rivista anarchica
anno 36 n. 314
febbraio 2006


attualità

Lo stato “affossato”
di Antonio Cardella

 

Il peso dei disastri provocati dall’armata Berlusconi ricadrà comunque sulle spalle dei cittadini.

 

Se noi anarchici avessimo voluto elaborare ed attuare un piano per delegittimare definitivamente lo stato borghese italiano, non ci saremmo riusciti così bene. Sistema economico, istituzioni giuridiche, poteri costituiti, alta burocrazia, tutti hanno contribuito, in un disegno folle e inconsapevole, a rendere ingovernabile lo stato, a ridurlo al ruolo di palude putrescente, fonte inesauribile d’epidemie.
La stampa, gli anchor man più accreditati si affrettano ad affermare che lo scandalo della “Banda d’Italia”, come è stato con arguzia denominato il malaffare Fiorani-Fazio, non denota una crisi di sistema, ma le deviazioni di “furbetti di quartiere”, che hanno creato uno scompiglio tutto sommato arginabile senza danni definitivi.

Sistema bancario decrepito

Non è certamente così e il convulso tentativo di “chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati” (legge sul risparmio e nuove norme sulla nomina del Governatore e sulle funzioni della Banca d’Italia) sta lì a dimostrare come questo scandalo che investe la finanza italiana sia il sintomo di un male più profondo, di un apparato economico-finanziario e politico-giuridico che non riesce più a dipanare il groviglio di interessi contrastanti e conflittuali che, nel corso di decenni, ha esso stesso creato. É in ordine di tempo, l’ultimo segnale di un capitalismo che dovunque, nel mondo, continua a creare guasti e a ridurre sempre di più i margini per una convivenza civile e pacifica. Certo, in Italia, i sintomi sono più evidenti perché più evidente è la natura stracciona dei protagonisti.
Anche altrove le banche utilizzano i soldi loro affidati dai risparmiatori per speculare, far quadrare i bilanci e accrescere i profitti, solo che altrove il sistema dei controlli e, in casi limitati, un’etica tutto sommato meno permeabile della nostra, limitano i danni e consentono al Paese di ostentare maggiore rispettabilità.
In Italia il processo di decozione del sistema è più sollecito perché siamo una nazione relativamente giovane che non ha consolidato tradizioni virtuose.
Siamo arrivati tardi alla trasformazione industriale, di cui, peraltro, siamo debitori a olandesi, tedesco-austriaci e inglesi; sino alla fine del secondo conflitto mondiale la nostra economia era per il 57% costituita da un’agricoltura appena uscita dal cappio feudale nel sud e tardava a meccanizzarsi al nord. Il sistema bancario era decrepito e l’esercizio del credito, che è vitale per qualsiasi modello di sviluppo, fortemente selettivo a favore dei ricchi e dei potenti.
Per non parlare delle istituzioni politiche: la monarchia sabauda, nel cui nome si era realizzata l’unità della nazione, aveva proiettato il suo provincialismo e la sua miopia politica in tutta la penisola, emarginando il Meridione e abbandonandolo a consorterie politiche fortemente collegate a organizzazioni malavitose che hanno prosperato sino ai giorni nostri, compromettendo qualunque progetto di sviluppo e mortificando le risorse intellettuali e imprenditoriali di un centro-sud in affannosa ricerca di un suo riscatto. Una nazione, insomma, malata da sempre, nella quale l’arte di arrangiarsi prevaleva sempre sui progetti di un ordinato sviluppo e sul corretto equilibrio tra i poteri.
Le classi dirigenti, di conseguenza, erano meno attrezzate ad affrontare e risolvere i problemi sulla base di corrette analisi di merito e più sensibili viceversa a logiche di potere distorte, tutte rivolte a consolidare privilegi ed arbitrii piuttosto che alle esigenze ed al benessere dei cittadini.
Cinquant’anni di potere democristiano non hanno migliorato le cose, anzi hanno istituzionalizzato il sistema clientelare, impiegando risorse immense (si pensi alla famigerata Cassa del Mezzogiorno) per perpetuare il regime, spesso consociativo, della spartizione tra partiti, amici e lobby elettorali, piuttosto che impiegarle per creare infrastrutture e promuovere la produzione di beni e servizi.
Il risultato fu che, specie al sud, ma non soltanto al sud, le regioni furono abbandonate all’arbitrio di consorterie, quasi sempre malavitose, che utilizzarono il loro controllo sul territorio per assicurare dietro lauti compensi ed appalti miliardari, i voti necessari al perpetuarsi del potere costituito.
Non è un mistero che, ancora ai nostri giorni, la selezione della cosiddetta classe dirigente in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania (per indicare le emergenze più evidenti) venga compiuta dalla malavita organizzata, si chiami mafia, ‘ndrangheta, sacra corona unita e via dicendo.
Tutto ciò senza che da parte delle istituzioni vi fosse, anche sporadicamente, uno scatto di schiena, un sostegno anche di facciata a quei pochi cittadini che non si rassegnavano (vedi la fine di Peppino Impastato, indicato subito dalla polizia e dalla magistratura come un dinamitardo maldestro).
Sino alla fine degli anni Sessanta del secolo appena trascorso, inchieste parlamentari parlavano dell’emergenza mafia come di un fenomeno che, se c’era, non era tale da incidere sul buon governo del territorio. Ignoranza? Superficialità? Collusione, piuttosto, di un’intera classe politica che non è nulla se non cavalca i poteri forti e distorti che prosperano paralleli, quando non coincidenti, con le istituzioni pubbliche.

Guitto, imprenditore e “statista”

In una società così approssimativa e priva di valori etici significativi, quale meraviglia può destare la scalata al vertice dello stato di un personaggio da operetta di terz’ordine quale Silvio Berlusconi?
Il mito di un imprenditore rampante che sino alla soglia degli anni Ottanta era pieno di debiti e poi, con l’aiuto di un presidente del consiglio socialista, della mafia e di speculazioni arrischiate, riesce a collocarsi in alto nella scala degli uomini più ricchi del mondo, è un mito che sollecita l’immaginario di un popolo che, per azzardo o disperazione, si gioca piccole o grandi fortune al lotto o al totocalcio.
Un popolo che, con Berlusconi, porta alla ribalta una corte dei miracoli incredibile: mentecatti che sino a ieri avrebbero fatto salti da trapezista se qualcuno avesse assicurato loro la quotidiana facoltà del pranzo e della cena, che adesso, increduli, si sentono chiamare presidenti (sono tutti presidenti) da finti giornalisti che, senza vergogna, si prestano al gioco.
I Bondi, i Giovanardi e gli Schifani, oltre ai Berlusconi, ai Casini e ai Buttiglione sono gli epigoni di una lunga schiera di fantapolitici che hanno retto il timone della zattera Italia.
Adesso che i nodi vengono al pettine, che non è più possibile bluffare, emerge tutto lo squallore di un assetto statale inesistente se non nell’inessenziale sventolio di bandiere tricolori o nel canto stentoreo dell’inno di Mameli.
Adesso siamo chiamati a pagare il prezzo della globalizzazione dei mercati e delle monete. Ed è un prezzo assai gravoso, che ancora per poco riusciremo ad occultare con gli espedienti dei bilanci truccati e degli equilibrismi di un’economia truccata e cialtrona.
Quindi si va a fondo senza che all’orizzonte emerga qualcosa che induca alla speranza: quali che siano i buoni propositi, il peso dei disastri provocati dall’armata Berlusconi, cadrà comunque sulle spalle dei cittadini, penalizzati oltretutto da una politica fiscale che sarà arduo modificare in tempi stretti.
Il problema vero è che la sinistra è refrattaria ad ogni cambiamento radicale del modello di sviluppo. È troppo presa dalla velleità di recuperare i ceti moderati e per questo obiettivo accresce le ambiguità del suo programma.
A parte le conversioni pubbliche ad una religione che esprime una gerarchia arcigna, ottusa ed arrogante, conversioni che, in tempi diversi, avrebbero fatto la fortuna dei giornali umoristici, c’è una timidezza nel prendere posizioni decise, una reticenza nell’affrontare e risolvere i problemi interni di una coalizione conflittuale e per questo difficile da decifrare per un elettore che vuole vederci chiaro. Insomma, da una barca che affonda ad una scialuppa che fa acqua.
Se noi anarchici avessimo voluto affossare questo stato, non ci saremmo riusciti così bene.
Non riesco a rallegrarmene, proprio perché, politicamente, gli anarchici, come movimento organizzato, politicamente attivo, non sono riusciti complessivamente a far sentire la propria voce; non sono stati vicini a quelle donne e a quegli uomini che avvertivano e avvertono un desolato senso di impotenza.
Intendiamoci: non dico affatto che sia mancata la presenza anarchica nei posti e nei momenti di maggiore tensione; e neppure che siano mancati apporti teorici importanti, opportunamente ospitati da una nostra editoria attiva e intelligente. Dico soltanto che non siamo usciti, abbastanza e spesso, dai nostri circoli, dalle nostre sezioni per dire la nostra con voce tale da essere percepita e compresa.
Capita, così, che, senza un retroterra teorico-politico sufficientemente divulgato e immediatamente riconducibile ad una tradizione di azione e di pensiero nobile e consolidata qual è la nostra, la presenza anarchica nelle manifestazioni pubbliche viene quasi sempre assimilata all’eversione cieca e distruttiva, con danni incalcolabili non solo per la nostra immagine, ma anche per la nostra sicurezza. Stiamo attenti a non ridurci ad un movimento d’opinione, ai cui confini permeabili possano premere interpretazioni distorte del nostro pensiero oltre che i soliti tentativi d’infiltrazione e di inquinamento!

Antonio Cardella