rivista anarchica
anno 35 n. 307
aprile 2005


ambiente

Necessità di una mutazione globale
di Andrea Papi

 

Secondo dati ufficiali stiamo marciando a vele spiegate verso il collasso e una generale catastrofe.


Domenica 13 febbraio 2005. Primi effetti della normativa europea in materia di salute ambientale entrata in vigore il 1 gennaio 2005, la quale prevede un massimo in un anno di 35 giorni di superamento della soglia di 50 microgrammi di polveri sottili per metro cubo. Il fatto è che a questa data, in Italia, già diverse città avevano ampiamente consumato il “bonus” d’inquinamento a disposizione, quindi si erano trovate fuorilegge e, se non fossero corse ai ripari in qualche maniera, si sarebbero trovate costrette a pagare multe salatissime. Così, in questa domenica di febbraio 2005 città come Milano, Mantova, Bologna, Ferrara, Ravenna, Roma ed altre, hanno dovuto attuare un parziale blocco totale del traffico, nel tentativo off-limits di non risultare al di là della normativa europea. Ho scritto parziale, che può risultare in contraddizione con totale, perché non è stato per tutta la giornata, ma solo per certe fasce orarie, variabili da città a città.
Il mercoledì successivo, 16 febbraio, è entrato in vigore il tantissime volte evocato protocollo di Kyoto. Lo stesso giorno si è svolta una riunione programmata tra i sindaci delle città e Altero Matteoli, il ministro dell’ambiente in carica, con lo scopo di definire una strategia comune per diminuire l’effetto inquinante dell’operare umano fino a farlo rientrare nei limiti “consentiti”. In seguito a questa riunione, su suggerimento dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), il governo ha decretato di prelevare 5 centesimi su ogni litro di carburante che, secondo previsioni di calcolo tendenziale, in cinque anni permetterebbero di acquistare ventimila autobus. L’intenzione di potenziare il trasporto pubblico è chiara e mette in evidenza il senso della strategia che si ha in mente di adottare: limitare al massimo il trasporto privato ed offrire in alternativa i mezzi pubblici.

Nemico dichiarato: lo smog

Dopo il primo blocco totale del traffico di domenica 13, in diverse città tra le più importanti si sono susseguiti in modo incalzante blocchi, targhe alterne a ripetizione e a rotazione, ancora blocchi, ancora targhe alterne. Non c’è più dubbio, è ufficiale, il nemico dichiarato è lo smog, che continua a crescere pericolosamente e, beffardo, ha dichiarato guerra alla nostra salute. Ora, e soltanto ora (di primo acchito non si capisce perché soltanto ora e non molto prima) si è accettata la dichiarazione di guerra e si tenta di scendere in campo rispondendo al fuoco nemico, purtroppo in ordine sparso e con idee molto poco chiare.
Insomma, verrebbe da dire finalmente, il mondo è in preoccupato fermento per come la nostra specie si sta comportando nel suo stare sulla superficie del pianeta. L’Italia in particolare è in fibrillazione e, se non si trattasse di materia altamente seria e drammaticamente tragica, verrebbe da dire che si pone, come al solito, con una vis comica veramente straordinaria.
Il protocollo di Kyoto fu stipulato nel 1997 e stabilisce che entro il 2012 bisogna diminuire le emissioni di CO2 nell’atmosfera del 6,5% rispetto ai valori del 1990, anno in cui per la prima volta a Rio fu affrontato il problema a livello mondiale. Ma si è potuto applicarlo solo adesso, perché ha fatto una gran fatica ad esser ratificato da un numero di paesi sufficiente a raggiungere il 55% delle emissioni globali del pianeta.
Risultato che si è potuto raggiungere da poco perché soltanto recentemente la Russia ha deciso di ratificarlo, dal momento che anche USA, Cina, Australia e India non vi aderiscono. È bene notare che gli USA da soli sono responsabili del 36% delle emissioni dell’intero globo terrestre, una fetta altamente consistente, e non hanno accettato perché, fatta una mano di conti, i loro esperti economici reputano che i costi di realizzazione del protocollo sarebbero talmente alti da non poterseli permettere. In altre parole, si sentono grande potenza solo per generare catastrofi e non per rimettere in sesto dove fanno danni.
L’Italia, come il resto dell’Europa, vi aderì subito. Ma, a guardare che cosa ha fatto e come si è comportata in seguito a tale adesione, viene il dubbio (in realtà la certezza) che la sua sia stata una adesione puramente formale, senza la convinzione necessaria, quasi avesse scelto a suo tempo per poter dire che “anche lei c’è”.
È arrivata, infatti, nelle condizioni peggiori al fatidico appuntamento del 16 febbraio, al punto da far pensare che ci fosse rimasta più per obbligo che per scelta. Se vi avesse aderito con convinzione sia nella lettera che nello spirito avrebbe dovuto cominciare da un pezzo perlomeno a pensare cosa fare, mettendo a punto un piano d’intervento.
Al contrario non ha ancora presentato in sede europea un serio piano di riduzione delle emissioni come avrebbe dovuto secondo gli accordi. Quello presentato in fretta e furia è stato immediatamente bocciato, dal momento che prevedeva aumenti delle emissioni di anidride carbonica nell’ordine del 22,8%, all’opposto di quello che avrebbe dovuto fare.
Di fatto, invece di ridurre le emissioni, come avrebbe dovuto essere secondo logica avendo ratificato il protocollo, soprattutto negli ultimi tempi sotto la spinta di una superrampante visione berlusconiana, l’Italia ha aumentato le sue emissioni ben del 23%. Per trovarsi dunque in regola nella scadenza prevista del 2012, dovrà essere in grado di abbattere le emissioni del 29,5%. Un classico capolavoro di assurdità ed inefficienza all’italiana. Come dicevamo più sopra, il nostro bel paese continua a distinguersi per la sua vis comica veramente straordinaria.
Nonostante tutto, tralasciando per necessità di comprensione le usuali facezie della commedia di casa nostra, può sembrare che il mondo abbia cominciato a darsi una mossa seria, adeguata ai bisogni dirompenti che stanno insorgendo? Possiamo allora cominciare a farci dei bei sonni tranquilli? Anche solo ad un primo sguardo disincantato direi proprio di no.

Poche speranze

Anzi! La situazione che si prospetta è altamente drammatica e lascia adito a ben poche speranze. Innanzitutto perché il protocollo di Kyoto, anche se venisse applicato integralmente in ogni parte del globo, è del tutto insufficiente a realizzare l’obbiettivo che si pone teoricamente.
Ciò che richiede, infatti, è una diminuzione complessiva entro il 2012 delle emissioni nocive che si aggira attorno a poco più del 5% rispetto ai valori del 1990. Secondo gli scienziati del clima di tutto il mondo, per sperare seriamente di invertire la rotta derivata dalla degenerazione dell’effetto serra, ci vorrebbe invece una drastica riduzione che si dovrebbe aggirare tra il 60 e l’80%, cioè un valore maggiorato tra le dodici e sedici volte rispetto a quello prospettato.
Alla fine perciò gli sforzi che si metteranno in atto, ammesso e non scontato che li si mettano in atto davvero fino in fondo, risulteranno del tutto inadeguati rispetto all’obbiettivo propagandato.
A questa carenza strutturale del progetto protocollare si aggiunge l’aggravante che hanno aderito complessivamente 132 paesi del globo, non tutti, come al contrario avrebbe richiesto una sua seria applicazione pur carente alle radici. Ulteriore aggravante è che mancano gli USA, che guarda caso sono i maggiori produttori di gas serra del mondo, ed altre nazioni emergenti che, proprio per la propensione economica che stanno dimostrando, danno un costante e consistente contributo all’aumento dell’inquinamento globale. Ma la cosa forse più contraddittoria è la qualità della direzione di marcia, cioè il tipo di interventi scelti, perché fondata soprattutto sulla repressione dei comportamenti per contenere il fenomeno, invece di agire sulle cause per trasformare l’origine generatrice del male che si è costretti ad abbattere. Guardiamo per esempio al problema delle polveri sottili generato dai trasporti, responsabili di circa il 35% di emissione di CO2.

Soglia arbitraria

Si è stabilita una soglia di sopportazione quantitativa, arbitraria come tutte le soglie convenzionate, la quale sancisce che si può sopportare l’inquinamento fino a quel punto stabilito, non certamente che bisogna smettere d’inquinare. Sono state perciò installate delle centraline di misurazione delle quantità per verificare quando si supera la soglia. Quando la si supera si diminuisce il volume del traffico, o addirittura lo si impedisce, in attesa di rientrare sotto. Poi tutto torna come prima fino a quando sarà superata di nuovo.
Questa logica guarda al contenimento del fenomeno inquinante, in una visione di adeguamento allo stesso, mentre non si preoccupa minimamente di eliminarlo, come richiederebbe al contrario una seria volontà di cambiamento. Se si identifica, come si è fatto, che è la stessa circolazione delle auto, per come sono prodotte, ad essere l’origine del problema, logica vorrebbe che si smettesse di produrre auto in quella maniera e di metterle in circolazione. Invece cosa si fa? Si continuano a produrre auto inquinanti, perché il sistema capitalistico che ci sovrasta ne ha bisogno per il mercato e per i profitti di cui non può fare a meno, si inducono a comprarle con sofisticate pubblicità suadenti, poi si impedisce di usarle.
Il sistema reagisce in modo schizofrenico ai guasti che produce. Da una parte ci seduce per convincerci ad acquistare le auto perché ha bisogno del nostro volume di consumi, dall’altra ci impedisce sempre più spesso di usarle, ci fa pagare la tassa di circolazione facendoci circolare sempre meno e ci aumenta il prezzo del carburante per finanziare mezzi sostitutivi che si tende a rendere obbligatori. Ma non rimuove le cause.
Lo stesso ragionamento vale per tutti gli altri tipi di produzione, compresa in particolare la produzione di energia, che è a fondamento del modello di sviluppo su cui si basa il sistema stesso col quale teniamo in piedi le nostre società. Per potersi riprodurre e risultare efficace nella soddisfazione delle esigenze del sistema produttivo di cui è il puntello, tale sistema si regge su una costante spropositata richiesta di aumento dell’uso di energia.
E l’energia in circolazione deriva solo in minima parte da fonti rinnovabili, mentre viene prodotta senza sosta o con il nucleare, che comporta grossi rischi per le indistruttibili scorie radioattive e per il sempre presente pericolo della fusione del nocciolo (vedi Cernobyl), o in gran parte attraverso processi di combustione di combustibili fossili (petrolio, carbone, metano), generatori di quantità rilevantissime di emissione di gas serra.
A loro volta la massima parte dei processi di produzione industriale, che entrano in moto usufruendo dell’energia prodotta e sui quali si regge l’intera economia mondiale, sono generatori di altre rilevantissime quantità di emissione di gas serra. Indiscutibilmente siamo così in balia di una spirale impazzita, senza freni e, per come è concepita, non in grado di autolimitarsi.
A guardarlo nella sua definizione strutturale dunque, l’attuale modello di sviluppo è una vera e propria spada di Damocle che incombe sempre più minacciosa sulle nostre teste. Fra l’altro bisogna tener presente che secondo le previsioni ufficiali degli uomini di scienza accreditati non è lontano il momento fatidico in cui questa spada si sgancerà e crollerà sui nostri crani sfracellandoceli. Negli ultimi tempi sono usciti diversi documenti scientifici di enti istituzionali accreditati a livello mondiale che, con sistematica puntualità, ci avvertono dei pericoli e delle probabili catastrofi incombenti nei prossimi decenni, dovute al modello e ai tipi di sviluppo che sorreggono l’attuale sistema. Se non si riuscirà ad intervenire in modo veramente efficace difficilmente il mondo intero riuscirà a salvare capra e cavoli come invece avrebbe intenzione di fare.
La riunione della conferenza ONU sul clima, svoltasi a Buenos Aires nella metà di dicembre 2004, è stata estremamente chiara nel denunciare lo stato delle cose dal punto di vista della tendenza ecologica, dovuta alle influenze del tutto negative degli sconvolgimenti climatici che stanno avvenendo e quelli destinati ad esplodere.

Conclusioni apocalittiche

Il rapporto mondiale Living Planet 2004 del WWF, uscito in contemporanea alla conferenza ONU, misura l’impatto dell’uomo sugli ecosistemi del pianeta e denuncia che consumiamo il 20% in più delle risorse naturali disponibili, mentre le specie animali collassano letteralmente. L’ultimo rapporto annuale del WWI, la più importante organizzazione internazionale di studio e ricerca ambientale, ci sbatte in faccia un’ininterrotta sequela di dati ufficiali, non interpretabili diversamente, che mostrano come stiamo marciando a vele spiegate verso il collasso e una futura prossima generale catastrofe. Precedentemente il rapporto Swartz Randall, commissionato dal Pentagono e tuttora top-secret, ma le cui conclusioni sono state rivelate da Foster, uno dei massimi esperti militari USA e docente presso il College of the Armed Forces, a chiare lettere aveva confermato conclusioni apocalittiche sul futuro del pianeta. Ultimo in ordine di tempo, non certamente d’importanza, il rapporto di fine gennaio 2005 del ICCT (International Climate Change Taskforce), organizzazione inglese i cui studi servono al premier britannico Blair per stilare rapporti ufficiali. L’ICCT denuncia che, con un’approssimazione molto probabile, entro il 2015 il surriscaldamento del pianeta sarà giunto a un punto di non reversibilità per cui non potremo più nulla. Lo stesso Blair, allarmato, sta patrocinando un consesso di duecento scienziati da tutto il mondo, che a Exeter nel Devon stanno discutendo su come evitare i pericoli dei mutamenti climatici in atto e da venire.

Criminale consapevolezza

Il fatto è che il sistema, attraverso i suoi organismi decisionali ufficiali, non vuole mettere in discussione le proprie fondamenta e si sta muovendo con l’unica intenzione di tentare di limitare i danni, trovandosi nell’impossibilità di rimuovere realmente le cause delle catastrofi che produce con sistematica cocciutaggine e con criminale consapevolezza. Bisogna cominciare ad accettare la cruda verità: il sistema globale che ci sovrasta non può far diversamente da quello che sta facendo, pur ammettendo che ci possa mettere tutta la buona volontà di cui è capace, perché, consolidatosi in secoli di storia travagliata in ciò che effettivamente è e rappresenta, non vuole non può e non è in grado di rinunciare ad essere quello che è. Anzi, proprio per la natura del potere che lo contraddistingue, ha bisogno di perpetuarsi e di continuare a imporsi a qualsiasi prezzo.
Dobbiamo cominciare ad accettare l’idea che siamo necessariamente all’alba di una mutazione epocale di tipo antropologico-culturale, paragonabile all’assunzione dell’intuizione pre-storica della funzione della ruota o dell’acquisizione della sapienza agricola per procurarci gli alimenti, le quali cambiarono irreversibilmente e totalmente il modo della nostra specie di stare nel mondo, sia a livello dell’immaginario sia a livello pratico e organizzativo dell’essere società. È una necessità perché o realizziamo fino in fondo questa mutazione o ci destiniamo all’invivibilità sul pianeta, sia per noi che ne siamo i principali responsabili sia per le altre specie viventi.
Dobbiamo smettere di riparare i danni che facciamo, il più delle volte senza riuscirci, per il semplice motivo che al contrario dobbiamo smettere tout-court di fare danni.
Dobbiamo smettere di prometterci continuamente di rispettare la natura, in realtà poi mancandole sistematicamente di rispetto, per la semplice ragione che quando si parla di rispetto ci si riferisce a qualcosa di altro da sé, quindi si decide un comportamento che, non essendo né insito né necessario, è per forza arbitrario e dipende esclusivamente dalla nostra buona volontà.
Il rapporto con la natura non è in sé etico, anche se comporta necessariamente un’etica di conseguenza, per l’ovvio motivo che la natura non è altro da noi.
Noi siamo natura, come tutto il resto, e la natura, intesa nella sua complessità, ci comprende e non può non comprenderci. Nel momento in cui ci riferiamo ad essa, necessariamente ci riferiamo automaticamente anche a noi stessi. Non dobbiamo perciò portare rispetto alla natura, ma a noi stessi, quindi a tutte le altre componenti la natura stessa.
Smettiamo quindi di tentare di rispettarla, senza fra l’altro riuscirci, e, molto più realisticamente, cominciamo a sentircene pienamente parte, non tanto in senso intellettuale, come frequentemente avviene, quanto in senso istintuale, come per esempio viviamo senza pensarci su desiderio e istinto di sopravvivenza.
Inquinare e devastare l’ambiente deve diventare un tabù, fino all’automatismo, in modo tale che qualunque cosa si scelga di fare la si faccia solo se si è sicuri che il farlo non comporti danni, i quali, ora sappiamo, sistematicamente si riversano sia sull’insieme della società, sia sull’ambiente in cui viviamo assieme agli altri esseri viventi e alle altre meravigliose cose come il paesaggio.

Sostituire il sistema vigente

Ma non si può entrare in questa dimensione intellettuale, mentale e psichica diffusa e interiorizzata se si continua a vivere tutto ciò che è altro da noi come luogo privilegiato del nostro puro soddisfacimento, come spazio a completa disposizione delle nostre pulsioni a dominarlo e a depredarlo. La spinta al dominio deve essere surclassata e sostituita con la spinta a realizzare situazioni di reale benessere nel modo di esserci e di stare dove siamo.
Soprattutto, le nostre scelte operative e produttive, tutte le scelte indistintamente, non debbono più essere motivate innanzitutto dal bisogno di realizzare ricchezza finanziaria, quindi la spinta ai guadagni e ai profitti non può più rappresentare in alcun modo la molla che ci porta a decidere cosa fare o non fare.
È per queste ragioni elementari che sia il sistema economico capitalista che sovrasta i nostri atti, sia i sistemi politici autoritari e gerarchici che dirigono la nostra vita e condizionano le nostre scelte, compresi quelli cosiddetti democratici in cui la funzione decisionale è sostanzialmente nelle ristrette mani di voraci oligarchie, non possono più rappresentare i sistemi di riferimento per poter realizzare il mutamento antropologico culturale che ci è indispensabile per ridefinire e reimpostare la nostra presenza sul pianeta.
Saggezza vorrebbe che il sistema vigente nel suo complesso, sia dal punto di vista economico sia da quello politico, venisse bloccato, per essere sostituito con un modo di essere società in cui le scelte siano patrimonio collettivo autogestito dalla società stessa nella sua complessità, avendo continuamente presente che non siamo, non possiamo e non vogliamo più essere i padroni del mondo, ma molto più umilmente dei suoi abitanti che hanno tutto l’interesse a preservarlo, per far vivere tutti, tutto e noi stessi il meglio possibile.

Andrea Papi