rivista anarchica
anno 35 n. 309
giugno 2005


anarchia/democrazia

L’ultima stazione del Calvario
di Antonio Cardella

 

In questa fase storica dobbiamo proporre una visione nuova del territorio e del suo autogoverno.

 

Trovo stucchevole e francamente inutile appassionarsi al dilemma se l’epoca contemporanea privilegi l’economico sul politico o viceversa: penso sostanzialmente che siano gli assi portanti, ambedue indispensabili, perché possano dispiegarsi le logiche e la prassi di assetti sociali che, per amore o per forza, soggiacciono alle leggi del mercato e della democrazia rappresentativa.
Se non ci fosse uno Stato ad approntare l’apparato normativo perché l’economia capitalistica possa congruamente dispiegarsi non si andrebbe molto lontano, in termini di redistribuzione delle risorse, di sicurezza nelle transazioni e di ordine pubblico; analogamente il sistema produttivo e finanziario dell’economia di mercato garantisce allo Stato le risorse necessarie alla sua sopravvivenza.
Il trasferimento a istituzioni internazionali di poteri normativi che erano sino a qualche decennio fa appannaggio dei singoli Stati, non significa che questi ultimi abbiano perduto la loro presa sul territorio presidiato: significa soltanto che l’accelerazione dei processi di globalizzazione non consente più eccessive frammentazioni negli assetti giuridico-amministrativi delle singole aree d’influenza, e, soprattutto, non ammette margini di flessibilità alla liberalizzazione dei mercati dei capitali dei beni e dei servizi.
Arriviamo, così, all’ultima stazione del Calvario: la globalizzazione o, per meglio dire, la mondializzazione dei problemi dell’Occidente.
Nell’articolo precedente, apparso sul n. 308 di “A”, mi ero astenuto dal trattare l’aspetto specificamente economico della democrazia matura. Non era, ovviamente, un voler esorcizzare il problema: si trattava piuttosto di voler analizzare in primo luogo la funzione della politica e le sue (in)capacità di rispondere concretamente alle naturali esigenze dei popoli di riacquistare l’arbitrio dei propri destini
Adesso, però, non posso spingere oltre questa reticenza anche perché, nel tentativo di guidare una dinamica economica e di rapporti internazionali assai complessa come quella posta dalla globalizzazione, la politica – quella “alta”, quella che si interroga costantemente sulla sua funzione – è apparsa frammentaria, balbettante, spesso inconsapevole delle conseguenze derivanti dalla messa un moto di una macchina tanto complicata e contraddittoria quale è quella che pretende di regolare l’economia mondiale.
Poche ma essenziali notizie su quelle istituzioni che, per prime, hanno travalicato le logiche particolaristiche degli Stati nazionali e hanno volto il loro sguardo su aree assai più vaste.
Parliamo naturalmente della Banca mondiale (BM) e del Fondo Monetario Internazionale (FMI), ambedue nati a Breton Wood (USA) nel 1944 con l’obiettivo: a) di normalizzare nei limiti del possibile la circolazione e la convertibilità monetarie internazionali, impedendo o arginando oscillazioni rovinose in un panorama di macerie provocate dal secondo conflitto mondiale (che, peraltro, non si era ancora del tutto concluso); b) di affrontare organicamente il gigantesco problema degli aiuti ai Paesi in difficoltà, in particolare i Paesi europei che avevano in prospettiva il grande problema della ricostruzione.
Un rapido sguardo alla loro composizione interna e alle modalità del loro funzionamento.
Abbiamo detto che sia la BM che il FMI sono nati ambedue nel 1944 e vi aderirono subito 44 Paesi. Ecco nel dettaglio.

Banca Mondiale

Esaurito il compito originario di finanziare la ricostruzione europea, la Banca si assunse l’onere di finanziare progetti di sviluppo per i popoli più poveri del pianeta. È costituita da due strutture principali: l’IBRD (International Bank for Reconstruction and Development) e l’IDA (International Development Association).
Vi sono poi dei gruppi autonomi che hanno compiti specifici: la IFC, che finanzia investimenti privati nei paesi in via di sviluppo; l’ICSD (International Center for Settlement of Investiment Disputes) organismo di conciliazione tra gli investitori e i paesi beneficiari; la MIGA (Multilateral Guarantee Agency) che garantisce gli investitori esteri dai rischi non commerciali. L’IBRD finanzia progetti destinati a Paesi con un Prodotto interno lordo pro capite superiore a 1.305 $ annuo con rientri previsti tra i 2 e i 5 anni.
L’IDA, invece, presta denaro a più lunga scadenza (12-15 anni) e senza interessi a Paesi che hanno un PIL pro capite inferiore. Oggi i Paesi aderenti alla BM sono oltre 180.
La IBRD si finanzia prevalentemente attraverso l’emissione di obbligazioni garantite dai governi membri.
L’IDA è finanziata da sovvenzioni dei paesi aderenti.
In teoria, a guidare la BM sono i ministri delle finanze di tutti i paesi membri, che si riuniscono di norma una volta l’anno. La conduzione concreta “sul campo” è però affidata a 24 Executive Directors che rappresentano le differenti quote di partecipazione al capitale complessivo.
Così Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno un Director Executive per ciascuno, mentre tutti gli altri membri sono rappresentati dai rimanenti 19 Executive Directors, ciascuno dei quali è chiamato a rispondere del proprio operato ad un certo numero di Stati.
La sede centrale della BM è a Washington e, per tradizione, il suo Presidente è nominato dagli Stati Uniti. George Bush ha onorato il suo impegno designando alla carica (in scadenza il prossimo 31 maggio) il n. 2 del Pentagono Paul Wolfowitz, una garanzia per gli affari più o meno leciti dell’amministrazione e delle multinazionali americane.

Fondo Monetario Internazionale

Lo scopo principale del FMI non è quello di offrire prestiti, ma di supervisionare le politiche monetarie dei Paesi aderenti (attualmente 183, se non vado errato) e di far rispettare il codice di condotta stabilito dal suo Statuto, che, in estrema sintesi, indica nella stabilità monetaria la premessa necessaria a qualsiasi politica di sviluppo.
Il FMI si finanzia sia con la vendita di obbligazioni a governi, banche, fondi pensioni e assicurativi, sia con le sovvenzioni a fondo perduto dei Paesi aderenti.
Il potere di voto è proporzionale alle sovvenzioni di ciascuno Stato, talché i dieci Paesi più ricchi del mondo (USA, Germania, Giappone, Regno Unito, Francia, Italia, Canada, Belgio e Paesi Bassi) possiedono oltre il 52% del potere decisionale del Fondo. L’assistenza del FMI ai paesi che la sollecitano è accordata esclusivamente se si accettano le filosofie dei PAS (Piani di Aggiustamento Strutturale), nati a seguito della crisi del Messico del 1982.
In estrema sintesi, essi prevedono la drastica riduzione delle spese sociali (sanità e istruzione), privatizzazione delle imprese pubbliche ed eliminazione di ogni intervento assistenziale: svalutazione della moneta locale, innalzamento dei tassi di interesse (in modo da favorire l’afflusso di capitali esteri), eliminazione di ogni limite alla libera circolazione dei capitali, eliminazione di ogni ostacolo al libero flusso di prodotti e servizi che provengano dall’estero. Questa sorta di capitolato ha provocato effetti devastanti nelle aree investite dal ciclone FMI, come vedremo in seguito.
La guida del FMI è affidata ad un Comitato (Interim Commitee), che si riunisce una volta l’anno ed è composto dai ministri delle finanze o dai governatori delle banche centrali dei paesi membri. Come per la BM, però, i poteri gestionali sono affidati a 24 Executive Directors, dei quali otto rappresentano singole nazioni (Cina, Francia, Germania, Russia, Arabia Saudita, USA, Inghilterra e Giappone). I rimanenti 16 ED rappresentano tutti gli altri Paesi aderenti.
L’insorgere di un’ulteriore crisi messicana nel 1993 indusse l’amministrazione Clinton ad intervenire per salvaguardare gli interessi degli investitori esteri (in prevalenza americani), che infatti furono rimborsati delle perdite senza che tali perdite andassero ad aggravare l’emergenza del Paese in difficoltà, anzi consentendo un’accelerazione dei flussi commerciali che favorirono la ripresa. Il rischio di destabilizzazione dell’area connesso alla crisi messicana, convinse Clinton che si dovesse procedere ad un accordo che regolasse i flussi di capitali, merci e servizi del continente nordamericano. Nacque così il NAFTA, un accordo sottoscritto dagli USA, dal Messico e dal Canada. I benefici (veri o presunti) di questo accordo, convinsero le maggiori istituzioni internazionali (principalmente FMI/Tesoro degli Stati Uniti e Banca mondiale) ad istituire un organismo che si occupasse di regolare il commercio internazionale.
Prende corpo, così il

World Trade Organizzation (WTO)
(Organizzazione mondiale del commercio)

In realtà, più che il NAFTA, il WTO ha come antenato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), sorto nel 1947 per la regolamentazione delle tariffe e del commercio internazionale. Gli accordi che i paesi aderenti sottoscrivono riguardano lo scambio di merci, servizi e proprietà intellettuali, fissano principi generali di liberalizzazione dei mercati e di eliminazioni di barriere doganali e di altri ostacoli agli scambi.
Al suo interno operano uffici che presiedono alla composizione di conflitti tra gli operatori e a dirimere dispute legali. Il WTO si articola in una Conferenza Ministeriale, che deve riunirsi almeno due volte l’anno; un Consiglio Generale, che delega importanti funzioni a tre distinti organi: il Consiglio per il Commercio dei beni, il Consiglio per il Commercio nel settore dei servizi e il Consiglio per le proprietà intellettuali. La sede principale è a Ginevra.

Anche se si è sintetizzato al massimo sui tre principali organismi preposti alla globalizzazione, appare chiaro come, soprattutto la BM e il FMI, siano strumenti in mano alla minoranza più ricca e progredita del Pianeta.
La loro funzione è quella di veicolare ed imporre le parole d’ordine del capitalismo maturo, anche se, per non apparire impresentabili, si travestono da soccorritori dei derelitti. Nella realtà dei fatti, le loro finalità si possono riassumere nel tentativo di “esportare” il modello di sviluppo capitalistico o, meglio – come abbiamo già detto – di mondializzare dinamiche economiche che sono proprie del capitalismo a stelle e strisce. Un disegno miope, che, nell’istanza egoistica di far pagare al resto del mondo il prezzo del benessere americano (in primo luogo, ma del modello economico nel suo complesso) non ha tenuto conto del fatto che le crisi innescate in aree anche lontane da interventi improvvidi, che corrodono tessuti sociali ed economie locali, con vocazioni di sviluppo diverse da quelle imposte dai presunti soccorritori di turno (BM o FMI), finiranno inevitabilmente per ritorcersi sull’intero contesto globalizzato. La crisi americana della fine degli anni Novanta fu la conseguenza diretta della bolla speculativa che desertificò il Sud Est asiatico.
Proverò ad esemplificare i motivi di insuccesso di alcune dinamiche, di matrice spiccatamente ideologica, innescate dalla BM e dal FMI quando si propongono come soccorritori di Paesi in via di sviluppo che versano in difficoltà.

Liberalizzazione del mercato dei capitali

I Paesi emergenti, quelli che tra mille difficoltà tentano di ridurre il gap che li penalizza rispetto alle economie forti, sono alla ricerca costante di capitali che possano finanziarne lo sviluppo.
Ma i capitali vanno remunerati, talché è necessario attuare politiche dei tassi che siano vantaggiose per gli investitori. Non sempre è possibile, per i governi locali, bilanciare la crescita dei tassi con misure che non alterino gli equilibri economici complessivi.
Con l’apertura delle frontiere ai capitali esteri, senza il necessario controllo sulla loro qualità, di solito affluiscono nell’area masse di denaro che solo in minima parte possono essere impiegate per alimentare la crescita reale, con interventi, cioè, in attività produttive, in infrastrutture e così via: la parte più consistente e distruttiva è costituita da capitali vaganti, speculativi, che inquinano il contesto e, sollecitando euforie ingiustificate, inducono a comportamenti e a scommesse sul futuro del tutto ingiustificati.
Ad un momento dato, per l’impossibilità del sistema interno di sostenere a lungo una crescita drogata o, assai più spesso, per incontrollabili spinte emotive (la sensazione che lo Stato non sia in grado di garantire gli investimenti effettuati), improvvisamente come sono affluiti, tali capitali se ne ritornano nei paradisi fiscali dai quali in prevalenza sono partiti.
Lo scenario che si lasciano alle spalle è desolante: una molteplicità di imprese falliscono non avendo potuto completare, per l’improvviso rarefarsi delle risorse, il ciclo del loro consolidamento; si inaridisce il circuito creditizio, si verifica una drastica riduzione dei consumi, si ha una crescita esponenziale del debito pubblico e crollano i valori della Borsa. È a questo punto, di norma, che interviene il FMI, il quale condiziona il suo aiuto all’attuazione della sua ricetta: una politica fiscale restrittiva, tagli alle spese sociali, e, soprattutto, privatizzazioni, che consistono nella svendita del patrimonio pubblico e nell’apertura dei canali attraverso i quali le multinazionali si impossessano dei settori strategici per la crescita del Paese.

Liberalizzazione dei mercati di beni e servizi

Questo della liberalizzazione del mercato di beni e servizi è di fatto il tracciato attraverso il quale si realizza una nuova forma di colonizzazione. La parola d’ordine iniziale è “esportare”, in modo che si possano recuperare risorse per garantire gli investimenti. Ma, quasi sempre, l’apparato produttivo locale è debole, sia per tecnologie antiquate sia per il livello di professionalità degli addetti. C’è poi la concorrenza nei mercati esteri che non è tenera.
Si punta tutto allora sul costo del lavoro e sulla riduzione delle garanzie dei lavoratori, i quali sono obbligati a lavorare di più per salari di fame, senza peraltro poter contare su servizi sociali efficienti, ridotti o addirittura annullati dall’esigenza, imposta, di dover ridurre le spese. Ma il fattore che mina la stessa indipendenza e sovranità del Paese soccorso è la liberalizzazione del mercato dei servizi, che include i servizi finanziari e lo sfruttamento delle risorse autoctone. Attraverso questa magica parola: “liberalizzazione” si apre la strada all’intervento predatorio delle multinazionali. Si comincia con i servizi finanziari.
Le banche d’affari, attratte dalla possibilità di conquistare nuove aree operative, tendono ad assorbire le banche locali per controllare l’esercizio del credito a loro beneficio. È così che l’area viene privata di quelle risorse di cui un paese in via di sviluppo ha bisogno, cioè di un credito mirato ad allargare la base produttiva indigena che ha caratteristiche e dimensioni proprie e che, quindi, deve poter contare su un credito elargito tenendo conto delle specificità delle imprese da beneficiare.
Le multinazionali del credito hanno obbiettivi completamente diversi e finiscono con il privilegiare i clienti ricchi (altre multinazionali), che garantiscono ritorni sicuri e maggiori possibilità di controllo del territorio.
Ma il settore del credito non è il solo ad essere colonizzato. Per lo stesso canale della liberalizzazione e delle privatizzazioni transitano le grandi imprese (quasi sempre americane) che mirano allo sfruttamento delle risorse locali (miniere, giacimenti petroliferi e altre fonti energetiche eventualmente presenti nel territorio).
Essendo questi settori vitali per la crescita, è inevitabile che l’intera vita politica e sociale della nazione “soccorsa” ne resti condizionata.
Infine il problema della moneta. L’imposizione di una svalutazione della moneta, necessaria per favorire le esportazioni e l’applicazione di alti tassi di interesse per remunerare adeguatamente i capitali che affluiscono, finiscono con innescare processi inflattivi che gravano come nuove tasse sulle spalle dei cittadini i quali vedono le loro condizioni di vita peggiorare.
Alcuni esempi dei “salvifici” interventi del FMI e della BM.

Riduzione di PIL e salari

Il Costa d’Avorio ha iniziato il proprio rapporto con il FMI nel 1989, rapporto che si è articolato in più interventi sino al 1994. In questo periodo, la ricetta del FMI, da accogliere per ottenere gli aiuti, ha ottenuto questi risultati: il PIL è sceso del 15%; la popolazione che viveva con 1$ al giorno (o meno), che era il 17,8% del totale, raggiunse il 36,8%.
Nel 1991 lo Zimbawe ottenne un finanziamento di 484 milioni di dollari. Ebbene, le condizioni imposte di liberalizzazione dei settori produttivi e la contrazione della spesa pubblica e di quella sociale portarono ad una riduzione del 5,8 % del PIL, e la contrazione dell’occupazione nel manifatturiero del 9%, con una riduzione media dei salari del 26 %.
Ma gli effetti più disastrosi la politica congiunta del FMI e della BM li provocarono nell’intervenire pesantemente nella crisi dell’Est asiatico del 1997/98. Iniziò l’Indonesia, alla quale si imposero, tra le altre, misure drastiche di contenimento della spesa sociale. Si dovettero così tagliare i fondi di sussistenza destinati ai poveri.
Nel maggio del ‘97 scoppiò la rivolta e da allora il paese vive periodi di gravi difficoltà perché le condizioni poste dal FMI, lungi dall’incentivare afflussi di capitali, ne provocarono il deflusso con effetti disastrosi per tutta l’economia (il 75% delle imprese fallirono). Analogamente in Thailandia, in Malaysia, nella Corea del Sud gli interventi del FMI e della BM provocarono quella crisi, rimasta proverbiale come crisi del Sud Est asiatico, le cui conseguenze ebbero ripercussioni pesanti e non soltanto nell’area direttamente interessata.
Un capitolo a parte meriterebbe la situazione in America Latina, ma non si può in questa sede allargare il discorso. Concludiamo questo cahier des doléances con una considerazione di Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’economia, già chief economist della Banca Mondiale ai tempi dell’amministrazione Clinton:

La perdurante crisi della finanza internazionale ci fa capire in modo sempre più chiaro che c’è qualcosa di sbagliato nel sistema... La ragione, forse, era ovvia: pur non funzionando in modo ottimale per i mercati emergenti, il sistema serviva bene gli interessi degli Stati Uniti e, in particolare, delle loro società finanziarie, e una delle colpe più gravi dell’amministrazione Clinton è aver fatto poco o niente per risolvere il problema. (J. E. Stiglitz, I ruggenti anni Novanta, G. Einaudi Editore, Torino, 2004, pag. 216).

Parole sacrosante ma insufficienti a spiegare un trend che in quasi cinquant’anni di attività del FMI e della BM lascia dietro di sé le macerie di 1,2 miliardi di persone che vivono con meno di 1$ al giorno, 3 miliardi con al massimo 3$, quasi 3 milioni di bambini che muoiono all’anno nei paesi in via di sviluppo, 1,5 miliardi di persone che non accedono all’acqua potabile; per non parlare della sostanziale indifferenza, non solo delle istituzioni internazionali, ma dell’intero Occidente opulento, nei riguardi del flagello dell’AIDS.
No, credo che ridurre il problema a ciò che avrebbe potuto fare Clinton e non ha fatto o alla sostanziale impotenza dell’ONU, significa non voler vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti: è il mito del mercato, costantemente riproposto come equo mediatore tra i bisogni e le risorse per soddisfarli, a mostrare tutti i suoi limiti. Intanto la ripartizione della ricchezza è tanto sbilanciata a vantaggio di una parte esigua di popolazioni (circa 800 milioni di anime contro i rimanenti 5 miliardi che costituiscono i così detti paesi in via di sviluppo) da impedire che possa esservi un’economia di mercato globalizzata.
Poi il mercato ha dimostrato di essere, nell’Occidente industrializzato, un moltiplicatore di grandi aggregazioni monopolistiche, con la conseguente rarefazione delle piccole e medie imprese che non riescono a reggere la concorrenza.
È un fenomeno perfettamente percepibile nelle nostre città, dove la distribuzione dei beni è in mano, nella gran parte, a multinazionali, le quali, per evitare la concorrenza e controllare i prezzi, evitano di pestarsi i piedi tra loro e ricorrono ad accordi che ne moltiplicano le dimensioni e ne aumentano la capacità di controllo del territorio.
Attraverso la stessa logica, oggi il controllo delle fonti energetiche, e dei principali servizi indispensabili per ogni comunità (prodotti farmaceutici, energia elettrica, mezzi di trasporto e di comunicazione) sono in mano a multinazionali che, lungi dal diffondere benessere, aumentano i prezzi dei prodotti, rendendoli sempre meno raggiungibili da fasce sempre più consistenti di cittadini; incrementano la povertà e la disoccupazione; riducono le nostre città a formicai attraversate da moltitudini disperate che cercano di accedere comunque a quei consumi di massa che la televisione reclamizza come alla portata di tutti.
Se questi sono i guasti provocati dal mito del mercato già all’interno delle comunità ricche, figuriamoci i danni che provoca in quelle popolazioni derelitte che ai ricchi si rivolgono per ottenerne l’aiuto. Qui da noi, in Sicilia, ogni anno vengono distrutte, perché non trovano mercato, tonnellate e tonnellate di agrumi che sarebbero il toccasana per i popoli africani più poveri, afflitti da carenze vitaminiche gravi. Ebbene, le leggi del mercato impongono la distruzione del prodotto piuttosto che la sua distribuzione gratuita o il suo trasferimento tra i diseredati della terra.
Allora un’autocritica, come quella di J.E. Stiglitz è benvenuta a condizione che non si fermi a metà del percorso. Il dramma non è in nessun modo riconducibile all’inadeguatezza dei protagonisti, si chiamino essi Clinton o Bush padre e figlio, ma alla logica stessa del capitalismo che, nel suo percorso e nella sua vocazione espansionistica, infesta popoli e continenti. Come in simile contesto possa innestarsi un discorso sull’attualità e sull’attuabilità di percorsi democratici – ammesso e niente affatto concesso che si tratti di percorsi in qualche modo virtuosi – è difficile da ipotizzare. L’eguaglianza tra uomini con differenze così marcate di condizioni di vita, così lontani nelle capacità decisionali, così sideralmente distanti nelle possibilità di realizzare le proprie aspirazioni e di essere arbitri della propria esistenza, questa eguaglianza proclamata e mai attuata di una democrazia appena credibile, può essere solo argomento di una farsa teatrale di infimo ordine.
Allora?

Verso una società libera di eguali

Una risposta al “che fare” non è facile e, più che una ricetta pronta da attuare, penso si debbano immaginare percorsi che non contraddicano gli obiettivi di una società libera di eguali, quale è quella che noi anarchici auspichiamo.
In questa direzione, io credo, il Movimento libertario deve rimeditare in profondità le modalità del suo intervento e ammettere che tra le grandi idealità che propugna e i percorsi cosparsi di ostacoli che offre la quotidianità, esiste uno scarto che non va esorcizzato ma neppure demonizzato. Bisogna prendere coscienza che, se è vero che una rivoluzione non è tale se non è la rivolta di tutti gli uomini, non è altrettanto vero che la nostra capacità di intervento sia solo di tipo educazionista o, peggio, che ci si possa promuovere come migliori gestori delle strutture esistenti e prevalenti.
Dobbiamo dire con chiarezza che noi non soltanto non crediamo alla democrazia rappresentativa, ma che non intendiamo ereditarne gli strumenti. Così come non vogliamo uno Stato “diverso”, ne ripudiamo al contempo tutte le logiche aggregative, nessuna esclusa.
Dobbiamo proporre una visione nuova del territorio e del suo autogoverno; dobbiamo progettare forme nuove di tutela di tutti gli uomini, a prescindere dai ruoli che lo Stato e il capitale assegnano loro, in una fase della storia in cui sono scomparsi dalla scena i veri o presunti antagonisti del capitale (la classe, il movimento dei lavoratori, il sindacato, il partito rivoluzionario e via dicendo).
Se ci poniamo in quest’ottica e ci organizziamo adeguatamente per perseguirla, forse siamo ancora in tempo a correggere una deriva che minaccia di farci approdare in lidi inospitali.

Antonio Cardella