rivista anarchica
anno 35 n. 307
aprile 2005


internazionale

Un clima surreale
di Antonio Cardella

 

Il viaggio di Bush in Europa è stato meno proficuo di quanto egli non potesse sperare.


A circa un mese dal viaggio di George W. Bush in Europa sono in molti a chiedersi quali obiettivi reali tale viaggio avesse, considerato che ben poco c’era da sapere che già non si sapesse della posizione dell’Europa che conta, e cioè che, specie nei riguardi della dissennata avventura in Iraq, gli americani non potessero ragionevolmente attendersi una significativa inversione di tendenza della posizione europea Malgrado le dichiarazioni trionfalistiche all’indomani del voto di fine gennaio, infatti, appare sempre più chiaro che con quel voto gli otto milioni circa di elettori hanno inequivocabilmente espresso la speranza e l’urgenza di essere lasciati soli e liberi di risolvere i loro problemi. La prova inequivocabile di ciò è la pesante sconfitta del partito di Allawi, il più tenace sostenitore della permanenza della Coalizione nel territorio iracheno, e la grande affermazione delle formazioni sciite dell’ayatollah Al Sistani, il quale, subito dopo la chiusura dei conteggi, ha esplicitamente auspicato la sollecita partenza di tutte le truppe straniere quale premessa necessaria per avviare un’opera di riconciliazione e di ricostruzione del Paese arabo.

Tentativi di divisione

Altra questione che appariva scontata era il fallimento del tentativo dei falchi repubblicani USA di dividere il Vecchio Continente tra i Paesi fondatori dell’UE e nuovi aggregati: a conti fatti, è apparso chiaro che questi ultimi, al di là dell’iniziale adesione alla politica americana in Medioriente, hanno perfettamente compreso come avessero tutto da guadagnare dal processo di integrazione europea e molto da perdere nel sabotarlo. La stessa Polonia, che fu la più sollecita ad approvare la politica della guerra preventiva di Bush, deve essersi fatta bene i conti, visto che dall’UE, nei primi otto mesi dalla sua adesione, le sono piovuti nelle tasche 2,2 miliardi di euro, il doppio di quanto non le sia costata l’adesione. Del resto l’appoggio di questi Paesi alla guerra è stato sostanzialmente simbolico, né l’America stessa si attendeva qualcosa di diverso: il suo solo disegno era quello di inserire un cuneo nell’aggregazione europea per indebolirne le resistenze alla sua politica imperiale. Da questa angolazione, quindi, le cose sono rimaste sostanzialmente immutate: Francia e Germania non hanno modificato il loro rifiuto di mettere un dito per togliere la castagna dal fuoco iracheno, anche se, nelle pieghe del discorso politico, l’America abbia ritirato l’“asso piglia tutto” che originariamente aveva buttato sul tavolo della ricostruzione dalle macerie provocate dalla demenziale spedizione militare. Neppure la NATO ha lasciato molte porte aperte per il suo coinvolgimento: ad eccezione della sua adesione ad una imprecisata conferenza dei Paesi aderenti ad una conferenza per l’Iraq, poco o nulla è stato concesso, se si fa eccezione per la riconfermata disponibilità ad addestrare le reclute del futuro Stato iracheno.
Altro obiettivo mancato dalla strategia americana di guerra è stato quello, mai dichiarato ma trasparente, di condizionare, con il controllo delle fonti energetiche, lo sviluppo dell’Europa, egemonizzando, direttamente o indirettamente, quei Paesi dell’area aderenti all’OPEC, dai quali l’Europa in larga misura dipende. Certo, alcuni soggetti come l’Arabia Saudita vivono nel terrore che una loro deviazione dalle direttive americane possa provocare reazioni violente dalle conseguenze disastrose, ma la politica del terrore alla lunga non paga mai, soprattutto quando, ai confini dei Paesi minacciati, vi sono popoli risoluti a contrastarla.

Respiro corto

Infine, dal punto di vista economico, l’Europa incide sugli interessi d’oltre Atlantico in misura certamente minore di qualsiasi altra area del mondo. L’apprezzamento dell’euro sul dollaro ha limitato l’esportazione dei prodotti europei verso gli Stati Uniti, ma, di converso, non ha incrementato l’export americano verso l’Europa. Per la verità questa situazione penalizza le economie del Vecchio Continente più che impensierire l’amministrazione Bush. La quale, tuttavia ha, nei confronti dei Paesi dell’Occidente europeo, il respiro corto del saldo passivo della sua bilancia finanziaria. Deve, cioè, preoccuparsi che gli investimenti europei, finanziatori di fatto del suo deficit pubblico, non siano richiamati in patria per sostenere misure di sostegno dei rispettivi stati sociali, gravati soprattutto dall’invecchiamento della popolazione. Una preoccupazione assai fondata e che non riguarda soltanto il versante europeo, se si considera che ben il 56% dei titoli pubblici americani a lungo termine sono in mano a investitori pubblici e privati esteri, in prevalenza asiatici ed europei (dati ufficiali provenienti dal Department of the Treasury e della Federal Reserve Bank of New York). Da questa angolazione, quindi, nel suo viaggio nelle capitali europee Bush ha mostrato la debolezza di fondo della sua strategia imperiale: sinora la sua potenza militare è stata sostenuta da un crescente stato debitorio nei confronti dell’estero, ma non è detto che questo trend continui. Anzi, vi sono segnali contrari. Nei Paesi industrializzati del Continente europeo, la pressione fiscale, per quanto elevata, mostra la sua incapacità di far fronte alle esigenze di una popolazione attiva in decremento preoccupante, incapace, quindi, di finanziare le esigenze crescenti di politiche interne equilibratrici. Ciò significa che, a prescindere dalle singole vocazioni politiche, le disponibilità di investimenti all’estero sono in costante decrescita. Per l’America, in una prospettiva più o meno lontana, questo dato denuncia la necessità di attuare misure di restrizione monetaria e fiscale, di fronteggiare un rallentamento significativo della crescita e di ridimensionare drasticamente le sue attuali velleità di dominare il Pianeta.
La consapevolezza di questa debolezza di fondo della politica americana, se non ha diminuito il cipiglio oratorio del presidente texano, ha certamente reso meno permeabili alle sue pretese gli interlocutori di questa parte dell’Atlantico. Da qui la cortesia tutta formale dell’ospitalità, ma anche la vaghezza di intese future, che in ogni caso dovranno tener conto – e questo è stato detto esplicitamente – del diverso approccio ai conflitti attuali, quello europeo che si basa sull’azione diplomatica, e quello americano che non esclude l’uso della forza.

Pallido ricordo

Esiti non molto diversi ha avuto l’appuntamento con la Russia di Putin. È ormai un pallido ricordo l’idillio tra il premier russo e l’America di Bush sul versante dell’antiterrorismo. La questione cecena non è per Putin la sola emergenza, sull’onda della quale navigare in sintonia con chi aveva subito l’attacco alle Torri gemelle. L’idillio finisce quando, ad una solidarietà verbale reciproca, che non costa nulla, si sommano emergenze che riattualizzano i conflitti di fondo, come la recente crisi ucraina. Putin accusa Bush di lavorare per isolare la Russia, denunciando la parte attiva svolta dalla CIA, sia nel sostegno offerto ai secessionisti ucraini, sia le pressioni per elevare il livello dell’opposizione georgiana al centralismo russo. Lo abbiamo già accennato in altra occasione; Putin è in grande difficoltà nell’arginare le spinte centrifughe che si accentuano ai suoi confini: i Paesi baltici a nord, l’Ucraina a sud-est consentono la penetrazione di fattori destabilizzanti, aggravati da frontiere vaste ed insicure con la Cina, in primo luogo, e il Pakistan. È vitale per Putin rompere l’assedio e la sua politica di esplicito appoggio nei riguardi di un Iran, che incrementa il suo potenziale nucleare malgrado le proteste e le minacce americane; ed una Siria, che non molla la sua presa sul Libano, è un chiaro ammiccamento alla Cina ed ai popoli mediorientali, attualmente sotto tiro dell’amministrazione repubblicana USA. Certo, Putin sa bene di non poter tirare troppo la corda: uscire allo scoperto con aggressività gli impedirebbe, da un canto, di ricevere gli aiuti che l’America ancora gli elargisce; dall’altro insospettirebbe gli europei, molto più prudenti nel bilanciare il loro appoggio (interessato) al Medio Oriente arabo, con l’esigenza primaria di non incrinare il fronte occidentale.
In tale clima surreale, nel quale prevalenti erano le cose non dette ma che costituivano bordone inquietante di ogni convenevole, era naturale che gli interlocutori, alla fine, si ritirassero nelle loro camere oppressi dalla fatica e con il carniere vuoto.

Antonio Cardella