rivista anarchica
anno 35 n. 307
aprile 2005


letteratura

Cecità/lucidità in José Saramago
di Gianfranco Marelli

 

Due “saggi” di José Saramago sul potere.

“Tutto nel mondo sta dando risposte, quel che tarda è il tempo delle domande.”
José Saramago

La necessaria essenzialità di un semplice “no”

C’eravamo abituati al fatto che i premi Nobel per la letteratura fossero il coronamento di un percorso, contrassegnato da lampi e folgori in un cielo plumbeo, dove lo scrittore era stato capace di squarciare indelebilmente l’opaca atmosfera quotidiana dell’usuale. Ugualmente avevamo assistito all’ineluttabile tramonto di chi – giunto alla sommità – si concedeva il meritato riposo, attorniato da studiati commiati e referenziali applausi.
Fortuna vuole che l’opera di José Saramago (unico scrittore di lingua portoghese insignito del premio Nobel per la letteratura, nel 1998) abbia sparigliato ancora una volta le carte, ripercorrendo a ritroso la strada fin qui intrapresa.
Una strada contrassegnata da continui e ripetuti “no”; quei “no” che lo stesso autore in un’intervista afferma di aver ribadito “molte volte, forse troppe, perché in quel momento non ne valeva la pena e forse non convinceva nessuno”, ma che rappresentano in definitiva le uniche parole necessarie, le sole parole essenziali, capaci di affermare la propria distanza dalle belanti voci del coro.
Coerente ad un simile proposito, Saramago si è sempre mostrato refrattario alle lusinghe di una notorietà conquistata faticosamente, cogliendo ogni momento del suo scrivere per creare stadi d’inquietudine nei lettori e fastidi in una critica abituata ad officiare tributi a chi non è più ciò che voleva essere.
Così, alla veneranda età di ottantadue anni, il poeta lusitano, dando alle stampe il suo nuovo “Saggio”, si è regalato il lusso di un ulteriore “no” sbattuto in faccia alla forma più rispettata, acclamata, reclamizzata dal potere: la democrazia. Nel farlo è stato però molto attento a porre la sua critica sociale in continuità letteraria con ciò che ha sempre caratterizzato la sua poetica comunicativa, composta di parabole atte a rendere comprensibile la realtà, celata dietro l’abitudine di trovare risposte pronte pur di non porsi domande inquietanti.
Ensaio sobre a Lucidez (“Saggio sulla lucidità”), espressamente si richiama ad uno dei precedenti capolavori, Ensaio sobre a Cegueira (pubblicato nel 1995 e tradotto in italiano nel 1996 col titolo abbreviato in “Cecità”) –, dove la ricerca di elaborare una poesia critica ai tanti problemi del vivere umano si coniuga con una feroce accusa nei confronti dei meccanismi di controllo, consenso, repressione del sistema dominante. Ed è proprio nel cercar di seguire il percorso narrativo intrecciato fra queste due opere, che vorremmo osservare lo spessore stilistico e la profondità analitica caratterizzanti l’agire poetico/filosofico del Premio Nobel lusitano.

José Saramago

Romanzo come saggio, trattato, memoriale, storia

Occorre innanzitutto comprendere che le opere di José Saramago confessano l’impegno nel giustificare la letteratura al pari di un viaggio, da percorrere in compagnia del lettore, verso un luogo la cui conoscenza descrittiva non è di per sé bastante. L’indagine, l’analisi, il commento, appaiono infatti essere gli elementi caratterizzanti il linguaggio poetico del lusitano, che ricerca nel lettore il complice del farsi narrativo, non nella veste di chi assiste all’evento descritto, ma di correo dell’evento stesso.
Alcuni dei suoi più significativi romanzi assumono – sin dal titolo – l’austera e grave dicitura di “trattato”, “memoriale”, “storia”, “saggio”, volendo in tal modo sottolineare che la letteratura non è un semplice divertissement, un accontentarsi di raccontare – come direbbe Fernando Pessoa per bocca dell’eteronimo Ricardo Reis – “lo spettacolo del mondo”. Perché Saramago è sì un grande, straordinario, inventore di “storie”, però è soprattutto un creatore di “parabole” per comprendere l’essere umano nella sua cruda essenzialità.
Come la critica letteraria ha ampiamente documentato (e ci riferiamo in particolar modo agli studi di Luciana Stegagno Picchio e Paolo Collo, cui queste note sono in parte fortemente debitrici) la produzione poetica di José Saramago è caratterizzata da trasformazioni stilistiche che precisano sempre più radicalmente il suo rapporto ostile, estraneo, indifferente, con una “letteratura” – come l’autore stesso si espresse in un’intervista – che non sia “parte della Vita, del Tempo, della Cultura, della Società”. Sarebbe però limitante considerare tutto ciò una riedizione della “letteratura d’impegno”, è piuttosto un impegno che la letteratura si assume nell’affrontare la realtà sociale come materiale critico a cui fornire forma stilistica.
La letteratura diviene così una forma stilistica in grado di riappropriarsi della realtà in quanto può meglio osservarla – addirittura sentirla – in profondità, e nel far ciò supera la sua essenza descrittiva di superficie, per divenire “storia”, “saggio”. Non più soltanto un “romanzo”. Ma del romanzo conserva l’armoniosa virtù di un sapere narrato a più voci: quella dell’autore, dei personaggi, dei lettori.

Linguaggio scritto per l’orecchio

Proprio lo “stile orale”, a più voci, caratterizza la prosa letteraria di José Saramago che si impone prepotentemente con la pubblicazione di Levantado do Chão (“Alzato dal suolo”, tradotto in italiano col titolo “Una terra chiamata Alentejo”), romanzo del 1980. In quell’occasione si osservava la profonda trasformazione stilistica dell’autore rispetto alle prime poesie, cronache, racconti e testi teatrali, preoccupati principalmente dell’elaborazione di un linguaggio di stretta osservanza logico-cartesiana, dove il prevalere dell’impegno giornalistico aveva condotto Saramago ad una prosa asciutta, essenziale e descrittiva, nonostante fosse ammorbidita da quel “realismo fantastico” in grado di dar vita e pensiero persino agli oggetti. Si pensi – per esempio – ai sei racconti della raccolta Objecto Quase (“Oggetti o quasi”, 1978), in cui si può leggere lo splendido Cadeira (“Sedia”) che descrive, anticipandola, la caduta per consunzione del regime di Salazar, attraverso la reale caduta del vecchio dittatore dalla sedia di mogano che un provvido tarlo, in anni e anni di silenzioso lavoro, aveva intaccato in una gamba fino all’ultimo morso capitolare.
È questo un linguaggio di fine intensità poetica (espresso in un ermetismo depistante per sfuggire alla censura del regime fascista prolungatosi per oltre quarant’anni) nel quale l’autore riesce ad esprimere la propria critica sociale, sebbene rimanga impigliato in una logica soggettiva, in un corpo a corpo che Saramago ingaggia con la dittatura di Salazar dalle pagine dei giornali in cui scrive e attraverso le poesie e i racconti che pubblica. Il passaggio ad un linguaggio/azione corale avverrà, appunto, con la stesura di un romanzo proletario, Levantado do Chão, affresco collettivo che racconta la dura e sofferta lotta dei contadini contro il feudalesimo medievale dei grandi proprietari terrieri dell’Alentejo – una delle regioni agricole più povere del Portogallo –, in cui Saramago riuscirà, per la prima volta, ad esprimersi nel suo inconfondibile stile autodiegetico.
Infatti Levantado do Chão, oltre ad essere il romanzo della notorietà, è soprattutto l’opera che afferma l’inconfondibile “stile orale” del poeta lusitano, il cui carattere barocco è teso a registrare l’atmosfera di un insieme di suoni variopinti di chi ama raccontare, perdendosi nelle pieghe dei dettagli per poi ritrovarsi ricostituito e compatto in un discorso narrativo privo d’interruzione, poiché corale. La stessa visione tipografica della pagina per la sua voluta mancanza di interpunzione – che non siano le rispettose e umili virgole e punti – rafforza, ingigantendola, la compattezza della scrittura sino a farla uscire dalla materialità bianca della pagina, dandole consistenza vocale.
La particolarità di questa scrittura orale, ricorda le pagine celiniane (in particolar modo del Voyage au bout de la nuit e di Mort à credit), dove l’aposiopesi – la reticenza nel parlare tradotta su pagina grazie alla sospensione dei puntini (…) – riesce a ricostruire perfettamente i tempi propri di un discorso narrato, così come l’incalzante repentinità delle virgole nel testo saramaghiano, consente di non dar respiro ad una raccontare frenetico ed emozionante. Con una profonda diversità, però. In Celine la vocalità del discorso scritto è soggettiva e in gran parte introspettiva; in Saramago non solo è corale, ma addirittura polifonica, poiché vi confluiscono tutti i suoni dell’atmosfera creatasi da una determinata situazione, che esige, impone, una scrittura orale perché pensata e costruita per essere letta, meglio: raccontata. Infatti, è ascoltandola che la prosa di Saramago crea quella coralità in grado di far sentire al lettore il suono polifonico – ancor prima delle immagini – delle parole dei protagonisti del racconto; parole che si sovrappongono inseguendosi senza tregua, pur nel nitore di ogni loro timbrica atmosfera.
Linguaggio scritto per l’orecchio e non solo per gli occhi, la prosa dello scrittore lusitano doveva necessariamente oltrepassare la bravura descrittiva della forma, per sentirne il suono al suo interno; come se la capacità mostrata fin qui nell’osservare la realtà sociale del suo Paese gli imponesse di scavare in profondità sino a raggiungere l’essenza universale di quella stessa realtà sociale, che – ovunque e in ogni luogo – è sentita in quanto dolore sordo, cupo, inquietante.
Era dunque giunto a maturazione il tempo perché Saramago scrivesse un “saggio” sulla cecità. Un saggio – come egli stesso dichiarò nella sua oratoria di saggezza per il conferimento del Premio Nobel – “per ricordare ai lettori che usiamo in modo perverso la ragione quando umiliamo la vita, che la dignità dell’essere umano è insultata tutti i giorni dai potenti del nostro mondo, che la menzogna universale ha preso il posto delle verità plurali, che l’uomo ha smesso di rispettarsi quando ha perduto il rispetto che doveva al suo simile.”

Entrare nella pietra

Ensaio sobre a Cegueira è il perfezionamento dello stile corale della scrittura di Saramago, sviluppato e proiettato all’interno dell’elemento descrittivo della narrazione. Se finora l’autore con i suoi precedenti romanzi – da “Memoriale del convento” (1982), a “L’anno della morte di Ricardo Reis” (1984), a “La zattera di pietra (1986), a “Storia dell’assedio di Lisbona” (1989) – aveva saputo descrivere la “statua”, ora sentiva il bisogno di far vivere la “pietra”. Come se – racconterà il poeta lusitano in occasione del conferimento della laurea honoris causa attribuitagli dall’Università di Torino nel 1987 – “mentre componevo tutti quei libri mi fossi dedicato a descrivere una statua. Ora, che cos’è una statua? È la superficie della pietra, il risultato di quanto è stato tolto dalla pietra.”
La pietra – si sa – è ciò che rende possibile la statua. È la sostanza che racchiude in sé l’essere materia liberatasi nella forma. Descrivere la forma (la statua) significa anzitutto conoscere la materia (la pietra) che l’ha resa libera: ciò che è la statua ancor prima di svelarsi ai nostri occhi. Ed è questa la tesi espressa da Saramago con il romanzo “Cecità”, quando, fin dall’incipit narrativo (la repentina ed inesplicabile cecità che aveva contagiato un intero Paese), sottopone il lettore all’inquietante considerazione secondo cui “Il problema non sta nel fatto che tutti quanti diventino ciechi, quanto nel fatto che già tutti lo siamo.”
L’azione del romanzo, a detta dell’autore, “si svolge in una società o in un mondo o in una capitale del mondo o dovunque vivano gli esseri umani. È un’epidemia di cecità che copre e oscura tutti gli esseri umani”. Non è dato capirne il perché, la causa; basti riflettere sulle conseguenze per comprendere – ci suggerisce Saramago – che la cecità senza i ciechi, è una parola priva di senso: non esiste. L’importante è scoprire che quella cosa che chiamiamo cecità, quella cosa è dentro di noi… “è quella cosa è ciò che siamo.”
Non a caso fin dalla descrizione che ne fa il “primo cieco” colpito dall’epidemia ( e come lui “la moglie del primo cieco”, “il medico”, “la ragazza dagli occhiali scuri”, “il vecchio dalla benda nera”… perché i ciechi “non hanno bisogno del nome”) siamo informati che la cecità non è una luce che si spegne, ma si accende. Una luce illuminante il baratro delle nostre passioni costantemente contrite e trasformate dalla possibilità/impossibilità di soddisfare i nostri bisogni, le nostre furie. Una luce bianca, come un mare lattiginoso, allappante, che sommerge indistintamente tutti, rendendoci simili gli uni agli altri: “Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.”
Come tutte le tragedie, però, anche questa ha una sua catarsi che anticipa la riacquistata e definitiva possibilità di vedere, ritornando a vivere come un tempo, quando le immagini del mondo costituivano l’unica possibile esperienza in un mondo di sole immagini.
Anzi, sembra che la fine dell’incubo non sia tanto nel progressivo, ineludibile ed altrettanto inspiegabile ritorno al mondo delle immagini in seguito alla scomparsa della cecità dagli occhi di tutti, quanto piuttosto nel misterioso e impenetrabile prodigio che ha consentito ad una sola persona, la “moglie del medico”, di salvarsi dall’epidemia: gli unici occhi che non hanno mai smesso di vedere, quando tutti gli occhi del mondo – perfino gli occhi di dio – erano diventati ciechi.
Si sa, “in terra di ciechi l’orbo è re.” Vedere ciò che nessun altro può, rende sicuri, forti, potenti. Ma anche schiavi. Schiavi di chi non può vedere… di chi ha bisogno degli occhi di un’altra persona per vedere…di chi s’illude di vedere… di chi si nasconde pur di non vedere…. Tutto ciò diviene insopportabile, non per chi si adatta alla condizione di cieco, ma per chi si ostina ancora a vedere, accorgendosi che se non vi sarà nessuno che vorrà/potrà vedere, a sua volta egli stesso diverrà cieco. A poco a poco, com’è successo agli altri: “diverrò sempre più cieca di giorno in giorno – farà dire Saramago alla “moglie del medico” – perché non avrò più nessuno che mi veda.”
Il dramma di chi è costretto a fingersi cieco pur continuando a vedere – il dramma della “moglie del medico” – è il dramma di chi ha fatto esperienza di che cos’è la cecità del mondo: la perdita di una ragione non più in grado di vedere, sentendola come propria, la sofferenza, il dolore, l’umiliazione che l’uomo infligge all’altro uomo.
Con crudeltà. Una cieca crudeltà per la conquista del potere. Pure – è la fiduciosa speranza di Saramago che, infine, affida al “saggio” sulla cecità – l’umanità si salverà per salvare chi l’ha aiutata a salvarsi: la “moglie del medico”, che ha avuto il coraggio di vedere quando tutti erano ciechi, fingendosi cieca. Per amore del suo uomo. Per amore degli uomini. Che siano quello che siano.

Serata di lettura e audizione del romanzo Cecità di José Saramago, svoltosi lo scorso 14 gennaio al Liceo Classico di Ischia

Dalla cecità alla lucidità dell’umanità

Proprio questa umanità che si è salvata dalla cecità, è protagonista dell’ultimo romanzo di Saramago: Ensaio sobre a Lucidez (“Saggio sulla lucidità”). Con un’unica differenza: è un’umanità maggioritaria, non più generale. Infatti, se la “cecità” è una condizione che riguarda tutti, perché colpisce tutti, la “lucidità” interessa i più e conduce alla preoccupazione, all’inquietudine, i pochi. Quei pochi – la maggioranza di una minoranza – ancora impegnati nell’esercizio del potere: far credere di essere necessari per l’ordine, la sicurezza, la tranquillità, della società umana.
L’andamento musicale – i tempi, i ritmi diegetici – di quest’ultimo romanzo saramaghiano sono speculari al precedente saggio. Analizzando, ad esempio l’incipit, si può osservare quanto l’azione coinvolga non più una sola persona (“il primo cieco”) per poi estendersi alla totalità, bensì la maggioranza dei cittadini che – chiamati al voto – pongono nell’urna elettorale la scheda bianca, invece di esprimersi a favore di uno dei partiti in lizza per le elezioni politiche, al punto da inquietare il Governo democratico e indirizzarlo alla ricerca del capro espiatorio di una simile e inspiegabile “cecità”.
Di più: se in Ensaio sobre a Cegueira l’epidemia – a seguito del suo progredire esponenziale, prima, e del suo regredire definitivo, poi – segnerà uno sprofondare nell’abisso dei comportamenti umani da cui infine riemergere ancora una volta colmi di speranza, in Ensaio sobre a Lucidez la speranza che qualcosa di nuovo sia accaduto, al punto che nulla potrà esser più come prima, accompagna fin dall’inizio il raccontarsi dell’evento – assumendo marcati e travolgenti effetti comici, (riassumibili, qui e per brevità, nell’aggettivo “biancoso” con il quale il governo appella chi si è permesso di votare scheda bianca in quantità “così eccessiva” da diventare sovversivo) – ma finirà per spegnersi drammaticamente quando la necessità di individuare il responsabile di un simile atto sovversivo che ha saputo organizzare la maggioranza dei cittadini nel non fare un “uso prudente” del voto, travolge ogni logica e inonda mortalmente l’intera umanità, colpendo la “moglie del medico”, l’unica a vederci allora, al tempo dell’epidemia di cecità bianca che coinvolse l’intera popolazione e, pertanto, tutt’ora l’unica rea dell’attuale cecità che ha condotto la maggioranza a votare scheda bianca.
Nel ricollegare questo nuovo “saggio” con il precedente, è stata preoccupazione di Saramago sondare in profondità i meccanismi di riproduzione dell’esercizio del potere, cogliendo diversità e differenze fra il potere dei “ciechi malvagi”, affermatosi mediante l’utilizzo della forza della violenza, e il potere del “governo democratico” che, del tutto sorpreso a seguito dell’uso inappropriato del voto da parte dei cittadini della capitale, riafferma il proprio controllo attraverso la pratica violenta della propria forza.
Se, infatti, sono i bastoni, ma soprattutto la pistola in mano al capo dei “ciechi malvagi” ad acclarare il potere di vita e di morte sulla comunità reclusa nell’ex manicomio durante il diffondersi – quattro anni prima – dell’epidemia bianca, ciò che ora assicura al “governo democratico” il controllo sulla cittadina posta in stato d’assedio è l’uso violento della forza messo in atto attraverso l’infiltrazione, la manipolazione, la repressione, per convincere i suoi cittadini di esser stati nuovamente contaminati dalla cecità.
Non per nulla – crediamo – le pagine dei due saggi saramaghiani su questo tema si cercano reciprocamente, sviluppandosi in maniera antitetica, grazie a un serrato contrappunto armonico di fine espressività poetica, tale da dettare una sequenza temporale dal “serio”, al “grave”, al “sereno” per quanto concerne Ensaio sobre a Cegueira, mentre per Ensaio sobre a Lucidez dallo “scherzo”, al “sereno”, al “tragico”.
Così, se il percorso narrativo di “Cecità” giunge agli estremi con una descrizione orrida e orripilante della presa del potere da parte dei “ciechi malvagi” che dominano la situazione a suon di minacce, soprusi, violenze, fino al punto in cui la “moglie del medico” saprà fare giustizia, l’ultimo romanzo di Saramago percorre stanze narrative in cui da situazioni burlesche – che descrivono la difficoltà del “governo democratico” nel riorganizzarsi per riprendere il controllo di una realtà sociale ormai autonoma e in grado di autogestirsi – si perviene a situazioni tragiche dove la necessità di porre ordine ad uno stato di tranquilla armonia presente all’interno della cittadina “ribelle”, condurrà il “governo democratico” ad organizzare il disordine mediante un attentato terroristico pur di riaffermare il bisogno del proprio ordine.
Ed è proprio la dicotomia fra la tranquilla quotidianità di una cittadinanza che semplicemente ha detto “no” a chi esercita il potere – proseguendo imperturbabilmente il proprio tran-tran giornaliero, sebbene lo stato d’assedio prima, l’atto terroristico poi, l’aggressione psicologica dei media sempre, cerchino in tutti i modi e con tutti i mezzi di inquietarla ed impaurirla – e la spasmodica preoccupazione di un governo, seppur democratico, di impedire il diffondersi della possibilità di esautorare (utilizzando i medesimi meccanismi elettorali) il sistema rappresentativo dei partiti, a tessere la narrazione della storia di un substrato analitico in grado di chiarire i molti lati oscuri, ciechi, del potere.
Lati oscuri, ciechi, che soltanto la lucidità squarcia dall’interno per far emergere quanto non possano esistere “poteri buoni”.
Per questo Ensaio sobre a Lucidez – come si cerca e si vuole far credere da parte di una critica disorientata e da un’editoria allarmata – non è “un avvincente ‘giallo politico’ in cui ritornano gli indimenticabili protagonisti di ‘Cecità’”. È molto di più.
È un saggio critico sul potere democratico attraverso l’analisi dei meccanismi che inducono all’obbedienza e alla rassegnazione partecipative. È un’accusa – tradotta all’istante in dura condanna – nei confronti della democrazia in quanto potere proiettato ad autolegittimarsi come unica, sola, organizzazione sociale che non accetta nessuna critica, sia pure quella democratica.
Perché – e José Saramago non può essere più esplicito, quando per bocca del “commissario” accusa la “moglie del medico” di aver tramato contro la democrazia, votando e facendo votare scheda bianca – “chiunque deve capire che si tratta di una semplice questione di gerarchia di valori e di senso comune, in primo luogo ci sono i voti espliciti, poi vengono le schede bianche, poi le nulle, infine le astensioni, […] la democrazia si troverebbe in pericolo se una di queste categorie secondarie passasse in testa alla principale, se i voti ci sono è perché se ne faccia un uso prudente.”

…altrimenti ci arrabbiamo!

Ora si può comprendere il crimine di cui è accusato Saramago, quello che l’ha spinto – come tutti i criminali – a ritornare sulla scena del delitto: non esser diventato cieco in un mondo dove tutti lo sono. Di più: aver svelato le cause della cecità nella rappresentazione di un potere rappresentativo – la democrazia – che obnubila la ragione e la prostra dinnanzi ad un’autorità totalmente priva di autorevolezza, poiché cooptata all’interno di una maggioranza composta dalla minoranza degli eletti, preoccupati di autolegittimarsi unici rappresentanti del potere democratico, senza alcun’altra qualità se non quella di rigenerarsi continuamente attraverso il suffragio elettorale.
Infatti, poco importa il risultato delle elezioni, ciò che conta è votare chi bisogna votare. Ma soprattutto evitare un uso abusivo – seppur legale – del voto. Altrimenti… altrimenti ci arrabbiamo!
Tuttavia non è facile liquidare il caso Saramago, limitandosi ad asserire quanto egli sia sempre stato – nella sua vita quanto nel suo lavoro – privo di politically-correct, al punto da essere sospettato un sovversivo, un terrorista, ponendo così fine a qualsiasi discussione. Perché trovare un nome a ciò che ci inquieta non serve a calmarci, come se chiamare morte la morte fosse sufficiente per non temerla più.
E poi, Saramago stesso, in più interviste, ha finito per rivelare il suo sentirsi comunista causato da un fattore ormonale: “Oltre all’ipofisi, io ho nel cervello una ghiandola che secerne ragioni affinché io sia stato e continui a essere comunista. Quelle ragioni le ho trovate, un giorno, condensate in un motto de “La Sacra Famiglia” di Marx e Engels: “Se l’uomo è formato dalle circostanze, bisogna formare le circostanze umanamente. Le circostanze non le ha formate umanamente il socialismo pervertito, e tanto meno le formerà mai il capitalismo, che è pervertito per definizione. Dunque, il mio cervello continua a secernere ormoni ...”.
Certo, grazie alla mappatura del genoma, si potrebbe intervenire con terapia genica, anche se – come sosterrebbe Lewontine – risulta difficile in campo biotecnologico individuare il gene portatore di una simile devianza, pena dover classificare l’intera specie umana…come dire… di natura comunista. E allora? Allora, forse, non rimane che osservare quanto Saramago nel suo ultimo “saggio” ha voluto porre in chiara evidenza: se la cecità può colpire tutti – in quanto ciechi “già tutti lo siamo” – allo stesso modo la lucidità può colpire i più. Perfino i più insospettabili.
Addirittura il “ministro della giustizia” – come apprendiamo, sorpresi, in Ensaio sobre a Lucidez –, che, in pieno consiglio del governo, pose in dubbio se aver votato scheda bianca da parte della maggioranza dei cittadini, fosse una manifestazione di cecità o di lucidità. “Come osa, pronunciare una simile barbarità antidemocratica, dovrebbe vergognarsi, non sembra neanche un ministro della giustizia, sbottò quello della difesa, Mi domando se sono mai stato tanto ministro della giustizia o di giustizia, come in questo momento, Ancora qualcosina e mi farà credere che ha votato scheda bianca, osservò il ministro dell’interno ironicamente, No, non ho votato scheda bianca, ma ci penserò alla prossima occasione.”
Inquietante? No, saramaghiano.

Gianfranco Marelli