rivista anarchica
anno 35 n. 309
giugno 2005


eloquenza

La mia parola vale la tua
di Philippe Breton

 

La parola costituisce uno spazio sostitutivo alla violenza e all’onnipotenza del potere. Un nuovo libro di Elèuthera.

 

La rivoluzione democratica greca è il frutto di una duplice rottura. Da un lato con i resti di un’organizzazione sociale primitiva che non è così distante nel tempo e che segna ancora la società con il marchio di un certo fatalismo; dall’altro con il ricordo della civiltà micenea, una civiltà di palazzo come la maggior parte di quelle prime civiltà che spuntavano qua e là sul pianeta. Uno dei momenti storici più noti della transizione alla democrazia è la “rivoluzione degli spiriti”, che si attua tra l’VIII e il VII secolo a. C. strutturandosi attorno alla rappresentazione di un cosmo retto dall’eguaglianza e dalla simmetria. Qualsiasi squilibrio (la malattia, per esempio) è concepito come attinente al dominio (monarchia) di un elemento sugli altri, mentre il buon ordine delle cose rimanda a una “legge di equilibrio e di costante reciprocità”.
Questo nuovo ordine del mondo si traduce immediatamente in una straordinaria preminenza della parola su ogni altro strumento di potere. Una parola nuova cui viene attribuita la capacità di attuare concretamente quella “costante reciprocità”. La rivoluzione ateniese porta quindi a una rottura sostanziale rispetto al modello antico. L’ideale democratico, ma soprattutto il nuovo rapporto con la parola cui esso apre le porte, servirà da riferimento per numerose società che seguiranno, fra cui le società occidentali contemporanee.

Una società organizzata attorno alla parola

Nella descrizione che ci propone Vernant, la nuova società greca rompe con una società precedente dominata dall’“immagine mitica di un mondo a diversi livelli”, con un alto e un basso in opposizione assoluta. La società antica è una società “olista”, “organica”, secondo l’analisi di Louis Dumont, il quale prende l’esempio dell’antico sistema indiano delle caste per mostrare come la società democratica rappresenti una rottura rispetto a una società fondata sulla diseguaglianza, dato che nel sistema delle caste la diseguaglianza è organizzata e legittimata.
La rottura si opera anche nei confronti del fatalismo delle società arcaiche, a vantaggio di un ideale di vita sociale in cui la liberazione della parola rende ognuno un po’ più padrone del proprio destino e dove l’idea stessa di destino, che era lo schema esplicativo fin dalla notte dei tempi, lascia il posto a quello della libertà attraverso la parola. La rottura con i modelli antichi è evidentemente molto importante nel campo della politica, che si costituisce proprio in questo contesto, in quanto non ci si affida più a una legge trascendente, ma a una discussione, a una decisione collettiva dei cittadini.
Il “nuovo ordine della natura” inaugurato dalla democrazia ateniese promuove un ideale di eguaglianza e di simmetria. Questo ordine non è più gerarchico: “Il nuovo spazio sociale ha un centro: (...) rispetto a tale centro gli individui e i gruppi occupano posizioni simmetriche. (...). L’agorà, che concretizza sul territorio questa disposizione spaziale, costituisce il centro di uno spazio pubblico e comune. Tutti coloro che vi accedono per questo stesso motivo si definiscono eguali, isoi. Per il fatto stesso di essere presenti in questo spazio politico, essi entrano in una relazione di perfetta reciprocità; (...) spazio centrale, spazio comune e pubblico, egualitario e simmetrico, ma anche spazio laicizzato, fatto per il confronto, il dibattito, l’argomentazione, contrapposto allo spazio che si qualifica come religioso dell’Acropoli”.
Idealmente è la fine della decisione che viene dall’alto, perché questa è presa dalla maggioranza dei cittadini nel contesto molto rigoroso di rapporti sociali orizzontali. L’ideale cittadino è quindi quello del “non comandare né obbedire”. Spiega Jacqueline de Romilly: “La tirannide per Atene è un abominio”.
L’esistenza di una cittadinanza democratica comporta pertanto una “straordinaria preminenza della parola su tutti gli strumenti di potere”, una parola che “non è il rituale, la formula giusta, ma il contraddittorio, la discussione, l’argomentazione”. Quest’ultima diventa un ideale di comunicazione. L’uomo ideale, il cittadino, è colui che parla, discute e decide nel quadro generale di una cittadinanza definita come adunanza di parole, dove una parola vale l’altra, ma nessuna è pari a quella collettiva.
Hannah Arendt insiste sul fatto che la democrazia corrisponde al sorgere di uno “spazio dell’apparenza”, di cui essa è in fondo l’istituzionalizzazione: “Lo spazio dell’apparenza comincia a esistere quando gli uomini si riuniscono nella modalità della parola e dell’azione; esso precede pertanto ogni costituzione formale del dominio pubblico e delle forme di governo” (1).
La città democratica greca non è quindi un luogo fisico, uno spazio territoriale o identitario, ma “l’organizzazione del popolo, che nasce dall’agire e dal parlare insieme, (...) dove l’azione e la parola creano tra i partecipanti uno spazio che può trovare un suo luogo in qualsiasi quando e in qualsiasi dove; (...) spazio dell’apparire nel senso più ampio, (...) ove gli uomini non esistono semplicemente come altri oggetti inanimati, ma fanno esplicitamente la loro apparizione”. La comparsa dell’uomo in quanto essere distinto dal resto del mondo rappresenta il segno più certo di una rottura con il pensiero primitivo, che ignorava questa separazione.

L’invenzione della retorica

Parallelamente all’invenzione della democrazia – o per attuarla – il mondo greco inventa la techné rhetorikè, “l’arte di convincere”, di manipolare la parola in quanto strumento dell’“apparire”. Si pone immediatamente una questione: la retorica non è forse un puro strumento di potere, una pura riflessione sulla parola del potere, di cui alcuni potrebbero impadronirsi per consolidare il proprio dominio?
Una visione del genere non terrebbe conto di due aspetti importanti. In primo luogo, questa riflessione pragmatica sulla parola è nata e ha senso soltanto nel contesto di una condivisione del potere tra eguali: il suo pieno esercizio comporta una concreta attuazione del principio di eguaglianza.
La parola retorica è lo strumento che parifica i rapporti sociali: praticare questa nuova arte della parola significa produrre nel concreto un legame sociale egualitario. In secondo luogo, i valori che stanno al centro della retorica, e che si diffonderanno come ideali in tutta la società, sono chiaramente antagonisti a qualsiasi idea di dominio.
È pur vero ciò che ricorda Jacqueline de Romilly: “Come per la giustizia si sono viste apparire forme di giudizio in cui la violenza si infiltrava nelle istituzioni stesse destinate a eliminarla, così nella democrazia, accanto alle leggi scritte e ai bei principi, Euripide denuncia la frequente intrusione della violenza nella vita politica”. Il fatto che certe pratiche di potere, di esercizio del dominio, anche grazie alle risorse arcaiche che permettono di sfruttare la parola, si siano protratte a lungo (che è il meno che si possa dire a proposito), non cambia affatto i termini della questione.
La retorica, in fondo, è una selezione, tra le tante possibilità che ci offre, di ciò che potrebbe costituire un nuovo uso della parola, egualitario, pacificatore, in grado di far crescere la persona, nel senso che le dà i mezzi per apparire di fronte agli altri come persona.
Aristotele apre la sua Retorica con una riflessione su ciò che si può fare e su ciò che non si dovrebbe fare con la parola. La retorica, come aveva giustamente inteso Roland Barthes, è anche un’etica, una moralizzazione della parola che comporta certe rinunce. D’altra parte il mondo greco non esiterà, come abbiamo visto, a introdurre norme rigorose per l’uso della parola pubblica, norme intese a proteggere il pubblico dai meccanismi di manipolazione attivati da certi oratori e dai demagoghi.

Il rifiuto della diseguaglianza davanti alla parola

La società greca, che peraltro è una società schiavista non essendo l’ideale di cittadinanza ancora universale, non è certo ideale dal punto di vista di una riduzione delle diseguaglianze. Essa apre però uno spazio nuovo, centrale, essenziale, in cui è possibile esercitare una concreta eguaglianza.
Come dice Emmanuel Terray, la democrazia, constatando le disparità naturali o quelle sulle quali non può provvisoriamente operare, adotta una soluzione realistica: “Ritagliare uno spazio politico all’interno del campo sociale; lasciar agire al di fuori dei confini di questo spazio le diseguaglianze di qualsiasi natura; e al contrario considerarle nulle e inesistenti all’interno di questi limiti”.
La democrazia greca è così in grado di sopportare qualsiasi diseguaglianza tranne una, quella davanti alla parola, perché essa sta al centro. Tant’è che i Greci inventano subito una specie di insegnamento della parola, per mettere ognuno più o meno a livello degli altri e per far sì che ognuno sia il più possibile eguale all’altro nello spazio pubblico.
Tutti gli autori che si occupano di retorica, greci o latini, insistono sul fatto che essa è nata contemporaneamente alla democrazia. Da questo punto di vista i sofisti, quei famosi sofisti che la tradizione filosofica a partire da Platone ha condannato, sono maestri di democrazia, nel senso che si sono impegnati costantemente per rendere condivisibile il proprio sapere. I sofisti (da sophia, sapienza) sono educatori in senso forte, perché offrono le tecniche per prendere la parola: “danno la parola”. E non si arrendono finché le differenze di livello, le disparità iniziali nella capacità di prendere la parola non siano annullate.
La retorica ha la grande capacità di equiparare la parola, e in questo senso svolge una funzione essenziale nella democrazia. Nello stesso tempo, fa della parola il migliore surrogato della violenza. La presa di parola, caratteristica fondamentale dell’invenzione democratica, sostituisce un rapporto sociale fondato sulla violenza.
Va altresì notato come in tutte le situazioni importanti della vita sociale l’oratore antico parli senza testo, come se ciò garantisca l’autenticità della parola che sembra appunto sgorgare da lui, da quella dimensione interiore che nasce proprio insieme alla democrazia. Questa pratica stimola oltremodo la memoria, ma anche qui si va incontro a disparità naturali. E infatti nella retorica si insegnano fin da subito procedimenti e tecniche di memorizzazione che permettono di rimettere tutti sullo stesso piano.

La retorica ovvero il linguaggio sotto osservazione

Un elemento essenziale della rottura che stiamo cercando di descrivere è la presa di coscienza, anch’essa segnata da fasi di avanzamento e di arretramento, da folgoranti progressi e da stasi prolungate, del fatto che la parola è una realtà autonoma, sulla quale è possibile riflettere. Questa consapevolezza è talora presente nelle società primitive che spesso intuiscono l’importanza del linguaggio, come nella già citata narrazione dei Dogon sulla storicità della parola, sulle tappe toccate nel suo sviluppo. Ma siamo più nell’ambito dell’intuizione che in quello dell’osservazione.
Il mondo democratico greco dà invece il via a una riflessione specifica e sistematica. L’invenzione della retorica coincide con una presa di distanza dalla parola. Come dice Roland Barthes, la retorica è un “metalinguaggio” che ha come oggetto la parola. Essa è ormai messa lì sul tavolo, come un oggetto che si osserva, del quale si apprezza l’efficacia in certe circostanze, come uno strumento che si tenta di perfezionare.
La riflessione è dapprima una ricerca pratica, legata al fatto che la parola acquisisce un nuovo statuto che la pone in posizione centrale, ma soprattutto al fatto che non si cerca più di limitarla all’esercizio di un potere particolare. È in questo preciso momento che si inventano le prime tecniche del dire, che si avvia quel movimento di diffrazione che farà vivere in modo sempre più nettamente distinto la parola come opinione, come espressione di sé o come apportatrice di una descrizione.
Il suo impiego, a questo punto, si diffonde come una deflagrazione. Ogni cittadino se ne impadronisce e ascolta con attenzione i sofisti che pretendono di possedere un sapere sulla parola. Costoro vogliono ora trasmettere agli altri le loro osservazioni, insegnare ciò che sanno: come prendere la parola, come far girare le frasi nella bocca in modo da renderle quanto più efficaci possibile in un ambiente in cui, ormai, tutto dipende dalla parola.
Non c’è dubbio che il nuovo rapporto con la scrittura che ha il mondo greco, soprattutto grazie al notevole perfezionamento apportato dalla scrittura alfabetica con la notazione completa dei suoni, abbia una certa importanza in questa presa di coscienza. Ma la retorica è in primo luogo riflessione sulla parola orale e solo molto più tardi, con Quintiliano (e sono ormai trascorsi vari secoli), diventerà un osservatorio sulla parola scritta.
“L’impero retorico” – il termine è di Roland Barthes – esercita la sua influenza in profondità su tutta la cultura occidentale. Conosce periodi di relativo oblio o di ripiegamento in istituzioni chiuse (nel Medio Evo, per esempio) e altri di rapida fioritura. Foucault, da parte sua, ne ha analizzato il rinnovamento in età classica. Dal XVII secolo, infatti, “il discorso diventa a sua volta oggetto di linguaggio; (...) non si cerca più di fare leva sul grande proposito enigmatico che si cela dietro i suoi segni: gli si chiede come funziona, quali rappresentazioni designa, quali elementi si ritaglia ed estrae. (...).
Il commento lascia il posto alla critica”. La riscoperta accompagna lo sviluppo delle scienze moderne, delle scienze esatte, ma anche delle scienze umane, delle quali, dice Gusdorf, la retorica è la “matrice”.
La retorica antica rappresenta in questo senso la vera “svolta linguistica” che una prospettiva un po’ miope ci fa individuare soltanto nel momento in cui nasce la linguistica moderna, con la sua influenza sui campi del sapere a essa prossimi. E se la linguistica si occupa di lingua, un oggetto nobile quant’altri mai, la svolta retorica implica un nuovo sguardo sulla parola e sulla sua articolazione con i mezzi di comunicazione, comprese le lingue orali.

Una triplice rottura

Basta la sola rottura democratica a spiegare il nuovo statuto della parola nelle società moderne e in quelle contemporanee? Sotto certi aspetti il nuovo contesto democratico delle società appare come la matrice della nuova parola.
In quest’ottica, si sarebbe tentati di identificare completamente il nuovo spazio occupato dalla parola con le istituzioni democratiche, che sono quasi interamente istituzionalizzazioni della parola.
Si sarebbe anche tentati di non vedere nella parola un prodotto della democrazia, bensì il contrario: non è forse il nuovo statuto della parola ad aver prodotto quella che chiamiamo democrazia?
È certamente vero che la rottura che dà vita alla città e allo Stato democratico si organizza intorno a un asse costituito dalle nuove modalità con cui si prendono le decisioni.
Da questo punto di vista c’è una duplice rinuncia: da un lato ai metodi tradizionali con cui si prendevano le decisioni, con tecniche come quelle dell’ordalia che consistevano nel rimettersi all’interpretazione del destino (la disposizione degli animali sacrificati, per esempio, indicava il senso della scelta da fare); dall’altro ai metodi tirannici tipici della civiltà di palazzo, in cui la parola del principe conteneva la decisione.
Il nuovo uso della parola si organizza appunto intorno alla questione della presa di decisione in quanto modalità d’azione. La democrazia in questo senso altro non sarebbe che l’involucro istituzionale delle nuove pratiche che mettono al centro la parola e che sono formalizzate dalla retorica, luogo di differenziazione pratica delle forme del dire.
Se si identificano in modo troppo netto la democrazia e la nuova evoluzione della parola, si finisce però in un vicolo cieco rispetto alle importanti trasformazioni che lo statuto della parola conoscerà ben dopo il mondo greco, in epoche storiche che, in senso stretto, non sono certo periodi in cui il regime politico è particolarmente democratico.
È difficile, infatti, non mettere in rapporto il nuovo statuto della parola con il processo di pacificazione dei costumi e il cambiamento delle norme che regolano la violenza nell’età moderna e in quella contemporanea.
Certo, il nuovo rapporto con la violenza deriva dall’ideale di giustizia greco, intimamente legato a quello di democrazia. Ma se pensiamo alle opere di Norbert Elias, è facile vedere come il processo di pacificazione dei costumi prende avvio, in Francia per esempio, in pieno periodo monarchico.
Indubbiamente la riscoperta dei principi della retorica antica vi svolge una funzione essenziale: con essa si riscopre anche una pratica concreta di democrazia. Ciò nonostante è indispensabile studiare il legame singolare, nuovo, che si stringe tra la violenza e la parola in un contesto politico che non è democratico.
Allo stesso modo non si possono non sottolineare i rapporti che esistono tra lo sviluppo dell’individualismo, che segnerà in modo indelebile le società moderne e contemporanee, e il nuovo statuto della parola. L’individualismo, l’individuo come valore e il ribaltamento del rapporto “io-noi” tanto caro a Elias, si manifestano al di fuori del contesto democratico; ma in fin dei conti, anche l’incontro tra le forme democratiche dello Stato moderno e i valori dell’individualismo, che caratterizza in modo così specifico le società contemporanee, avviene al di fuori di quel contesto.
È dunque essenziale, per comprendere il nuovo statuto della parola, esaminare un po’ più da vicino come esso si manifesti all’interno di un triangolo la cui base è la democrazia, mentre gli altri due lati sono costituiti dal nuovo rapporto con la violenza e dal nuovo ruolo assunto dall’individuo.

Philippe Breton

1. Il concetto di “atto” in Arendt si riferisce all’azione attraverso la parola e non alla fabbricazione di oggetti.

Philippe Breton
Elogio della parola
Il potere della parola contro la parola del potere

traduzione di Guido Lagomarsino
2004, 176 pp., € 14,50