunto un impegno che in qualche modo ha pesato anche sulla qualità estetica e, soprattutto, sull’indipendenza etica delle sue canzoni: Ferrat è stato un cantore ortodossamente legato al partito comunista francese, la voce dei festival dell’“Humanité”; talvolta, purtroppo, anche stigmatizzando il movimento studentesco che criticava da sinistra il PCF. In una canzone del 1967 si può in effetti sentire:

(…) Figli di borghesi ordinari, figli di dio sa chi
Mettete i piedi sulla terra e avete già tutto
Soprattutto il diritto di star zitti per parlare in nome
Della gioventù operaia, poveri piccoli stronzi.
Quando il tempo della vostra rabbia quando le vostre contorsioni
Non saranno più che una vecchia effimera illusione (…)
Voi voterete come i vostri padri, poveri piccoli stronzi.
Non partirò in guerra contro i vostri mulini
Ma alla prossima guerra, la cosa è certa
Chi si farà manganellare per le vostre opinioni
Saremo ancora noi, parola mia, poveri piccoli stronzi.

A partire proprio dal ’68 però Ferrat cominciò una lunga marcia, solitaria, coraggiosa e in anticipo sul suo stesso partito. Una marcia verso la dignità e la libertà di pensiero, verso un individualismo che senza nulla negare e rinnegare, si poneva in maniera critica rispetto all’ortodossia d’un tempo.
I primi timidi echi di questa maturazione critica si intravidero nella canzone Camarade dove, riferendosi alla repressione della primavera di Praga, diceva:

Che siete venuti a fare compagni? Che siete venuti a fare qui?
Fu alle cinque a Praga che il cielo d’agosto si oscurò

Certo, ancora ben poco, ma il segno di un’inquietudine, di un dubbio penetrato nell’ordinata fortezza di una fede.
Il brano che però sancisce la ritrovata coscienza critica di Ferrat viene pubblicato, in uno dei suoi più bei dischi, nel 1980, ed è l’emozionata risposta ai vaneggiamenti che, di fronte alle sempre più dilaganti rivelazioni della tragedia del popolo Russo vuole assurdamente opporre una specie di bilancio generale positivo dell’esperienza sovietica, quasi la vita dei popoli fosse questione di contabilità.

Il bilancio
Ah, quanti rospi ci hanno fatto ingoiare
Da Praga a Budapest, da Sofia a Mosca
Zelanti stalinisti, impegnati ad adoperarsi
Per ottenere con ogni mezzo deliranti confessioni
Voi che combatteste ovunque la bestia immonda
Dalle brigate di Spagna alla lotta partigiana
Voi che donaste la giovinezza alla storia del mondo
Voi: Kostov o London o Slansky
In nome dell’ideale che ci faceva battere
E che ci spinge ancora a batterci oggi

Ah ci hanno fatto applaudire le ingiurie
I complotti sgominati, le delazioni
Traditori smascherati, processi senza difese
Gulag meritati, giuste impiccagioni
Ah, la follia di credere ai deviazionisti
Agli scienziati degenerati, agli scrittori spie
Ai sionisti borghesi, ai titoisti rinnegati
Ai calunniatori della rivoluzione
In nome dell’ideale che ci faceva battere
E che ci spinge ancora a batterci oggi

Ah, ci hanno fatto approvare massacri
Che qualcuno continua a chiamare errori
L’errore è umano, due più due fa quattro
E così si cancellano anni di terrore
Questo socialismo era una caricatura
Se i tempi sono cambiati, restano le ombre
Conservo nel cuore una ferita aperta
Conservo in bocca la sete di verità
In nome dell’ideale che ci faceva battere
E che ci spinge ancora a batterci oggi

E se sento parlare di “bilancio positivo”
Mi chiedo sempre “a quale prezzo?”
E ai milioni di morti che formano il passivo
Perché non provate a chiedere a loro?
Non chiedetemi l’anima del contabile
Per cantare oggi le tragedie del secolo
(…)
Bisogna reinventarsi un altro avvenire
Senz’idoli o modelli, passo a passo umilmente
Senza verità tracciate, senza slogan predeterminati
Una felicità inventata definitivamente
Un avvenire che non nasca solo dalla sofferenza
Ma dai nostri occhi spalancati sulla realtà
Un avvenire garantito dalla nostra vigilanza
Contro tutti i poteri della terra e del cielo
In nome dell’ideale che ci faceva battere
E che ci spinge ancora a batterci oggi.

Da allora, senza nessun pietismo e autocommiserazione, senza tentazioni verso la disgustosa pratica – piuttosto di moda fra gli “ex” nostrani – dell’autodafé pubblico, proprio perché frutto di maturazione e non di svendita o di capitolazione, la lunga marcia di Jean Ferrat continua, incontro alla verità e alla giustizia. Con più dubbi di un tempo, forse, ma senza per questo disarmare la voce contro le grandi storture della civiltà capitalista.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it