rivista anarchica
anno 35 n. 309
giugno 2005


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Renaud
2: La tigna e il successo

Il mese scorso avevamo lasciato Renaud (Sechan è il suo cognome, ma è noto col solo prenom) solidamente avviato sulla strada di un successo popolare. La cosa può ben stupire, vista la radicalità dei suoi testi. Il personaggio in effetti, per tentare un improbabile paragone, è una specie di Vasco Rossi (molto) politicizzato, un rocker casereccio (alla maniera francese) sincero nel suo populismo, e popolare per la sua assoluta sincerità.
Continuiamo a seguire la sua crescita artistica, di disco in disco, e parallelamente la conquista della simpatia di un pubblico sempre più vasto.
Non si può certo dire che il favore crescente, con l’inevitabile conseguenza dell’attenzione sempre più invasiva dei media, producano in Renaud l’immediato ritiro su posizioni più potabili, più tranquillizzanti per un pubblico che sta diventando vastissimo.
La coerenza dell’artista premia gli appassionati della prima ora e conquista i neofiti con un atteggiamento esattamente contrario. Il biondino lancia sul piatto la sua bomba più cattiva, il suo disco più rivoltoso, e anche uno dei suoi più belli: Marche à l’ombre (1980).

La scrittura arriva all’apice di una significativa corrispondenza fra secchezza formale e radicalità tematica; lo standard in seguito resterà alto, ma avrà difficoltà a ritrovare un impatto così dirompente.
La canzone che dà il titolo all’album è il remake, più riuscito dell’originale, della Laisse beton del secondo disco, tutta puntata su simpatiche trovate lessicali; giusto un aperitivo linguistico servito da maître Renaud, per introdurre l’atmosfera, i titoli di testa di un film sospeso tra il noir più digrignante e un realismo poetico che vira al buffo.
La teigne, è un acquerello a tinte già più drammatiche in cui del loubard (come abbiamo spiegato nella prima parte del nostro articolo, il loubard è il delinquente delle periferie francesi) di turno, si approfondiscono gli aspetti psicologici e il dolore esistenziale, per carità sempre con pudore e con una sorta di brusco rispetto privo di pietismi, nonostante il finale da lacrimoni.
Ou est que j’ai mis mon flingue? (Dove ho cacciato la pistola?) è invece quanto di più velenoso Renaud abbia mai ammannito al suo pubblico: si parte da una riflessione sulla propria raggiunta celebrità

da quando vi vendo anche in TV
la mia zuppa avvelenata…
che nulla ha cambiato della virulenza del
passato
anche gli sbirri mi salutano
e porgono il berretto da firmare
io ci sputo dentro e urlo
che il blue marine mi fa vomitare...

il bersaglio si rivolge poi alla sinistra parlamentare

non sarà domani che marcerò
coi coglionazzi verso le urne
ai radical-chic eternamente in manifestazione
mai più slogan contro la sbirraglia
ma fucili, pietre, bombe!
Urlare contro la repressione
in corteo per Parigi
mentre i miei amici crepano in prigione
fa buona la coscienza degli stronzi

per concludere con un richiamo ai maestri della rivolta di sempre e a quelli attuali, facendo nel contempo il verso a Victor Hugo

se un giorno mi trovano faccia a terra
la colpa è di Baader
se crepo riverso in un fiume
la colpa è di Bonnot.

Per i benpensanti c’è di che tremare... se non altro d’indignazione!
Forse solo il Léo Ferré di Comme une fille aveva osato altrettanto, anche se, pur svettando in qualità poetica e musicale a un livello irraggiungibile, con un linguaggio più immaginifico e letterario. Di Renaud invece colpisce la costruzione sapiente che sa tenere in equilibrio il sentire della marmaglia del bar all’angolo con una forma concisa e strutturata.
La sua forza particolare non consegna a metafore la rivolta, venendo così intesa a tutti i livelli. Il suo eroe (o antieroe) che non può, dopo la delusione sessantottina, essere la massa, ma il singolo deviato di una classe marginale e allo sbando, si sposa perfettamente con lo sbando stesso percepito del popolo della sinistra all’inizio dei fangosi anni ottanta.
È così che il cantautore politico più radicale diventa anche il più popolare.
Baston in questo senso è una canzone emblematica e fotografa bene la violenza repressa che germina in un’esistenza che non concede più nessuno spazio e iniziativa al miglioramento della società per chi deve porsi, innanzi tutto, il problema dei bisogni primari. È una canzone che ha ancora tanto da raccontarci in tempi di sassi dai cavalcavia e giochi mortiferi.
Proseguendo nell’ascolto del disco si entra in uno dei luoghi mitici dell’universo di Renaud con Mon H.L.M. (è l’acrostico con cui si designa l’edilizia popolare delle periferie degradate) dove un mondo frastornato e frastagliato combatte una vera guerra fra poveri di vicini che, a parte l’acqua alla gola della sopravvivenza quotidiana, null’altro accomuna; la grandezza del cantante è nel tratteggiare ora con umorismo, ora con tenerezza, ora con sarcasmo un intero mondo nei pochi minuti della canzone, offrendo il perfetto spaccato di un vissuto comune talmente familiare ai più, da restare nella zona grigia del “così quotidiano da essere invisibile”.
Ricordo ancora Mimì L’Ennui (Mimì la Noia) ritratto di una Teen Agers in preda a un’invincibile forma di moderno spleen esistenziale, una noia velenosa incontrollabile, in grado di fagocitare amori, pulsioni, speranze e rabbie in una resa totale

Non ama niente
nemmeno gli amici
che dicono che è stanca
di trascinare la carcassa
in questi luoghi marci
in questa povera vita senza vita
si annoia Mimì

con questo ritratto Renaud esce anche dall’ambiente sociale dei miserabili che gli è consono, per attingere a un comportamento, non più tipicamente proletario o francese, ma semplicemente universale.
Questi gli episodi più interessanti di un disco denso, compatto, carico di umori e di humour, e che, come dicevamo, comincia a segnare per Renaud l’inizio di un travolgente successo, che lo porterà in vetta ad ogni classifica nazionale.

Il disco successivo, che già dal titolo (Le retour de Gerard Lambert 1981) fa il verso ad una delle canzoni più bozzettistiche del precedente, non può che porsi come una continuazione di quello e, pur non stupendo per novità, ne approfondisce egregiamente i temi.
C’è Banlieu Rouge (Periferia rossa) in cui, come ogni volta che racconta una figura marginale mescolando al cinismo una sorta di brusca tenerezza, attinge al sommo della sua arte: nello specifico si tratta di una vedova di mezz’età sull’orlo della povertà, che ha come unica consolazione la radio, i gatti e i pesci rossi con cui parla e che la notte sente muoversi irrequieti, che non nutre speranze e desideri ma solo una sorta di feroce delusione che non riesce a trasformarsi in rabbia, dal momento che

non crede in se stessa
e non crede agli umani
comunque ha piazzato il buon Dio
sopra il suo letto
a lui crede – forse –
ma non è reciproco.

C’è Oskar, stupendo ritratto dello zio minatore nelle cave del nord, emblema del proletario iperpoliticizzato, nei ranghi di partito e sindacato, sfruttato e poi gettato via come un limone, spremuto dai padroni, ma che conserva una forza interiore con cui attraversa un’esistenza difficile, finché

non è partito, come dicono i poeti
né è volato in cielo come dicono i preti
un mattino di dicembre
per un cancro imbecille
è morto.

La canzone solitamente priva di fronzoli e artifici retorici, priva di qualsiasi morale da finale di favoletta, si distingue proprio per una sorta di orgoglioso cinismo che le fa raggiungere il fremito di eternità della vita realmente vissuta.
La Blanche, con cui si prende posizione in maniera molto dura contro l’eroina, è il resoconto di un dialogo con un vecchio amico divenuto tossicodipendente, condotto sul filo di un’amara, tenera ironia

pare che la tua ganza
sia scappata con la cassa
forse perchè non ti tirava più
per le sue cosce e le sue chiappe
che vuoi che ti dica...?
che eri troppo bello per lei
ma no... sto scherzando
non sono crudele

che vela appena la rabbia lasciata esplodere nel finale

ma se trovo il tuo spacciatore
devo al suo cuore
due coltellate da parte di un vecchio amico
cosa non facile
visto che quest’escremento
non credo che abbia un cuore a portata di mano.

Stupenda anche la canzone Manu, sorta di dialogo con se stesso (il secondo nome di Renaud è proprio Manuel) sulla fugacità dell’amore, e sulla difficoltà di gestire un cuore in pezzi conciliandolo con un aspetto da duro in giubbotto di cuoio e tatuaggi.
Il successo, dicevamo, sempre crescente, porta Renaud a calcare le scene dell’Olympia (spettacolo anch’esso documentato su disco), e questi lo fa cantando le canzoni più dure del suo repertorio, aprendo proprio con Ou est que j’ai mis mon flingue?, sparando addosso al pubblico, presumibilmente composto da studenti di sinistra, una violentissima satira sui figli di papà che all’università diventano improvvisamente rivoluzionari, ma, in fondo, studiano come perpetuare una cultura borghese:

studente
peli al mento
non sono della tua razza
/.../
c’è solo la scuola della strada
che m’infanga gli stivali
studente di giurisprudenza
ci sono più fascisti nel tuo corso
che in un reggimento di parà
/.../
domani arriverai
nella tua toga imbrattata di sangue
a far applicare le leggi
che nessuno ha mai votato
/… /
studente di medicina
ti rompi per sette anni
per diventare mercante di penicillina
/.../
la tua medicina è una puttana
e il suo magnaccia è il farmacista
/.../
la tua cultura ci fa vomitare
studente rispettabile
che ti vedi già dirigente
trascinando nella cartella
la coglionaggine dei tuoi padri

gli arrangiamenti, decisamente rockettari (il disco risulta registrato molto meglio del precedente live), danno a queste strofe un’aria ancor più incanaglita e aggressiva.
La fase violenta, quella più legata al passato di militante anarchico, della carriera di Renaud è, anche formalmente, arrivata al suo apice; a questo punto il rischio è quello di trasformarsi nella ripetitiva macchietta del cantautore incazzato, ma vedremo che, senza rinnegare niente, l’ancor giovanissimo Sechan, ha altre frecce al suo arco.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it

La prima parte di questo articolo è apparsa sullo scorso numero della rivista (“A” 308, maggio 2005).