rivista anarchica
anno 36 n. 314
febbraio 2006


No TAV

Sarà düra!
di Maria Matteo

 

La “lunga marcia” della gente della Valsusa nel racconto di una militante della Federazione Anarchica Torinese. Che ha partecipato alle varie fasi della lotta. Con il fiato corto.

Sono trascorsi solo due mesi dal cinque di novembre, il giorno della fiaccolata contro l’occupazione militare della frazione Urbiano di Mompantero. Due mesi molto lunghi, come sanno esser lunghi i tempi quando, all’improvviso, tutto va più in fretta e il quotidiano, normalmente misurato da chi decide per tutti e a tutti impone la giornata scandita secondo i ritmi del lavoro, della produzione e del consumo, si spezza per far posto al tempo della lotta e della libertà. Capita di rado, ma capita.
La cronaca di quella fiaccolata chiudeva su questa rivista il racconto degli ultimi mesi della lotta contro il Tav in Val Susa. Già allora l’addensarsi degli avvenimenti rendeva difficile districare la descrizione degli eventi, necessariamente di parte, dall’analisi della complessa partita tra la lobby tavista e alcune decine di migliaia di uomini, donne e bambini decisi a non mollare.
Da allora di acqua sotto i ponti della Dora ne è passata tanta.
La Val Susa, un nome che per la maggior parte degli italiani era mera e vaga indicazione geografica, è divenuta un caso nazionale, occupando le prime pagine dei giornali e aggiudicandosi un posto di rilievo nei telegiornali e sui rotocalchi.

Lo sciopero generale

Lo sciopero generale del 16 novembre, proclamato nei giorni immediatamente successivi all’occupazione dei terreni di Mompantero, in località Seghino, ha coinvolto l’intera valle, nonostante il giorno precedente la Commissione di garanzia lo avesse dichiarato illegale, intimando alla Cub, il sindacato di base che lo aveva proclamato, di revocarlo. Ma le norme antisciopero poco potevano contro la volontà di costruire un’iniziativa di lotta che, bloccando per un’intera giornata la Valle, rendesse evidente la coralità di un’opposizione che non si è lasciata intimorire neppure dalla polizia e dalle continue minacce del Ministero dell’Interno, che a intervalli regolari ha continuato ad invocare scenari di violenza e distruzione per la presenza di pericolosi anarchici infiltrati in valle. Una vecchia tattica, quella di mettere in difficoltà un movimento in crescita, tentando di creare una divisione tra i buoni, quelli della protesta democratica e i cattivi, gli anarchici violenti, il babau da sbandierare in ogni occasione. Una tattica che sinora non ha dato frutti, anche perché in Val Susa tanta gente ha imparato a toccare le cose con le proprie mani, ad andare al cuore delle questioni, a non farsi abbindolare dalla chiacchiere del Ministro di turno. Sia questo il Lunardi degli “affari di famiglia” o il Pisanu con l’ossessione degli anarchici.
Quel 16 novembre tutta la Valle si è fermata: solo i treni passavano e, rallentando al massimo nei punti in cui la ferrovia corre parallela e vicina alla strada, i macchinisti fischiavano a lungo mentre dai finestrini i passeggeri salutavano a pugno chiuso e sventolando bandiere No-Tav. Tutte le fabbriche della valle (5.000 addetti), tutti gli esercizi commerciali, compresi bar e distributori, tutte le scuole, uffici postali, banche, officine artigiane, allevamenti, erano chiusi. Sulle porte dei negozi bandiere e cartelli No-Tav e la scritta: “Per una valle viva, oggi sciopero: No Tav”.
Lungo le strade della Valle i cartelli, gli striscioni, le bandiere erano dappertutto. Significativa la volontà di respingere al mittente le provocazioni di Pisanu e di Lunardi. Numerosi i cartelli ironici in cui si stigmatizzava la frase del ministro sui “pelandroni” della Val Susa che perdono tempo a manifestare e quelli contro il tentativo di criminalizzare la lotta in Valle.
Non si contavano gli striscioni contro l’occupazione militare, contro l’imposizione violenta della trivella a Seghino di Mompantero entrata provocatoriamente in funzione il giorno prima dello sciopero generale.
Andata letteralmente a ruba la lettera aperta al Presidente della Comunità montana Bassa Val Susa, Antonio Ferrentino, diffusa dalla FAI torinese in migliaia di copie alla manifestazione. Nella lettera veniva denunciata l’esplicita criminalizzazione degli anarchici da parte di Ferrentino che, in un’intervista al quotidiano “La Stampa”, aveva insinuato che dietro al pacco contenente esplosivo fatto rinvenire sulla statale del Moncenisio e i proiettili inviati alla governatore Mercedes Bresso, non ci potessero essere che gli anarchici, gli stessi che si erano permessi di criticare pubblicamente le scelte di chi, come lui, si era prodigato nella ricerca di improbabili scorciatoie istituzionali. Di fatto la criminalizzazione degli anarchici è il preludio al tentativo di criminalizzare le forme più radicali di resistenza al TAV della popolazione. Non a caso Ferrentino ha provato a contrapporre lo sciopero ai blocchi dei cantieri, delle strade e della ferrovia. In questo modo ha, nei fatti, condannato le pratiche che avevano sino ad allora consentito di tenere fuori dalla valle il TAV.
Ferrentino gioca in valle un ruolo ambiguo: un giorno capopopolo in versione Marcos della Bassa Val Susa, un altro giorno uomo d’ordine. Un ruolo che negli anni è riuscito sempre a reggere, restando abilmente in bilico tra le poltrone istituzionali e le piazze, ma che oggi, di fronte a scelte sempre più difficili, fa fatica a mantenere. In questi mesi abbiamo altresì assistito al crescere del ruolo delle assemblee popolari. Durante l’estate parevano del tutto allineate alle mosse delle istituzioni della valle e in quest’autunno di lotta sono divenute le vere protagoniste politiche di quella che oggi è senz’altro un’esperienza di partecipazione diretta popolare dalla spiccata attitudine libertaria.

Il campo No Tav di Venaus

L’accelerazione repressiva voluta da Pisanu con l’occupazione militare del territorio di Mompantero si fa più düra sui terreni di Venaus, che CMC, la cooperativa “rossa” con l’appalto per i lavori del tunnel di servizio di 10 chilometri, preludio alle due canne di 54 Km tra Venaus e S. Jean de Maurienne, annuncia di voler espropriare il 30 novembre. Per ben due volte CMC aveva provato a prendere possesso dei terreni e aveva dovuto desistere di fronte alle migliaia di persone che avevano infoltito il presidio permanente che, dal 4 giugno, teneva sotto osservazione la zona.
Pisanu questa volta gioca d’anticipo ed manda un paio di giorni prima le sue truppe ad occupare i terreni di Venaus, bloccando l’accesso al paese con check point piazzati al bivio “passeggeri” tra la statale 25 del Moncenisio e la provinciale per Venaus. Dopo una giornata di tensione il ministro di polizia è obbligato a far recedere i suoi uomini che si asserragliano all’interno dell’area dei cantieri ex Sitaf, poi AEM. Nella notte tra il 29 e il 30 novembre una folla di uomini donne bambini, nonostante la neve ed il freddo, si raccolgono a Venaus. Intorno al cantiere nasce un vero accampamento No Tav che circonda la polizia che, a sua volta blocca tutti gli accessi al paese alle auto dei non residenti. Per giorni e giorni i valsusini e i tanti solidali che accorrono da ogni dove si danno il cambio intorno alle quattro barricate che circondano il campo No Tav. È un’esperienza straordinaria di solidarietà e cooperazione. Forse Pisanu riteneva che l’inverno avrebbe avuto la meglio.
Ma si sbagliava. La solidarietà concreta dei tanti che si sono dati turno al presidio, hanno portato legna e cibo ha consentito di superare le durezze dell’inverno in montagna. Decine di tende sono state piantate in mezzo alla neve caduta copiosa, mentre in tanti si susseguivano a cucinare e distribuire pasti e bevande calde.
Dopo una settimana la resistenza anziché scemare si è rinsaldata. A questo punto il governo ha deciso che la parola passasse ai manganelli.

L’assalto della polizia

Sono arrivati di notte. Con le ruspe, i randelli d’ordinanza e la furia delle truppe di occupazione con l’ordine di colpire. Il vicequestore Sanna prima dell’assalto ad una delle barricate di Venaus ha gridato “uccideteli!”. Gambe rotte, teste spaccate, un anziano grave per i colpi ricevuti all’addome, un ragazzo ricoverato per trauma cranico. Il presidio di Venaus è stato spazzato via nella notte tra il 5 e il 6 dicembre.
“Ero sulla barricata a valle, quella grande verso Susa. Erano circa le tre e mezza di notte quando sono arrivati con una ruspa. Prima hanno colpito sulla destra e poi con più decisione sull’altro lato, incuranti delle persone che si trovavano lì”. Comincia così la testimonianza di Mario che la notte del 5 dicembre si trovava a Venaus. “In poco tempo hanno buttato giù la barricata. Poi hanno cominciato ad avanzare, caricando. Noi a mani nude e loro giù con i manganelli a picchiare e picchiare. Siamo riusciti ad arretrare senza correre ma è stata dura fare i cinquecento metri che ci separavano dalle tende e dalla baracca cucina, dove contavamo di unirci agli altri che presidiavano la seconda barricata sulla strada. Quando arriviamo troviamo le tende divelte, la baracca devastata: la polizia ha agito a tenaglia attaccando da tre lati. La situazione è durissima: ci sono due persone ferite a terra prive di sensi e la polizia impedisce l’arrivo delle ambulanze. Ci spingono a lato come bestiame: approfitto della confusione e mi butto per i campi e di lì raggiungo Venaus. Dalla strada da Giaglione, l’unica aperta, arrivano tanti valligiani e insieme si torna ad affrontare la polizia. La tensione è altissima ma il confronto tra gente disarmata e i robocop in divisa è impari: volano altre mazzate. Mi sa che quelli che il giorno prima offrivano il the ai poliziotti oggi non lo faranno più”.
Ancora una volta il ministro ed i tutori del disordine statale hanno fatto i conti senza l’oste. L’oste, in questo caso la popolazione dell’intera valle, ha sopportato per oltre un mese l’occupazione militare di Urbiano e di Venaus. La militarizzazione del territorio, i continui controlli, l’arroganza della polizia hanno avuto degno coronamento con l’attacco notturno al presidio, con la ferocia delle squadre antisommossa, con la disinvoltura con la quale il ministro dell’interno Pisanu ha affermato che la polizia non aveva caricato. E questo nonostante tra i feriti delle non-cariche vi siano stati giornalisti e fotografi, nonostante le numerose testimonianze, nonostante le urla che ho sentito al telefono nella notte del 5 novembre quando è arrivata la notizia dell’attacco.
Ai manganelli di Pisanu fanno da corollario i maggiori organi di disinformazione al servizio della lobby tavista. L’indecente campagna mediatica che da mesi tenta di costruire un clima di allarme intorno alla lotta della Val Susa diviene sempre più dura nei giorni precedenti l’attacco a Venaus. Pisanu si lascia andare all’ennesima dichiarazione contro il rischio di “infiltrazioni” violente dei soliti anarchici.
Sul Corsera di sabato 3 dicembre si descrivevano i poliziotti di stanza a Venaus come ostaggi di manifestanti ostili e violenti. Una falsità sfacciata che faceva a pugni con la realtà di una protesta che, persino di fronte all’occupazione militare, è rimasta del tutto pacifica.
Il persistente tentativo di criminalizzare i valsusini è il segno della profonda difficoltà che il governo di Roma e quello di Torino hanno nell’affrontare la singolare congiunzione tra modalità organizzative orizzontali, lucidità sugli obiettivi, profondo radicamento sociale e scelta di modalità di lotta non violente ma assolutamente radicali, non riassorbibili nell’alveo delle compatibilità politiche. La violenza esercitata a Venaus nella notte del 5 dicembre resterà impressa in modo indelebile nella memoria della gente della valle, che sin dalle prime ore dei 6 dicembre ha dato vita ad una vera e propria rivolta.

La rivolta

Il 6 dicembre alcuni compagni di ritorno da Bussoleno dopo un pomeriggio trascorso in valle dicevano che vi si respirava “un piacevole clima insurrezionale. Ovunque c’erano blocchi fatti con tronchi segati e masserizie” Al diffondersi rapido delle notizie sulla mattanza in corso in Val Cenischia sono iniziati gli scioperi spontanei nelle fabbriche della Valle e in quelle dei paesi della gronda Ovest di Torino. Molti negozi hanno chiuso esponendo cartelli contro il Tav e la militarizzazione e così le scuole elementari dove i genitori hanno ritirato i figli e quelle superiori dove i ragazzi sono scesi in strada.
In breve tutte le strade che da Torino risalgono la valle in direzione del confine francese sono state bloccate dai manifestanti. In tremila hanno eretto barricate sull’autostrada 32 del Frejus, mentre per chilometri e chilometri si allungavano le file dei tir in coda.
A Bussoleno una colonna di camionette della polizia che tentava di aggirare i blocchi passando per vie laterali è stata bloccata da una densa folla di manifestanti e solo l’ennesima mediazione di sindaci e preti ha consentito ai mezzi di andarsene.
La Ferrovia internazionale è stata bloccata ad Avigliana sin dalla mattinata da persone che si sono date il cambio per l’intera giornata. Allo slogan dei giorni precedenti, “Resistere per esistere”, si affianca il motivo conduttore della lotta, pronunciato in dialetto e gridato da tutti a più riprese “Sara düra!”.
La protesta si è estesa anche a Torino, dove per l’intera giornata del 6 gennaio si sono susseguite manifestazioni spontanee e blocchi ferroviari, che hanno coinvolto migliaia di persone.

La “riconquista” di Venaus

L’8 dicembre è giornata festiva: dopo due giorni di rivolta e blocchi stradali e ferroviari le strade sono libere. Sin dalla serata del 6 dicembre l’assemblea della valle, riunitasi a Bussoleno aveva deciso che quel giorno sarebbe partita una marcia con destinazione i terreni occupati di Venaus.
Riporto di seguito la cronaca che buttai giù dopo quella memorabile giornata.
“Susa prime ore del mattino. L’aria è frizzante ma non nevica ancora. L’autostrada è più trafficata del solito, ma non di turisti, sebbene tutti, arrivando a Susa, mettano scarponi ai piedi e si coprano come per una gita invernale. Quando si arriva la marcia è già partita, di buon passo verso Venaus su per i curvoni della statale 25. È il popolo No Tav, è la gente della Val Susa e i tanti che sono accorsi solidalmente da fuori. C’è gente di tutte le età e decine di bambini anche piccolissimi, a piedi o in carrozzella: sembra quasi una passeggiata, ma tutti sanno che non lo sarà. Tre notti prima la furia della polizia si era scatenata sull’accampamento No Tav, ferendo i corpi di tanta gente e calpestando la dignità di tutti. Una bava di vento porta acre l’odore dei lacrimogeni: la polizia ha caricato su ai Passeggeri, il bivio da cui si dipana la provinciale per Venaus, che ormai da settimane solo i residenti e gli uomini in divisa possono imboccare. Incontro un conoscente, uno che lavora dalle mie parti ed incontro spesso al bar. È un uomo non più giovane dall’aspetto mite: appare trafelato. “Ce le hanno date, quante ce ne hanno date. Ci hanno incartati ben bene” E mostra la mano gonfia. Quando arriviamo al bivio vediamo gli sbirri schierati. Il corteo va avanti su per la statale oltrepassando il blocco di polizia mentre comincia a nevicare fitto fitto. La polizia lascia fare: probabilmente pensano che ci accontenteremo di occupare l’autostrada che ha l’ingresso poco sopra. In breve l’autostrada viene bloccata ma il grosso del corteo va ancora avanti sulla statale.
Il fiato mi si fa corto corto. Un giovane accanto a me si carica in spalla il bambino più piccolo e ci sono anziani che passano lesti in avanti: mi vergogno un po’ della mia debolezza. Si arriva poi su un sentiero largo ma pieno di neve, ghiaccio e fango e si comincia a scendere la montagna. Altri imboccheranno una strada che passa più in alto, altri ancora aggirano i birri passando per le case e superando il costone roccioso ai Passeggeri.
Tutta la montagna si riempie di gente che lenta cala giù. Alla partenza da Susa, secondo le stime dei contafile da corteo saremo stati 50.000. È un fiume umano quello che scende la montagna.
Come indiani abbiamo aggirato la polizia: li vediamo dall’alto schierarsi. Una signora accanto a me porta la mano alla bocca e lancia il grido di guerra: un attimo e tutta la montagna risuona. Qualcuno intona Bella Ciao e tutti si sentono come partigiani.
Non avverto più la stanchezza. Arriviamo all’area occupata dai birri, il posto dove vogliono impiantare il cantiere: vedo un nugolo di persone che abbattono le recinzioni e invadono l’area. Pare che poco prima i carabinieri abbiano sparato dei lacrimogeni e poi se la siano data a gambe. Mentre ancora in fondo al cantiere c’è movimento in molti guadagnano un sasso e scartano i panini.
Venaus è stata liberata ed è ora di mangiare. Come sempre in tanti anni che vengo in valle mi stupisco di tanta pacatezza.”
Migliaia e migliaia di persone che pacificamente si riprendono le loro vite violate dalla violenza dello stato: una cosa da far paura.
Tanta paura. Al punto che il giorno dopo la ripresa di Venaus la politica, quella dei palazzi e delle poltrone dorate, si è messa in moto convocando a Roma, nel bel mezzo del ponte dell’immacolata, i sindaci della valle ribelle.
Sul tavolo il governo ha gettato una proposta che nei fatti sancisce la volontà di siglare una tregua, mettendosi al riparo dal rischio di una manifestazione oceanica per le strade di Torino e dalla minaccia di boicottaggio delle Olimpiadi. Dove avevano fallito i manganelli e l’occupazione militare paiono riuscire gli artifizi della politica: il giorno successivo i sindaci, che pure non avevano firmato l’accordo, decidono di rinunciare alla manifestazione prevista per il 17 a Torino, limitandosi a promuovere una kermesse culturale. Nel pomeriggio un’assemblea di centinaia di persone rigetta la proposta-truffa del governo e a gran maggioranza richiede la conferma della manifestazione. Di fronte al no dei sindaci e, in particolare, di Antonio Ferrentino, il giorno successivo un’affollata assemblea convocata dai comitati No Tav proclama la manifestazione del 17 a Torino, scegliendo, per estrema volontà di mantenere unite le varie anime del movimento, di far convergere il corteo con l’iniziativa dei sindaci.
Il movimento da prova di straordinaria maturità rifiutando ogni mediazione e facendo propria, autorganizzandola, la manifestazione di Torino del 17 dicembre.
Sono scelte per nulla scontate che segnano un salto di qualità nella storia della lotta contro il Tav in Valsusa: la gente, come più volte ribadito nelle assemblee della settimane successive, è consapevole ed orgogliosa della propria capacità di autorappresentarsi. In quei giorni la pressione dei media impegnati in una campagna diffamatoria sempre più violenta e quella della magistratura che annuncia arresti e sequestra i terreni di Venaus affidandone la custodia nientedimeno che al General contractor del Tav, la società LTF, nonché la volontà di Ferrentino di mettere in campo il peso di una leadership di tipo carismatico sin’allora quasi indiscussa avrebbero potuto indurre i meno intrepidi ed autonomi a scegliere di accettare la tregua elettorale voluta dal governo e dall’opposizione. Invece no. Le assemblee del 9 e del 10 confermano che la gente è decisa ad andare avanti. Con o senza i sindaci.

La manifestazione di Torino

Il 17 dicembre a Torino sfilano decine di migliaia di persone: chi dice 50, chi 70 chi persino 80 mila. In testa la gente della Val Cenischia, poi gli altri comitati, poi gruppi, associazioni ambientaliste, partiti, e sindacati di base. Persino una manciata di sindaci si presenta alla manifestazione con tanto di fascia tricolore. Gli anarchici sono diverse migliaia. Indicati dai media per giorni e giorni come violenti a caccia di scontri la loro presenza al corteo è stata cancellata da quegli stessi media delusi che gli anarchici non avessero voluto recitare la parte loro assegnata nel teatrino della disinformazione mediatica.
La scelta di scendere in piazza nonostante i politicanti – anche locali – volessero che la gente restasse a casa per consentire ai giochi della politica di palazzo di decidere al loro posto è non solo giusta ma anche efficace. Solo una minoranza segue Ferrentino ed i suoi, mentre i più attraversano in corteo le strade di Torino. La componente anarchica all’interno del movimento è un dato di fatto contro il quale possono ben poco le manovre criminalizzanti di Pisanu e la repressione di polizia, che il 22 dicembre, dopo un presidio al tribunale in solidarietà agli antifascisti e antirazzisti torinesi sotto processo, arresta un anarchico, accusandolo di violenze durante il corteo No Tav del 6 dicembre, il giorno della mattanza di polizia contro l’accampamento di Venaus. I giornali si scatenano sperando di ottenere una spaccatura del movimento, ma, ancora una volta la manovra fallisce.
Il 3 dicembre al Polivalente di Bussoleno un’assemblea di valle esprime la propria solidarietà a Marco, l’anarchico arrestato.

Corteo No Tav a Chambery
L'immagine è tratta dal sito www.notav.it

Chambery e poi…

Nella stessa assemblea viene decisa la partecipazione alla manifestazione No Tav indetta a Chambery per il 7 gennaio dal neonato Collettivo del Rodano Alpi contro la Lione-Torino. Un’altra decisione per nulla scontata, dopo il comunicato con il quale sin dal 27 dicembre il solito Ferrentino, dal sito della Comunità Montana “sconsigliava” la partecipazione ad una manifestazione “organizzata dagli anarchici”.
I compagni arrivati da Chambery vengono accolti con un fragoroso applauso e nessuno chiede loro la carta di identità politica: la marcia della Val Susa si prepara a oltrepassare le alpi.
Sarà düra!
(Ne riparliamo sul prossimo numero)

Maria Matteo