rivista anarchica
anno 35 n. 307
aprile 2005


lesbismo

Il corpo lesbico
di Nadia Augustoni

 

L’importanza delle riflessioni filosofiche e dell’approccio di Monique Wittig.


Tradurre l’umano significa portare l’essere umano agli incroci...
Homi Bhabha

Le identificazioni che attraversano i confini dei generi possono ridefinire corpi sessuati secondo modalità variabili.
Judith Butler

I sistemi politici sono sempre inscritti nel corpo.
Michael Warner

Monique Wittig è stata, almeno per la mia generazione, soprattutto un’assenza. Un’assenza che pesava tantissimo perché il suo pensiero filosofico, che arrivava a strappi, affascinava e inorgogliva, lasciava senza terra sotto i piedi e dava l’impressione, subito dopo, che fosse possibile l’assalto al cielo. II suo lavoro teorico, le sue perentorie affermazioni “le lesbiche non sono donne”, la leggenda della sua vita, dalla fondazione del MLF francese con Antoinette Fouque e altre, al deserto dell’Arizona dove è morta, l’hanno resa una figura non facilmente collocabile (1). La sua scrittura è bellissima, luminosa come un assassinio che è una resurrezione. Criticata per la violenza dei suoi romanzi – non femminili – ci ha lasciato icone di un lesbismo sempre in metamorfosi, non recuperabile su nessun piano.
L’Opoponax, Le guerrigliere, II corpo lesbico, Virgile non, sono state le tappe di un itinerario che dall’infanzia attraversa ogni ribellione, senza rinunciare a quel sorriso che – come ricordava Mary McCarthy – ci dice che in fondo l’infanzia è sempre. Non è facile scrivere di Monique Wittig perché non si può farlo separando la sua filosofia del “lesbismo materialista” dalle sue opere letterarie. “II corpo lesbico” che Wittig scrive non è il corpo della donna, non è il corpo femminile, ma è “il corpo lesbico” appunto, corpo che si è liberato dal marchio linguistico dei generi. Ricorda Rosanna Fiocchetto nell’introduzione a “Brogliaccio per un dizionario delle amanti” ancora in cerca di un’edizione italiana, che, per comprendere come in Wittig (e altre) la politica diventi poetica, è molto utile un numero della rivista francese “Questions féministes” del febbraio 1978 in cui un gruppo di studiose, in testa Colette Guillaumin, “revisionano il materialismo marxista alla luce della più autentica materialità delle classi sessuali”. L’analisi di Guillaumin è seguita “dal racconto di Wittig “Un jour mon prince viendra”, che ne è l’agghiacciante e cruda trasposizione poetica, nella quale lo sfruttamento dei corpi viene espresso allegoricamente dalla cerimonia della mungitura” ( Rosanna Fiocchetto). In “The Straight Mind and Other Essays” (1992) Wittig raccoglierà i saggi teorici usciti in riviste femministe, francesi e americane, negli anni settanta e ottanta.

“Le lesbiche non sono donne”

La sua critica all’eterosessualità obbligatoria sarà una tappa fondamentale per i movimenti femministi e per il movimento lesbico in America. Ancora oggi è un’autrice importante e discussa nel movimento queer e transgender. Fece scalpore la sua affermazione che “le lesbiche non sono donne” perché se ciò che definisce una donna nel contratto sociale eterosessuale è il suo legame sessuale-economico-sociale con un uomo, quel che ne consegue è che allora le lesbiche non sono più donne, ma transfughe dalla categoria donne (dalla classe sessuale), fuggiasche come gli schiavi che scappavano dai padroni per essere liberi. Per Wittig “lesbica” era l’unica categoria che conoscesse capace di sfuggire a questo contratto sociale eterosessuale che è “un regime politico” e perché “la relazione eterosessuale costituisce il parametro di tutte le relazioni gerarchiche” e perché “gli uomini e le donne sono creazioni politiche prodotte per conferire un mandato biologico ad accordi sociali in cui un gruppo di esseri umani ne opprime un altro”. È cosi che “i rapporti tra le persone sono sempre costruiti e la domanda da porsi non è quali siano i più naturali, ma piuttosto quali sono gli interessi tutelati da ciascuna costruzione”. La guerra di Wittig alle categorie di differenza sessuale è radicale: “non vi è nulla di ontologico nel concetto di differenza; è solo il modo in cui i padroni interpretano una situazione storica di dominio. La funzione della differenza è di mascherare a tutti i livelli i conflitti di interesse, compresi quelli ideologici.
Teresa De Lauretis scrive in “Soggetti eccentrici”, che “la pratica cognitiva soggettiva di Wittig è una riconcettualizzazione del soggetto, del rapporto tra soggettività e socialità e della conoscenza stessa, da una posizione che viene esperita come autonoma dall’eterosessualità istituzionale e quindi eccede i limiti del suo orizzonte discorsivo-concettuale”. Monique Wittig, per De Lauretis (e non solo), vuole quindi sì la scomparsa delle donne in quanto donne (cioè classe), ma nello stesso tempo il noi di Wittig non si riferisce a donne privilegiate (...). La società lesbica non si riferisce a qualche collettività di donne omosessuali, così come il termine lesbica non si riferisce semplicemente a una donna lesbica. Sono invece i termini concettuali, teorici, di una forma di coscienza femminista che può esistere storicamente soltanto nel qui e ora come coscienza di qualcosa d’altro. Noi, lesbica, Mestiza e altra inappropriata sono tutte figure di quella posizione critica che ho cercato di far emergere e di riarticolare da vari testi del femminismo contemporaneo: una posizione raggiunta attraverso pratiche di dislocamento politico e personale, attraversando i confini tra identità e comunità socio-sessuali, tra corpi e discorsi. La posizione di un soggetto eccentrico” (De Lauretis).
Mi sono spesso chiesta, come lesbica, come transgender – né maschio né femmina, né uomo né donna (né/né), cosa accadrebbe se rifiutassi di segnalare su un documento alla dicitura sesso o la F o la M, ma scrivessi Altro o Lesbica o Transgender. Probabilmente non avrei il documento necessario e scatterebbe una denuncia. Infatti “eterosessualità obbligatoria” è concetto che esula dalla scelta sessuale personale e si configura “istituzionalizzata, ha assunto il carattere normativo, sistematico e astratto (ossia astraibile dall’agire dei singoli individui) proprio delle istituzioni” (De Lauretis). L’affermazione del movimento transgender (gay-lesbiche-bisessuali-transessuali-intersessuali) diventa quindi importante e, se ben diretta, potrà mettere in discussione le basi del più arcaico dei regimi. Si comprende così meglio un Ratzinger che prepara un documento di 37 pagine in cui condanna il femminismo radicale della gender theory (Judith Butler) e dell’uguaglianza, ma dialoga con quello della differenza sessuale.
Wittig afferma inoltre che non solo il genere è costruito (per genere/gender si intendono una serie di fattori che confluiscono a formare l’identità; per esempio fattori come classe, razza, scelta sessuale, ecc. Quindi il genere è sempre costruzione storicamente variabile di una identità), ma lo sono anche i corpi. Questo avviene anche, ma non solo, attraverso il linguaggio. “II fatto che il pene, la vagina, il sesso, ecc. siano denominati parti sessuali significa ridurre il corpo a tali parti e frammentarne l’interezza” (Judith Butler). Ora, questo serve molto bene le categorie di differenza sessuale, in primis nel linguaggio gerarchizzante dell’eterosessualità e ne crea il sistema con cui stabiliscono che a un dato corpo corrisponde tanto e a un altro corpo altro. Si stabiliscono così anche le funzioni di uomini e donne come “naturali” – come desidera Ratzinger – e non costruite e quindi scambiabili o con la possibilità di inventare altro***. Ne “L’Apartheid del sesso” Martine Rothblatt descrive molto bene i meccanismi con cui ci fanno diventare qualcosa e occupare un posto ben preciso nella società mediante la classificazione di genere. Rothblatt dimostra, con l’avvallo delle più recenti scoperte scientifiche, che l’apartheid sessuale non ha ragione d’essere ed è retaggio non della biologia, ma di preconcetti patriarcali.
“Nulla di biologico obbliga chi ha la vagina a comportarsi in un determinato modo e chi ha il pene in un altro. A cosa si deve quindi, l’origine specificamente genitale delle forme di genere? Ancor prima, a quale mutamento va attribuita l’attuale accettazione sociale di espressioni di gene-re indipendenti dai genitali che si possiedono? Gli esseri umani hanno la tendenza atavica a generalizzare e a creare stereotipi. Fenomeni apparentemente simili vengono generalizzati e accorpati in categorie. Caratteristiche parziali della categoria vengono poi ridotte a luogo comune in modo che si applichino all’intera categoria. Di norma l’uso degli stereotipi serve in primo luogo a giustificare il trattamento differenziato degli individui”. E più in là: “Quando una categoria si impone, è tipico degli esseri umani cominciare a caricarla di attributi e a rinforzare la realtà di tali attributi attraverso l’educazione e le sanzioni sociali. Il genere diventa una profezia autoinverantesi, impostaci dall’infanzia, finché diventa parte della nostra natura. Dietro la genesi del genere si nasconde dunque la passione categorizzante e organizzativa degli esseri umani”. (Martine Rothblatt). Aggiungo io, anche la passione normalizzante.
Prima di chiudere con Rothblatt, ancora una citazione in cui parla dei risultati di test scientifici: “I risultati dei test rivelano che, a livello cerebrale, il sesso è un continuum, che va da attributi stereotipati molto «maschili» a caratteristiche molto «femminili». Su questa base si dovrebbe dire che il sesso cerebrale è analogico (continuo), non binario (o/o) maschile o femminile”. Quindi il cervello è transgender.
Le intuizioni di Wittig, nonché i suoi studi e quelli di altre femministe che l’hanno ispirata, erano, a dir poco, in anticipo sui tempi. Questo la portò a scontrarsi e a polemizzare con molte appartenenti al femminismo della differenza e quindi, forse per stanchezza o forse perché allora non trovò seguito in Europa, emigrò in America. Le sue teorizzazioni hanno influenzato fortemente Judith Butler e Teresa De Lauretis, le quali hanno poi elaborato autonomamente loro teorie a cui la queer theory deve tantissimo.


Classe sessuale oppressa

Per Wittig non esiste quindi alcuna distinzione tra sesso e genere; la categoria del sesso è anch’essa una categoria di genere, del tutto investita politicamente, naturalizzata, ma non naturale.

Judith Butler


Secondo Leo Bersani (2), Wittig è “un guerriero foucaultiano, anzi un guerrigliero (per prendere a prestito il titolo di un suo libro), assai più risoluto dello stesso Foucault nell’abbracciare la causa a favore di una nuova economia dei piaceri del corpo. Wittig la martire, pronta a sacri-ficare il suo stesso corpo alla logica della passione lesbica: nel corso di una conferenza al Vassar College, a un certo punto qualcuno le chiese se avesse una vagina e lei rispose di no. Quella domanda così sgradevole la trasformò immediatamente in una donna (condensando cosi secoli di cultura eterosessuale), la sua risposta però, altrettanto rapidamente, riscrisse sul suo corpo la parola lesbica, cancellando il segno e il marchio culturale di donna”. Se qualcuno non comprendesse l’importanza cruciale dell’episodio è Judith Butler che ci fa presente che “il corpo è un modello che può riprodurre qualsiasi sistema chiuso e i suoi confini possono rappresentare qualunque confine, sia esso minacciato o precario”. Bersani fa presente che “la Butler sottolinea la pericolosità per il sistema sociale di confini del corpo permeabili”.
“Far esplodere il corpo sessuato” (Bersani) per cercare, esplorare, inventare nuovi modi di essere e quindi rivelare il polimorfismo della sessualità e nello stesso tempo uscire dal sistema binario di pensiero e far si che non si venga recuperate all’ordine eterosessuale, sono stati i passi radicali di Monique Wittig.
Poche figure, in tanti anni di femminismo (3) e poi di femminismo lesbico, mi hanno affascinato quanto Monique Wittig. Tra queste c’è anche un uomo, Mario Mieli, i cui “Elementi di critica omosessuale” fu una scoperta tardiva, ma che sono ancora una delle mappe di cui mi servo per esplorare il mondo queer. Mieli negli anni ’70 parlava già delle lesbiche come dell’avanguardia della rivoluzione ed egli aveva ben presente il pensiero delle lesbiche radicali francesi e l’importanza di una ridefinizione creativa di concetti quali il genere, il sesso e le identità o non identità. Forse Wittig e Mieli sottoscriverebbero quanto dice Leo Bersani, parlando di Genet: “Ma nulla può cambiare in questo mondo, o meglio (e questo bisogna ammetterlo, è una scommessa ), tra l’oppressione adesso e la libertà più avanti, potrebbe essere necessaria una rottura radicale col sociale”. E “la rivolta delle serve (e dunque la rivolta di tutti gli oppressi) andrà a buon fine purché non ci si rapporti più con la loro soggettività in quanto soggettività oppressa”. Uscire dal sistema di pensiero binario è anche abbandonare le facili identità e rischiare; ricorda la Butler che: “Nei suoi scritti teorici e narrativi, Wittig chiede una riorganizza-zione radicale della descrizione di corpi e sessualità (...)”. Da qui lo scandalo che suscitò anche tra le femministe l’apparizione di un libro come “II corpo lesbico” che nella memoria di molte è rimasto come un romanzo che mandava in crisi. Non è stata una figura rassicurante Wittig, tantomeno flirtrava con il materno e con il desiderio di un nuovo matriarcato. Detestava ogni idea di sostituire al patriarcato un matriarcato e di restituire oppressione agli oppressori. La sua visione delle donne come “classe sessuale oppressa” la porta a privilegiare e universalizzare la figura della lesbica, ma il modo stesso in cui costruisce questa figura è, secondo me, il modo che le permette di sfuggire a un’identità fissa (le sue lesbiche sono in eterno cambiamento) e soprattutto di sfuggire al mercato. Si può avere capacità di cambiare e ricrearsi e viaggiare alla velocità della luce tra le identità e le non identità o meno identità, ma si corre il rischio sempre di scendere alla fermata e trovare che il mercato è lì ad aspettarci. A Wittig si deve almeno riconoscere di non essersi mai fatta catturare. La sua “lesbica” era/è semplicemente insopportabile per il sistema eterosessista.
Prima di proseguire, torno un attimo sulla questione del sesso.
“Anne Fausto Sterling, genetista presso la Brown University, ha osservato di recente che «il sesso è un vasto continuum che si sottrae a ogni classificazione». Dietro la sua osservazione vi è una nuova ricerca che ha dimostrato come almeno il 4 per cento delle nascite sia in qualche misura intersessuato, vale a dire che i neonati hanno sia parti di organi sessuali maschili sia parte dei corrispondenti organi sessuali femminili (spesso interni e quindi generalmente non identificabili)” (Martine Rothblatt). I sostenitori della naturalità dei due sessi, cioè chi sostiene che ci sono solo due sessi biologici (come Ratzinger, come tutti i fondamentalisti) sono smentiti dalla stessa biologia. Magari potrebbero cominciare a chiedersi che ne sarà dei loro preziosi libri sacri, della storia della genesi, eccetera, eccetera e quale altra favoletta inventeranno per giustificare l’oppressione delle donne e dei diversi, la misoginia, l’omofobia, il razzismo e tutto quello di cui sono accesi fautori. Potrebbero – a titolo di esempio – scomunicare il comitato olim-pico internazionale che ha “ampliato la definizione di atleta, includendo le donne che prima erano uomini” o potrebbero chiedere che non siano resi pubblici i dati di ricerche scientifiche che rivelano la “varietà sessuale degli esseri umani presente in natura” (da: Internazionale ) e cioè le varianti naturali dei cromosomi sessuali, ovvero non solo: XX o XY, ma XXY, XYY, XXX.

Viaggio interminabile

Fin qui ho solo accennato alle opere letterarie di Wittig, ma parlare di questa scrittrice scindendo le sue teorie filosofiche dalle sue opere creative, sarebbe limitante.
Non ha scritto moltissimo, ma fin dal primo romanzo ‘L’Opoponax’, – premio Medicis in Francia, nel 1964 –, suscitò interesse. In una delle ultime interviste, rilasciata a Lesbia, disse che non avrebbe scritto se non avesse letto gli autori del nuovo romanzo francese, prima fra tutti Nathalie Sarraute. De “L’Opoponax” scrissero Mary McCarthy e Margherite Duras. Rimane in mente del libro, non solo e non tanto la trama (l’amore tra due ragazzine, l’infanzia, la libertà interiore), ma la scrittura limpida, continua, fluida, nonostante la brevità delle frasi e quel restituire, sapientemente-amorevolmente-semplicemente, l’infanzia, anche con una parola che sa essere/dare infanzia. “L’Opoponax” gioca con la nostra credulità di bambini ex bambini, ma in fondo felicemente ancora pieni di stupore. Wittig non ci consola di nulla. Forse già allora incanto e ferocia la accompagnavano. I tre proiettili di carabina che Valerie regala a Catherine sono il preludio alle bambine-guerrigliere de “Le guerrigliere”.
Quando ho saputo della morte di Wittig, ho ripreso in mano i suoi libri (pochi usciti in italiano) e particolarmente “L’Opoponax”. Mi venne da pensare subito, che era già tutto lì dentro: scrittura, coraggio, eroismo, lesbismo, ironia, ribellione ai codici, eccetera. Le farei torto però, se mi fermassi a questo.

“Non utilizzano delle iperboli delle metafore per parlare dei loro sessi, non procedono per accumulazioni o per gradazioni. Non recitano lunghe litanie, il cui motore è un’imprecazione senza fine. Non si sforzano di moltiplicare le lacune in modo che nel loro insieme significano un lapsus volontario. Dicono che tutte queste forme designano un linguaggio sorpassato. Dicono che bisogna ricominciare tutto. Dicono che un grande vento spazza la terra. Dicono che il sole sta per alzarsi”.

Le guerrigliere

II corpo lesbico” uscì in traduzione italiana per le Edizioni delle Donne nel 1976, tre anni dopo la sua uscita in Francia. Scriveva Elisabetta Rasy nella nota introduttiva: “Monique Wittig recita il percorso di una ricognizione del corpo che è ‘lesbico’ e non ‘femminile’ perché il corpo femminile è il corpo della donna visto e usato dall’uomo – un feticcio, cioè, per la donna – e il corpo lesbico è il corpo della donna visto e vissuto dalla donna, come nei sogni l’omosessualità è autoerotismo, cioè, ancora una ricognizione, una scoperta”. Facendo esplodere il ‘corpo lesbico’ Wittig lo riscrisse con una brutalità e passione sconosciute fino ad allora nella letteratura femminista e pre-femminista.
La voce del libro pare propagarsi per intensità e rimbalzare sul corpo riorganizzandolo, dopo averne bucato la cecità portandolo davanti se stesso. Non vi sono nomi propri nel ‘corpo lesbico’. Le amanti franano una nell’altra, l’una contro l’altra, l’una vicina all’altra, come le ‘detentrici’ del fuoco, della “geenna dorata adorata nera” in cui è inutile chiedere aiuto, perché nessun aiuto verrà, non una potrà salvarti da un desiderio così gridato, così ferito, così voluto che pagina per pagina scavalca il dicibile. Una lesbica mai detta prima prende quindi corpo nel romanzo di Wittig e si afferma affermando la fermezza del proprio desiderio, spogliando il corpo di ogni orpello, di ogni bugia. Il processo di spogliazione appare come smembramento, l’arte amatoria deborda nel cannibalismo (o così fa credere ), ma di volta in volta il corpo si ricompone, è intero, è due corpi che si cercano e prendono e ricominciano sempre da capo; corpi universalizzati non tanto o non solo nella loro rivolta, ma nella loro totalità, nel loro essere interamente erotizzati: “tecton=costruttori, generatori” (Beatriz Preciado) (4).
II ‘viaggio interminabile’ di Wittig, il ‘Viaggio senza fine’ è portato nella parola oltrepassando ogni parola, liberando le frasi dalla zavorra romantica, sentimentale, perché ne rimanga la carne come segno di un ricominciamento che parla per grida o risate, per odori-umori-profumi, per il toccare delle mani, della bocca, per lo scuotersi, per lo sforzo di inabissarsi e riemergere dai luoghi più segreti di ognuna, ma rinominandoli come se venissero strappati al negativo di una fotografia e riconsegnati alla luce, alla gioia.
Wittig non lascia nulla d’intentato per significare il corpo lesbico e renderlo non superabile. “Da qui in poi – pare dire – potrete fingere di non vederci, ma non ci troverete mai nel vostro ordine”. Se ne “Le guerrigliere” le bambine inventano comunità lesbiche, creandole e distruggendole e ricreandole, ne “II corpo lesbico” si nasce dalle nostre ossa, dai muscoli, dai nervi, ma senza più potersi immaginare come corpo guardato dall’altro, corpo appreso da altri sguardi.

“Per farla passare da alknarintya (donna selvaggia) a. nguanga (donna tranquilla, accondiscendente al desiderio dei maschi), dalla frigidità (?) all’erotismo d’oggetto dall’omosessualità all’eterosessualità, la femmina deve essere sottoposta alla forza: violentata, conquistata, castrata” (Roheim, citato da Paola Tabet in DWF n° 23/24).

Ne Le Guerrigliere, in un breve capitolo, c’è una descrizione della clitoride che è un preludio a quanto Wittig scriverà anni dopo. Non è un caso che i suoi romanzi siano passati sotto silenzio. Wittig usa la scrittura per non coincidere con nulla, tantomeno con la mente eterosessuale. La scrittura è quindi diretta, intensa e pare penetri nel corpo per infrangerne la subordinazione a qualcosa di appreso, qualcosa che lascia in una confusione che fa sì che diventi possibile la colonizzazione del corpo. Un corpo è colonizzato con lo stupro, con i ricatti familistici e affettivi, con la violenza domestica, ma anche con l’im-posizione (naturalizzata) di istituzioni (matrimonio-prostituzione) che ne veicolano la socializzazione. Questo avviene per gradi, ma ininterrottamente; la ripetizione di schemi porta a far sì che tutto questo sembri naturale. Porta anche a un’atrofia dell’immaginazione, della possibilità di immaginare altro.
Leggere Il Corpo Lesbico è leggere gli strappi con cui una scrittura luminosa e pazzesca riesce a ricrearne l’integrità. Dal negativo della fotografia (dal nero dello sguardo), all’immagine di un corpo che ricompone la propria libertà, la riscrive (toccandola), rendendosi vivo.
“La donna” non è più questo corpo; la lesbica è la figura portatrice di una voce che è “la mia voce intenta a raddoppiare la tua voce”.
Teresa de Lauretis scrive che per fare una lesbica ci vogliono due lesbiche e il desiderio lesbico “significa precisamente lo spiazzamento del significante paterno e l’aggiramento della legge che preclude al soggetto donna l’accesso al corpo femminile”. E continua: “II desiderio lesbico è legato al desiderio di un’altra donna perché è desiderio di un corpo femminile negato, perduto o espropriato; ma quel corpo perduto o negato non è il corpo della madre bensì l’io-corpo del soggetto stesso, la cui perdita equivale a non essere. Nel desiderio per l’altra donna il soggetto nega o supera quella perdita e ritrova l’io-corpo insieme con quello dell’altra. A parer mio quindi, il desiderio lesbico non è pre-edipico, né fallico o maschile e nemmeno isterico: è perverso”. Con “perverso” ovviamente la De Lauretis intende “né patologico, né immorale, ma che esce dallo schema pulsionale coatto tra padre e madre proprio dell’isteria e quindi eccede lo schema binario dell’Edipo (sui generis)”.
La lesbica di Wittig non è l’effetto di un divieto, ma eccede quello schema binario e irrompe sulla scena usando la precarietà della lingua per riarticolare una lingua che la renda un soggetto (soggetto universale). Il corpo frammentato nei discorsi e negli sguardi del potere, nel suo discorso viene ricostituito e interroga il proprio bisogno, se stesso e il proprio significato politico con “la forza della citazione” (J. Butler).
Wittig rende la lesbica visibile, ma ci ricorda che “se il desiderio omosessuale è il desiderio del simile è vero anche che è desiderio di altro”. Il suo riscrivere i classici della letteratura come classici lesbici (Il Don Chisciotte in “Viaggio senza fine” e La Divina Commedia in “Virgile, non”), è parte di questo viaggio, di un desiderio altro.

Femminismo cyborg

“La scrittura del cyborg parla del potere di sopravvivere, che non deriva dall’innocenza originaria, ma dalla conquista degli strumenti che marchiano il mondo, che le ha marchiate come «altro». Questi strumenti sono spesso storie riscritte, nuove versioni che spiazzano e ribaltano i dualismi gerarchici delle identità naturalizzate: rinarrando le storie originarie, di autori cyborg sovvertono i miti dell’origine centrali alla cultura occidentale. Tutti siamo stati colonizzati da quei miti, dalla loro brama di compiersi nell’apocalisse”.

Donna Haraway

In “The Straight Mind” (Il pensiero eterosessuale) Monique Wittig traccia una prima parte della mappa con cui si misurerà con il linguaggio. Parlando dell’insieme dei discorsi che ingenerano altri discorsi (“la linguistica ingenera la semiologia e la linguistica strutturale, la linguistica strutturale ingenera lo strutturalismo che ingenera l’inconscio strutturale”), mette in rilievo come “l’insieme di questi discorsi produce una statica confusionale per gli oppressi, che fa loro perdere di vista la causa materiale della loro oppressione e li immerge in una sorta di vuoto astorico”.
Questo fa sì che questi discorsi producano una lettura “scientifica della realtà sociale, nella quale gli esseri umani sono dati come invarianti, intoccati dalla storia e immuni dai conflitti di classe, con una psiche identica per ciascuno di essi perché geneticamente programmata”.
II saggio citato è del 1978 e a distanza di una decina di anni – sempre in America – pare fargli eco Haraway (che leggo ora insieme a Wittig – da una all’altra: dalla Lesbica ai Saperi Situati): “La scrittura è in primo luogo la tecnologia dei cyborg, superfici incise del tardo ventesimo secolo. La politica dei cyborg è la lotta per il linguaggio, contro la comunicazione perfetta, contro il codice unico che traduce perfettamente ogni significato, dogma centrale del fallogocentrismo” (Manifesto Cyborg). E Wittig: “Questi discorsi ci negano ogni possibilità di creare le nostre proprie categorie. Ma la loro azione più feroce è l’inflessibile tirannia che essi esercitano sul nostro io fisico e mentale. Quando usiamo il supergeneralizzante termine ‘ideologia’ per designare tutti i discorsi del gruppo dominante, releghiamo questi discorsi nell’ambito delle idee irreali, dimenticando la violenza materiale (fisica) che essi direttamente esercitano sulle persone oppresse...”.
Ed è Haraway a ricordarci che “le dispute sui significati della scrittura sono un aspetto importante della lotta politica contemporanea: abbandonare il campo può essere mortale”. In molti altri punti Haraway e Wittig si incontrano e dall’una all’altra corre il pensiero rileggendole: “Quindi è nostro compito e soltanto nostro, definire quel che chiamiamo oppressione in termini materialisti, rendere evidente che le donne sono una classe, il che vuoi dire che la categoria ‘uomo’ come la categoria ‘donna’ sono categorie politiche ed economiche, non eterne”. (Donna non si nasce, 1981, Wittig).
Così il cyborg: “è una creatura di un mondo post-genere: non ha niente da spartire con la bisessualità, la simbiosi pre-edipica, il lavoro non alienato o altre seduzioni di interezza organica ottenute investendo una unità suprema di tutti i poteri delle parti” (Haraway). È qui che ravviso una diversità di vedute tra il femminismo cyborg e la lesbica di Wittig, perché quest’ultima propende ancora all’umano, in senso idealistico (Wittig è di cultura umanista), mentre Haraway vive in un universo che è Scienza e dove le categorie dell’umano e del post-umano sembrano propendere infine per quest’ultimo.
È certo però che la lesbica di Wittig mette a tal punto in crisi i linguaggi e i sistemi eterosessisti che non è nemmeno facile ricondurla pari pari all’umanesimo, per quanto rivisto.
Wittig era consapevole di cosa significa ‘la costruzione sociale dei corpi’ e Haraway non solo ne è consapevole, ma ci invita a confrontarci con una costruzione dei corpi che dal punto in cui siamo potrebbe portarci, o avanti, o totalmente indietro.
Credo di poter dire che entrambe hanno cercato di inventare una nuova po-litica (forse Haraway con più seguito), ma Wittig, 30 anni fa, si è scontrata con il mito della ‘Donna’ e della ‘differenza’ uscendone perdente.
Viene ora riletta con quella impossibile nostalgia che si deve alle grandi, ma anche con l’impressione che danni irreparabili siano stati compiuti facendo passare un termine e un’ideologia reazionaria (la differenza sessuale) per un avanzamento.
In Italia è arrivato poco della polemica che altrove ha imperversato e io stessa sono testimone dell’interesse e dell’entusiasmo che nelle nuove generazioni di lesbiche italiane suscita il pensiero di Wittig. Non bisogna però dimenticare che lei scriveva certe cose decenni fa e ora si può sì assumerle come parte dei nostri discorsi, ma senza dimenticare che altre mappe si sono aggiunte nel frattempo e leggerle, intersecandole, è fondamentale.
In questo contesto è utile, per esempio (ed è stato fatto), rileggere Teresa de Lauretis e la sua lesbica né pre-edipica, né maschile, né isterica, con il cyborg di Haraway che, come ricordato sopra, è "creatura di un mondo post-genere”.
La scrittura come sopravvivenza è parte integrante di ogni discorso contro il potere. Oggi non possiamo esimerci dal pensare che la parola ‘potere’ designa molti poteri e noi come marginali (veri marginali in questo mondo di somiglianti), dobbiamo riconoscere che molte parole (sinistra-differenza-multiculturalismo) designano più che un’alternativa solo altre ‘énclavi’, terreno di coltura per fondamentalismi-tagliatori di teste-risorgenti intolleranze; e che i corpi delle donne sono usati dai fondamentalisti perché su di loro venga di nuovo e di nuovo scritto il discorso che vogliono continuare a imporci: l’inferiorità.
La complicità con questi discorsi non è solo letale, ma in ultima analisi è contro ogni diritto umano fondamentale e contro il mondo a venire.
La presunta ‘divinità’ di certi assunti, parte integrante di ogni discorso fondamentalista, è esautorata da altre scoperte (non conosciute o tenute nascoste); per quanto riguarda la rivelazione che concerne il Corano, a titolo di esempio, “nel 1972 i lavoratori che restauravano la grande moschea di Sana, nello Yemen, scoprirono un’enorme pila di manoscritti semimarci, che misero in sacchi e conservarono.
Tra quei fogli consunti, gli studiosi, scoprirono pagine di testi coranici risalenti ai primi due secoli dell’Islam.
Sorprendentemente, alcuni contenevano varianti della versione oggi accreditata, offrendo interessanti indizi sulla storia testuale del libro sacro dell’Islam” (Matthew Battles).
Secondo tutte le correnti dell’Islam invece, la versione del Corano non è mai cambiata dagli inizi, ma è stata ‘fedelmente’ trascritta. Con ‘fedelmente’, come con ogni estratto della parola fede, è possibile a quanto pare lavorare molto d’immaginazione.

“La lingua scaglia covoni di realtà contro il corpo sociale” (Wittig).

Ne ‘Il Cavallo di Troia’ Wittig dà la sua visione della scrittura e di cosa essa possa significare. “Ogni opera letteraria è, al momento della sua produzione, come il cavallo di Troia. Ogni opera che ha una forma nuova funziona come una macchina da guerra, perché il suo intento e il suo scopo sono demolire le vecchie forme e le regole convenzionali.
Un’opera simile si produce sempre in territorio ostile. E più questo cavallo di Troia appare strano, non-conformista, inassimilabile, più gli occorre tempo per essere accettato. Alla fin fine viene adottato e in seguito funziona come una mina, qualunque sia la sua lentezza iniziale. Scalza e fa saltare la terra in cui è stato piantato.
Le vecchie forme letterarie alle quali siamo abituati alla lunga sembrano antiquate, inefficaci, incapaci di operare trasformazioni” (Wittig).
La macchina da guerra di Wittig non ha nulla a che vedere con ogni sorta di scrittura impegnata o scrittura femminile, per la scrittrice francese infatti anche la scrittura ‘femminile’ è una formazione mitica così come ‘la Donna’ (‘formazione immaginaria’) e in quanto tale è messa in campo per confonderci. Wittig parla di due elementi con cui ogni scrittore ha a che fare: il primo, il corpus delle opere passate e presenti, l’altro ‘la materia bruta’. “Per la scrittura le parole sono tutto.
Molti scrittori l’hanno detto e ripetuto, (...) e anch’io lo dico: nella scrittura le parole sono tutto. (...) Le parole giacciono là come una materia bruta a disposizione dello scrittore proprio come l’argilla è a disposizione dello scultore.
Le parole sono ognuna di loro come il Cavallo di Troia. Sono delle cose, delle cose materiali, e allo stesso tempo hanno un senso. Ed è perché hanno un senso che sono astratte. Sono un condensato di astrazione e di concretezza e in questo sono completamente diverse da tutti gli altri medium di cui ci si serve per creare arte” (Il Cavallo di Troia).

Lo shock delle parole

Ma, perché “in letteratura le parole ‘siano’ date da leggere nella loro materialità”, è necessario operare “una riduzione sul linguaggio che lo spoglia del suo senso allo scopo di trasformarlo in un materiale neutro – cioè materia bruta”. Senza questa operazione si rischia di impantanarsi non solo nel vecchio, ma nel mediocre. A tal proposito ricordo un consiglio della poeta e scrittrice Mariella Bettarini, che, invitandomi a lavorare le parole ‘con più severità’, mi metteva in guardia dal cadere nel fare ‘diario’, non più in là insomma dell’autocoscienza.
“Per Schklovski, un formalista russo, le persone smettono di vedere i diversi oggetti che le circondano, gli alberi, le nuvole, le case. Li riconoscono senza guardarli veramente. E secondo Schklovski il compito dello scrittore è di ricreare la prima visione delle cose nella sua potenza, in contrasto con il banale riconoscimento che se ne fa tutti i giorni. Ciò che lo scrittore ricrea è effettivamente proprio una visione, ma non si tratta di quella delle cose ma piuttosto della prima visione delle parole, nella sua potenza. (...) È quello che io chiamo fare centro con le parole” (Wittig).
Una simile visione della letteratura dovrebbe rendere giustizia a Monique Wittig, permettendo anche a chi la denigra per opportunismo ideologico di riconoscere l’ampiezza del respiro che la sosteneva e la guidava. Lo shock delle parole proveniva per la scrittrice non dai concetti, ma dalle parole stesse, da come erano/sono disposte. Il lavoro sulle parole/con le parole è quello che fa la letteratura. Nella letteratura “le parole ci vengono rese intere. La letteratura può insegnarci qualcosa che può servire in qualunque altro campo: quando le parole lavorano, la forma e il contenuto non possono essere disso-ciati perché dipendono dalla stessa forma, la forma della parola, una forma materiale”. Ma perché in letteratura possa darsi una macchina da guerra, cioè un’opera realmente innovativa, è necessario che il punto di vista dell’autore si faccia da ‘particolare’, universale".
“L’impresa più essenziale e strategica del lavoro di ogni scrittore consiste nell’universalizzare questo punto di vista” (Wittig).

L’opera di Proust, come quella Djuna Barnes, sono da questo punto di vista, per Wittig, perfettamente riuscite. “Più il punto di vista è particolare e più l’impresa di universalizzazione esige un’attenzione sostenuta agli elementi formali che sono suscettibili di essere aperti alla storia come i temi, i soggetti del racconto e contemporaneamente alla forma globale del lavoro” (ibidem).

Il duro lavoro con le parole è dovuto anche al fatto che, come scriveva Virginia Woolf, la loro caratteristica più ‘sorprendente’ è ‘il loro bisogno di cambiare’. Troppo devono dire e infinite sono le narrazioni del mondo che le aspettano (e noi con loro) perché non cambino. In questo senso è grazie “a questa loro complessità che esse sopravvivono" (V. Woolf).

Parole non solo per me

Questo scritto non sarebbe completo, però, se in sintonia con la prassi femminista e lesbica a cui tanto devo, non vi aggiungessi una nota personale. Una nota sulla lettura. Ho avuto (ho), un rapporto con i libri – nella loro materialità e non solo testualità – molto intenso. Il desiderio di scrittura è sempre stato nel doppio senso di scriverla e leggerla. La storia che racconto non ha nulla di eccezionale, ma oggigiorno è bene ricordarla proprio perché tutto è più facile.
Alla fine degli anni ’70 e nei primi anni ’80, trovare in Italia letteratura lesbica era difficile. In tal senso ricordo “II pozzo della solitudine” della Hall e più in senso lato “La Ragazza di nome Giulio” di Milena Milani, che sfiorava il tema. Li lessi con grandi aspettative. Scovai Wittig (il Corpo Lesbico) nella Libreria delle Donne di Milano (si era già a metà anni 80, in pieno riflusso) e in via Dogana stazionavano con le loro tenute alla moda i paninari, imperversavano i discorsi revisionisti e le Timberland, le idee cominciavano a scarseggiare.
Leggere libri con la parola ‘lesbica’ o ‘lesbico’ a caratteri grandi sulla copertina vivendo in famiglia, era un’impresa non da poco. Non ancora effettivo il coming out, ricoprivo i libri (ricopertinandoli) con una spessa carta verde da pacco (e tali sono rimasti, in memoria). In una delle postfazioni a “Elementi di Critica omosessuale” di Mieli, uno studioso (mi pare americano), auspicava che la nuova edizione degli “Elementi”, potesse ormai essere letta e lasciata in bella vista sul tavolo di casa, per la visione di amici e parenti.
Venti anni fa questo semplice atto era a tal punto difficile che si era presi da un’angoscia esistenziale che ricordo e potrei descrivere ancora oggi. I libri erano però letti con debita sottolineatura. L’entusiasmo e l’amore per corpi e parola correvano nel segreto dei discorsi e dei gesti, fatti con le amiche di militanza. In tal senso “Il corpo lesbico” di Wittig, divenne un corpo – letteralmente – e da lì, data la pazienza e la ricerca, mai lontane dalla vita, che molte intrapresero intorno e dentro i libri non tradotti o poco tradotti di Monique Wittig. La biblioteca per molto tempo mi ha messo in difficoltà, e perché la vivevo solo come un posto per studenti, e perché fruire libri di argomento lesbico in pubblico era imbarazzante.
Prevaleva così l’acquisto in libreria e la lettura privata-appartata. Molta acqua doveva passare sotto i ponti perché l’orizzonte personale, prima e poi politico si allargassero. Nel frattempo vi sono stati gli anni trascorsi a Firenze e poi in altri posti e proprio gli anni a Firenze – con l’Amandorla, Liana Borghi e le altre compagne, li chiamo affettuosamente gli anni del ‘rinascimento (lesbico) fiorentino’, quando ho avuto modo di ascoltare i discorsi – prima capendoci poco, poi di più – che sono anche in questo scritto. Da scrittura a scrittura, in un gioco di citazioni e rimandi impegnativo, se le parole sono anche forma d’amore, è alla nostra narrazione collettiva – che in senso ampio comprende il “rinascimento fiorentino”, di cui ho parlato sopra, ma anche il CLI degli anni di Rosanna Fiocchetto e Giovanna Olivieri e i gruppi di ragazze incontrate lungo la strada lunghissima, percorsa attraversando linguaggi/speranze/emozioni/ amicizie/politiche/desideri/sogni/amori/amore e soprattutto vivendo sui confini, da margine a margine, in un conflitto, una tensione interiore da cui non si esce vincenti, ma cambiate – , che do queste pagine, consegno ‘parole’ che sono o vorrebbero essere non solo per me.

Nadia Augustoni

*Ringrazio Silvia Paradisi per la traduzione di “Il Cavallo di Troia” e Rosanna Fiocchetto per quella di “The Straight Mind” da lei già fatta uscire nella ‘Bollettina’ del CLI, 1990. Ringrazio Rosanna Fiocchetto anche per il materiale fornitomi su Monique Wittig (testi di interviste, articoli, segnalazioni e per l’introduzione da lei fatta per ‘Brogliaccio, per un dizionario delle amanti’, di cui parlo all’inizio di questo testo). Inoltre la ringrazio per avermi permesso di usare la bibliografia di W/ittig da lei compilata . Ringrazio le amiche che hanno letto questo testo dandomi utili consigli.

Note

1. Queste notizie sono in ‘I sessi sono due ‘ Di A. Fouque, Pratiche Editrice 1999. Altre notizie le devo a Rosanna Fiocchetto: nel I970 tre femministe francesi fecero un’azione all’Arco di Trionfo, depositarono una corona di fiori al monumento al milite ignoto recando un biglietto con la scritta: ‘ metà degli uomini sono donne’. L’episodio è noto, meno i nomi delle tre militanti: Monique Wittig, Margareth Stephenson (Namascar Shaktini), Cristiane Rochefort.
Il manifesto ‘Combat pour la libération de la femme’ è di Monique Wittig, Gilles Wittig, Margareth Stephenson e Marcia Rothenburg.
2. Tutte le citazioni di Leo Bersani a seguire, sono tratte da “Homos” 1994, Pratiche Edizioni.
3. Non bisogna dimenticare infatti che Wittig proveniva dall’ambito del femminismo francese, particolarmente di quello che si definiva ‘femminismo materialista’ (Christine Delphy) e non è mai stata o diventata antifemmi-nista pur essendo stata tra le prime a criticare costruttivamente le teorie essenzialiste di Luce Irigaray e altre. Nell’introduzione a “The Straight Mind ringrazia e riconosce il debito che ha con le femministe francesi dell’area di “Questions Feministes”, tra loro anche l’italiana Paola Tabet.
4. La differenza tra il pensiero di Wittig e quello di B. Preciado, J. Butler e Teresa de Lauretis è soprattutto sulla questione identitaria. Wittig postula il ‘soggetto’ lesbica, le altre teoriche propendono per una politica non identitaria o postidentitaria. Sottolineo più avanti comunque come la lesbica di Wittig sia un soggetto destabilizzante per l’eterosessismo, molto più, a volte, dell’inafferrabile non-soggetto queer.
5. La polemica tra M. Wittig e Hélène Cixous fu accesa. Cixous è tra le più note esponenti di quel filone di pensiero denominato ‘scrittura femminile’. Vedere anche: “II Riso della Medusa” di H. Cixous, in Critiche femministe e teorie letterarie, Clueb, Edizioni Bologna 1997.

 

Bibliografia

Bersani Leo, 1994 – Homos – Edizioni Pratiche Parma I999
Battles M., 2004 – Biblioteche una storia inquieta – Carocci Editore
Bhabha Homi, 2004 – II Diritto alla Scrittura, in La debolezza del più forte: globalizzazione e diritti umani – Mondadori
Butler Judith, 1990 – Scambi di Genere – Sansoni, 2003
Butler Judith, I991 – Corpi che contano – Feltrinelli, 1996
De Lauretis Teresa 1994 – Pratica d’amore – La Tartaruga, 1996
1996 – Sui Generis – Feltrinelli 1999 – Soggetti Eccentrici – Feltrinelli
Fiocchetto Rosanna 2003 – Introduzione a "Brogliaccio per un Dizionario delle amanti" di prossima uscita
Fouque Antoinette 1999 – I sessi sono due – Pratiche editrice, Parma Haraway Donna, 1996 – Manifesto Cyborg – Feltrinelli
Mieli Mario 1979 – Elementi di Critica Omosessuale – Feltrinelli, 1999
Milena Milani – La ragazza di nome Giulio – Mondadori
Rothblatt Martine 1995 – L’Apartheid del sesso – II Saggiatore,1997
Tabet Paola – Riproduzione imposta, sessualità mutilata, in DWF, n 23/24, 1985
Hall R. 1928 – II Pozzo della solitudine – Rusconi
Wittig Monique 1969 – Le Guerrigliere – Edizione pirata a cura de "Le lesbacce incolte" 1995 Bologna
1973 – II corpo lesbico – Edizioni delle Donne 1976
1964 – L’Opoponax – Einaudi 1966
1992 – The Straight Mind – non tradotto
Woolf Virginia 1937 – II Mestiere delle Parole, in "Come si legge un libro?”, Baldini e Castoldi 1999
Preciado Beatriz 2000 – Manifesto Contra-sessuale – II Dito e la Luna