rivista anarchica
anno 35 n. 313
dicembre 2005 - gennaio 2006


 

La “divina”
audiovisione

È ritrovata? Che cosa? L’Eternità
È il mare che se ne è andato con il sole

Arthur Rimbaud

Cominciamo con una domanda diretta retorica. Cosa sarebbe stata l’arte, la grande Arte (quella con la A maiuscola) senza la committenza della Chiesa? Certo il prodotto finale realizzato doveva saper controbattere abusi censori ed insinuazioni malpensanti che avrebbero voluto nudità velate da discreti mutandoni e vere donne pie ad immedesimare madonne e sante varie (e non “donne di malaffare” come l’intenso vissuto di un Caravaggio ci insegnerà).
Ma tutto questo si staglia su orizzonte di un tempo dell’arte davvero lontano dove le tentazioni tra sacro e profano erano ben presenti, un tempo dell’arte fatto di scoperte ed attenzioni culturali, creatività e grandi opere.
Ed oggi nel sempre più tellurico (e a nostro giudizio assolutamente necessario) divenire delle arti contemporanee, nell’ennesimo termine dei “grandi racconti” e verso un’idea ed una pratica delle arti sempre più en travesti da facimenti (e disfacimenti) audiovisivi, carico di ulteriori “impegni di mercato” la divina committenza è talmente “sottodimensionata” (almeno apparentemente) che l’unico suo destino è quello di vedersi riprodotta nella sua annoiata divinità, dentro il suo sguardo che altro non guarda che la sua invenzione (l’essere umano, non si parli di “umanità” mi raccomando) ridotta ad elettronica marionetta di un devastante reality.
Sembra esser questo uno dei motivi base del nuovo lavoro di makinef (makina nefastis): God’s Thumb, opera di potente tensione audio-visiva in cui ritroviamo riccamente ripensati i tenaci “credo” estetico-tecnologici cui da tempo ci ha abituato makinef, ne provo ad elencare almeno 7 (consapevole di far riduzione):

1. i sempre intrecciati livelli interni di lettura;
2. gli assalti frontali verso il “gusto del pubblico”;
3. le marcate varianti prospettiche;
4. i montaggi convulsi e le decostruzioni del suono e dell’immagine;
5. la neutralizzazione dell’autorialità e dell’io creativo (signore e signori, molto prima di Luther Blisset e storie varie);
6. le mistificazioni del rumore ed i paradigmi della visione;
7. l’ironia.

God’s Thumb ci indica, nel caso specifico, l’idea di unicità del divino secondo makinef: il pollice (“ovvero il dito più veloce dell’universo che fa zapping fra le nostre vite” come recita una didascalia in video) un’incorporazione metafisica dell’agire divino che si realizza unicamente dentro uno spazio audiovisivo che controlla (convulsamente) un mondo (altrettanto convulso) che batte al ritmo dei 24 fotogrammi al secondo.

Fotogrammi visceralmente sparati a ripetizione sullo schermo. Quest’opera audiovisiva di makinef, ça va sans dir, lavora sulla ridondanza e la ripetizione ossessiva dell’immagine, ma anche sulla disperata velocità rabbiosa di volerle controllare queste immagini. God’s Thumb è l’esasperata volontà di conquista dell’immagine (in particolare nella sua piega televisiva) ed i dati statistici inseriti da makinef nell’arco dei suoi 06:38:09, ci indicano gli altri desideri del pollice divino. Un pollice che aziona un metafisico telecomando “che fa zapping fra le nostre vite” attraverso schegge, frammenti, deliri, iconografie della contemporaneità, falle, finzioni.
A tutto questo aggiungete le frasi che scorrono tra le immagini del video, ulteriori tracce-segni che arricchiscono l’obiettivo della trama finale che sottende God’s Thumb (“Se credi che siamo davvero dotati di libero arbitrio, allora sai che Dio non può controllarci veramente”. “E dal momento che Dio non può controllarci si limita a guardare e a cambiare canale quando si annoia”. “Da qualche parte nei cieli, sei in diretta su un sito di video web perché Dio ci navighi”. “E potrebbe essere che noi non siamo altro che la televisione di Dio”) (1).
Logicamente la musica (anche nelle vesti di suono, rumore e citazione) è grande componente di God’s Thumb. Ed è proprio nell’opzione sonora che la tensione sperimentale di makinef respira di ancor più grande invenzione. Avvezzo alle grandi macchinerie dell’elettronica (dal rumorismo tardo futurista alla scena industrial, dalle sonorità anni Ottanta al suono cibernetico più azzardato) makinef realizza una fondamentale “colonna sonora” che blocca il respiro e cattura in un perfetto transito sonoro ed immaginifico (per poi chiudersi con un intelligentissimo disfacimento sonoro finale assolutamente da non perdere).
Non c’è sosta nel God’s Thumb di makinef, c’è la pienezza del vortice e del rizoma, c’è l’esplosione di suono ed immagine, ma c’è – come sempre – una sottintesa ed asciutta ironia, un sorriso beffeggiante che mi ha richiamato il sorriso di Wakefield (dal romanzo di Hawthorne del 1837 primo emblema di uomo che guarda la folla, primo avanzamento della “prototelevisione” e soprattutto figura abilmente catturata nel “presente della prima civiltà metropolitana”) (2).
Sorriso beffeggiante quello di makinef, che schernendosi crea distanze o paure; ma chi ama sconfiggere le prime ansie da ricezione, con graduale attenzione ne comprenderà il desiderio di complicità e di tensione energetica, ne coglierà le ridefinizioni del creativo e le progettualità aperte e tutte da scoprire. God’s Thumb, infatti, rientra in una larga riflessione sul pensiero mistico cui da qualche tempo lavora makinef (The Babel series). Una riflessione audiovisiva dove ritroveremo accensioni di sorprese, sintesi labirintiche di tensione sincretica, possibilità e premonizioni, luminescenze visionarie, sfide all’eternità e plasticità del sogno (soprattutto se doppio, triplo, quadruplo…).

Alfonso Amendola

Alfonso Amendola insegna presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Università di Salerno dove, tra le altre cose, dirige le attività del Laboratorio “Analisi dell’Opera Audiovisiva”. Studioso di culture di massa e forme dell’avanguardia, ha pubblicato diversi saggi e lavori monografici, di recente: Frammenti d’immagine. Scene, schermi, video per una sociologia della sperimentazione (Liguori 2005).


Note

1. Chuck Palahniuk, Invisible monsters, Mondadori, Milano, 2003
2. Alberto Abruzzese, Lo splendore della TV. Origini e destino del linguaggio audiovisivo, Costa & Nolan, Genova, 1995, p. 64
.


 

 

Una testa
piena

Frame Produzioni e Officine Cinematografiche hanno presentato in anteprima al CPA Firenze sud L’uomo con la testa piena di film un documentario di Massimo Fallai, 2005.
Il documentario narra attraverso gli aneddoti e le immagini di Jo La Face (Giovanni Valerio), proiezionista di professione e per passione, compagno anarchico calabrese trapiantato a Firenze, “uomo con la testa piena di film”; la storia quasi trentennale di proiezioni cinematografiche ininterrotte e militanti, negli spazi liberati dei centri sociali (Ex Emerson, vicolo del Panico ecc.) e nei luoghi del vero cinema. Il cinema resistente che si oppone all’omologazione dilagante delle multisala, fast food dell’immagine, e alla dittatura del video e digitale, affermando l’esistenza nuda e cruda della pellicola, quella che per usare le parole di Jo “è una cosa viva” graffiata e fragile, carnale e vissuta, vulnerabile e perciò vitale.
Proiettore, pizze, motore. I soliti gesti ripetuti da anni con capacità certosina, attenzione maniacale, e da sempre tante incognite. Ma anche tante bellissime sorprese, esaltanti. Come la visita di qualche illustre personaggio, che esce dal recinto della notorietà per annusare il mondo.
Massimo Fallai, il regista, è stato colpito da Jo quando gli ha detto “nella mia testa ci sono 15.000 film”, e così ha deciso di raccontare questa storia, e lo ha fatto al meglio, usando una telecamera professionale e una capacità fantastica nel cogliere particolari, piccole quotidianità, sensibilità persino quasi femminili (e del resto Jo che non a caso preferisce chiamarsi con il cognome della madre, proviene da un mondo matriarcale) che raccontano una storia grande. Jo è soltanto un cantastorie d’un mondo immenso, che potrebbe scomparire sommerso dalla tecnologia digitale e soprattutto dall’invadenza del cinema commerciale “che macina titoli su titoli continuamente, come una fabbrica che deve sfornare prodotti”.
Si accalora, Jo, nel ribadire che il cinema vero non sono i film di cassetta e non è nemmeno arido collezionismo borghese, ma è sangue, è vita, sono storie di uomini e donne, degne di uscire alla luce dal buio degli archivi e di essere proiettate, tutte, perché “dietro ogni film ci sono delle persone che hanno dato la vita per raccontarsi”. E che persone, quando si parla di Luis Buñuel, di Orson Welles, di Pier Paolo Pasolini, di François Truffaut, di Pietro Germi, dei Fratelli Marx e di tanti altri ai quali sono state dedicate strabilianti rassegne nei centri sociali e nei cinema d’essai fiorentini, costruite ogni volta giocando su felici abbinamenti con cibo, alcool, performance teatrali, proiezioni di diapo, mostre fotografiche, banchini di libri e controinformazione.
Ma anche in modo assolutamente imprevedibile, uscendo persino dallo spazio preposto all’interno di un edificio, e riproponendosi all’esterno, sui muri dei palazzi o in spiaggia, su un telone installato in mezzo all’acqua del mare. E così il cinema autentico, fuori dalle mega multisala dei centri commerciali e dalla triste consuetudine di vedersi una videocassetta in solitudine (i due lati dello stesso aspetto), assolve al suo originario compito di raccontare storie e insieme di riunire le persone in spazi umanizzati, di farle respirare, parlare e mangiare insieme. E magari aspettarsi che qualcuno esca fuori dalla cabina di proiezione dicendo “scusate se la pellicola si è rotta negli ultimi cinque minuti, non riesco a ripararla, vi racconto il finale del film”.
“C’è gente che ci schiacciava intere giornate al cinema” dice Jo a proposito dello Spazio Uno, rammaricato per non poter più continuare questa esperienza. Negli ultimi tempi il progetto del cinema al Centro Popolare Autogestito, ha preso vita con rassegne di altissimo livello, a prezzi super popolari, a cadenza settimanale.
Il documentario L’uomo con la testa piena di film potrebbe essere un veicolo fantastico per proporre questo modo di viversi il cinema.
Spero che sia nelle intenzioni del regista l’idea che penso io, cioè di proiettarlo in ogni occasione possibile.
Per chi volesse avere ulteriori informazioni: massimofallai@frameproduzioni.it.

Patrizia “Pralina” Diamante