rivista anarchica
anno 35 n. 313
dicembre 2005 - gennaio 2006


racconto

L’incontro
di Olga Foti


Passeggiavo solo, per la strada che porta al fiume e, improvvisamente vidi il vecchio. Stava nel campo, al di là del muretto.
Non so perché mi avvicinai e rimasi ad osservare lui e il campo che si stendeva senza un confine, senza piante e casolari.
Nella incerta luce del pomeriggio l’uomo scavava: uno-due, uno-due… un lavoro lento e continuo che sembrava inesorabile come lo scorrere del tempo. La buca era enorme, profonda, eppure l’uomo continuava: uno-due, uno-due…
“Scusate buonuomo, posso chiedervi cosa fate?”
Rimase piegato sulla vanga ma rispose.
“Cosa faccio? Il mio lavoro, non vedete? Scavo, per poter seppellire.”
“Certo, vedo che scavate, ma la buca è già così profonda... Cosa dovete seppellirci?”
Solo allora sollevò la testa e mi guardò come si guarda qualcuno che, si sa, non potrà capire. “Devo seppellire la Verità, amico. Lo faccio da più di seimila anni”.

Rimasi lì come stordito, gli occhi su quel vecchio che a tratti sembrava vacillante, sul punto di crollare, invece restava saldo e infaticabile e continuava a scavare curvo sull’enorme buca.
Decisi di entrare. A fatica scavalcai il muretto, che pure era basso, e fui nel campo.
Improvvise folate di vento arrivarono fino a me, non so da dove, non c’era vento nella strada, poi udii sibili, lamenti, voci che sembravano umane, e sotto un cielo divenuto di piombo apparvero ai miei occhi una quantità incredibile di tombe: piccole, le une accanto alle altre, e corvi che volavano bassi.
Mi avvicinai con passo incerto. Già distinguevo parole fra quei gemiti, mi chinavo su una tomba che lasciava udire la voce flebile ma chiara di una donna, quando, all’improvviso, il vecchio giunse alle mie spalle.
“Cosa fai tu qui, cosa fai?” gridò irato e con la pala aggiunse terra sul tumulo da cui si levavano i gemiti.
Per qualche istante fu silenzio, poi la voce riprese sommessa.
“Quelle delle piccole tombe, disse il vecchio improvvisamente rabbonito, sono le voci più insistenti”.
Io tacevo, non capivo e non osavo domandare. Guardavo il suo viso senza tempo, la sua mano scarna che si sollevò per dirmi:
“E ora vai, vai!”
Ma io non potevo lasciare così quel campo, non potevo.
“Ah, non vuoi…?”
Sembrò sul punto di arrabbiarsi ancora, invece tacque pensieroso.
“Potrei permetterti di restare, disse, ma non è un bene. Non è bene per te. Guarda!” e indicò la strada oltre il muretto dove passava gente tranquilla come ero io prima.
Oltre le piccole tombe enormi cumuli cupi, e su di essi turbinava il vento, poi urla di rabbia e di dolore, rumori di armature, nitriti, rombi di cannone e scoppi di bombe che scardinavano l’aria. Eppure in quel campo non c’era anima viva, a parte me e il vecchio che mi camminava accanto.
“Qui sono sepolte le Verità sui grandi avvenimenti, disse, e ci vuole terra, molta terra”.
Con la vanga coprì ancora, pestò coi piedi, si avventò su un tumulo fresco gridando: “Silenzio, silenzio!” mentre una nuvola di polvere si spandeva intorno.
Io ascoltavo senza osare aprir bocca, poi il mio sguardo fu attratto da qualcosa di ancora più inquietante: spiazzi vuoti, duri e lisci, come limati dai secoli.
Mi feci coraggio e mi rivolsi al vecchio.
“E… questi qua?”
Scosse la testa, mi fissò: “Capisci davvero poco, amico!”
E i suoi occhi mi restarono addosso.
Sentivo il vento che ululava come una grossa bestia ferita, ruggiva, fischiava, si levava a raffiche, si trasformava in furia con un clamore sempre in crescendo, ma non sentivo urla di rabbia e di dolore, né lamenti. Solo voci controllate, morbide e suadenti, adatte a convincere masse, a ottenere consensi.
Parlavano tutte allo stesso modo, in lingue diverse.
“Hai capito finalmente? disse il vecchio indicando gli spiazzi, capisci? Di certe Verità sepolte non deve restare nemmeno il segno, il sospetto.”
Il cielo era sempre di piombo, i corvi volavano bassi, e nella strada vedevo una donna e un uomo camminare tranquilli e indifferenti senza nemmeno guardare verso il campo.
Come avevo fatto io per anni e anni.

Olga Foti