rivista anarchica
anno 36 n. 315
marzo 2006


affarismo

La cooperazione imbrigliata
di Andrea Papi

 

Aldilà dello scandalo Unipol & dintorni, quel che conta è la degenerazione dell'originario spirito cooperativistico.

 

Le ultime vicende giudiziarie riguardanti Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti, gli ex numero uno e due di Unipol a livello nazionale, che hanno coinvolto la Lega delle cooperative, meglio nota come coop rosse, ed alti dirigenti DS del livello di Fassino e D'Alema, al di là delle effettive responsabilità e dei concreti coinvolgimenti, tuttora in via d'accertamento, inducono ad una profonda riflessione non banale sul senso della cosa.
Innanzitutto, mi vien da dire, smettiamola con gli accenti scandalistici, che sanno sempre più di tifo da stadio o di operetta da campanile di second'ordine. Da una parte il “berlusca”, con grande animosità e determinazione, con lo stesso tono che se dicesse «Al lupo! Al lupo!» sta gridando a tutto spiano «Anche loro! Anche loro!», sottolineando in ogni dove mediatico che non esiste più la pretesa diversità morale degli ex-comunisti, classico consolidato delle sue campagne elettorali. Dall'altra i due caporioni da novanta del più forte partito dell'Unione, incalzati con insistenza dalla propaganda avversaria di centro-destra, tradendo una finta calma molto forzata, non fanno altro che tentar di rassicurare che le loro mani e i loro cuori sono puliti e che continuano a considerarsi ed a pretendere di esser considerati diversi, non nel senso sessuale s'intende.
Adesso poi che sono riusciti a farci entrare anche Prodi, e come poteva essere diversamente data la vicinanza della scadenza elettorale, il quale, meschino, si è permesso di partecipare ad una delle “famose cene incriminate con Bernheim presidente delle generali”, durante le quali, berlusconianamente parlando, non possono certo aver parlato solo di amenità salottiere o della propria salute, è l'intera dirigenza dell'Ulivo a friggere sulla graticola.
In casa ulivista Prodi, da par suo, c'ha ben messo del suo per rendere ancor più complicata e faceta insieme la situazione, già di per sé in gran fibrillazione, pretendendo, proprio in mezzo a questo bel casino, inaspettatamente e per di più in contrasto con gli accordi da pochissimo presi con gli alleati, che “il sol dell'avvenire socialdemocratico”, l'avveniristico Partito Democratico Italiano da prossimo futuro post-elettorale, debba subito diventare quasi fatto compiuto.
Come se un nuovo partito potesse prendere piede, vohilà!, con l'incanto di uno stesso marchio sulle schede elettorali. Fassino, irritato, ha risposto immediatamente che «Non è dio in terra!». Ma è poi bastato appena un giorno per accordarsi sui simboli di liste in comune, solo per la Camera e non per il Senato, come prodianamente richiesto, a condizione che Prodi non faccia una sua lista propria. C'era il rischio fondato di far saltare lo schema con cui il centro-sinistra aveva fin allora gestito la partita. Proprio un'allegra coalizione insomma, che però continua a dire di aspirare ad unirsi in un unico partito, anche se non si sa ancora bene per quale idea forte di quale società rinnovata.
Basta con lo scandalismo mediatico! L'unico vero scandalo è questa reiterata ossessiva ricerca dello scandalo che debba travolgere l'avversario a fini di propaganda elettorale.
I dirigenti delle forze politiche istituzionali, dall'una e dall'altra parte, ormai ragionano solo in termini di coalizioni, di rapporti di forza tra le parti, di equilibri interni, di meccanismi di controllo dell'elettorato, di consenso elettorale, di gestione del potere e di conservazione del mandato governativo. La politica istituzionale si è ridotta a questo magma di immagini e di immagine, in cui riesce vittorioso chi sa gestire con maggior professionalità l'immagine di sé e la capacità di imbonire attraverso l'uso sapiente della comunicazione mediatica.



Senza pudore

Non se ne può più! Costa sempre più fatica seguire le notizie leggendo i quotidiani o ascoltando i telegiornali, infarciti come sono soltanto di questo inarrestabile continuo immondo chiacchiericcio da comari di paesotto a latere del castello. Non si parla più di politica, non c'è più dibattito vero tra modi diversi d'intendere le cose, la società, le soluzioni. Tutto si svolge all'interno di un palco allestito per i media, dove si propina senza sosta una serie di spot, a loro modo comici, che non c'entrano neppure più con la nobiltà della commedia dell'arte, ma sanno solo di pettegolezzi, calunnie, insulti più o meno gratuiti e “ciacolare” da cortile. Lor signori non hanno più pudore. Non tentano neanche più di mascherare il loro vero solo intento: agire e parlare unicamente per estorcere il consenso ai fini di ottenere il mandato a governare. Come farlo ha ormai poca importanza. L'importante è poter governare, a qualsiasi costo.
Ma dove sta il vero scandalo? Il fatto che ci siano una serie di connessioni, sia occulte sia trasparenti e legali, tra affari e politica appartiene dal tempo dei tempi alla storia della conduzione del potere. Lo si sa da sempre e non scandalizza nessuno più di tanto, perché è endemico e, anche se non lo si condivide, è considerato connaturato nell'ordine umano delle cose per come si sono consolidate. Semmai è moralisticamente bandito dalla cosiddetta coscienza civile il fatto che sistematicamente questo rapporto risulti fondato su illeciti e giri sotterranei. Il potere che tende a dominare e la finanza, che alla fin fine non è altro che una manifestazione dello stesso, per loro natura, nel loro manifestarsi ed esserci, hanno aspetti visibili e una serie di aspetti sotterranei, tenuti appositamente nascosti perché ne contraddicono l'immagine che se ne vorrebbe dare.
I guai montano quando, per qualche ragione non sempre nota, qualche aspetto sotterraneo è costretto a venire alla luce. Ma è ipocrisia. Parliamoci chiaro, tutti sanno, anche se fingono di non saperlo, che ci sono sempre stati e sempre ci saranno, almeno fino a quando il potere sarà di pochi.

Autodifesa operaia

Lasciamo dunque perdere la ridda di insinuazioni, di menzogne, di giuramenti e assicurazioni, di autodifese, di accuse e contraccuse di dirigenti e politicanti di volta in volta coinvolti. Non c'interessano perché non ci appartengono, perché sono estranei alla nostra visione della politica. Appartengono invece allo squallido teatrino della induzione mediatica elettoralistica. Lasciamo lor signori a cuocersi nel loro brodo. Lasciamoli condurre in tristezza il loro desolante gioco al massacro. Non abbiamo né gli strumenti né soprattutto la voglia di inserirci, pur in modo critico, in una tale rappresentazione, concepita e voluta per fini che riteniamo estranei e contrastanti coi nostri.
Occupiamoci invece di ciò che ci sta a cuore. Ciò che trovo veramente scandaloso, rispetto alla vicenda di cui ci stiamo occupando, non è tanto che i dirigenti dell'attuale mondo della cooperazione e di una determinata componente politica si siano trovati invischiati in affari poco chiari, che sia vero o no, quanto che l'idea e i presupposti delle origini cooperative siano stati impudentemente travisati nel tempo e condotti fino a questo punto.
La cooperazione nacque sostanzialmente come forma spontanea di autodifesa operaia contro le prevaricazioni del privatismo capitalista, per creare luoghi senza padroni dove il lavoro riuscisse ad essere, da una parte protetto dai soprusi padronali, dall'altra momento di organizzazione della solidarietà operaia.
Per i più coscienti, fin da subito, in nuce doveva rappresentare un primo abbozzo di sperimentazione per il superamento del sistema di produzione capitalista fondato sullo sfruttamento della forza lavoro, attraverso la messa in opera di forme di autoorganizzazione operaia, fondate al contrario sulla solidarietà la reciprocità e l'uguaglianza nei rapporti di lavoro, al di fuori quindi da ogni vincolo di sudditanza alle prepotenze del padronato capitalista.
Il principio organizzativo base è economico e si fonda sul rifiuto di istituire strutture di proprietà privata: nella cooperativa non ci sono proprietari, mentre il capitale comune viene suddiviso in parti uguali tra tutti coloro che vi lavorano. In questo modo si pensava che si sarebbe evitato, da una parte che qualcuno potesse trasformarsi in padrone, dall'altra che qualcuno avesse poi avanzato pretese di supremazia, dal momento che tutto veniva diviso in parti uguali e le decisioni prese in comune.

Proudhon e Owen

La prima cooperativa moderna di cui si ha memoria, che visse di attività nel settore tessile, risale al 1844 a Rochdale in Inghilterra, località a nord di Manchester. Ciò che è importante sottolineare è che i “probi pionieri”, come vennero definiti questi primi cooperatori, si misero assieme per avviare un'attività alterativa alle forme di impresa privata o statale. Poco dopo, nei decenni della seconda metà dell'ottocento, In Italia e in Francia, abbiamo il sorgere delle prime forme associative sotto forma delle “società e delle banche di mutuo soccorso”, spinte a nascere sia per sopperire alle carenze legislative di carattere previdenziale e sociale di tutela dei lavoratori dipendenti, sia per mettere in piedi forme attive di solidarietà operaia autogestite. In Italia le prime furono di ispirazione repubblicana, in Francia proudhoniana. L'esperienza cooperativa al suo sorgere fu dunque pensata e inventata dagli operai per creare un'alternativa economica alle strutture sia private sia dello stato, fu cioè un'invenzione con intenti e contenuti rivoluzionari.
Ma fin dall'inizio conteneva degl'ibridi d'impostazione irrisolti di cui difficilmente potevano avvedersi e occuparsi i suoi fondatori. Da una parte era senz'altro uno strumento utile per sperimentare la costruzione di nuovi rapporti di produzione non asserviti né al capitale né allo stato, ma gestiti direttamente dai produttori. Dall'altra poteva benissimo essere un modo non privatistico di gestire la produzione sempre però all'interno del sistema capitalistico che, in potenza, ne poteva usufruire per assorbire la conflittualità mantenendo la cooperazione perfettamente dentro le logiche di mercato e di competitività. Tutto dipende dal livello di consapevolezza dei suoi protagonisti e dalla tensione realizzativa che sono disposti a mettere in campo.
Questa dicotomia la si riscontra anche negli analizzatori teorici. Da una parte abbiamo per esempio Proudhon e Owen, che ne mettono in evidenza i valori mutualistici e di superamento della logica capitalistica di asservimento al profitto, di emancipazione dallo sfruttamento della forza lavoro, di autoorganizzazione operaia e di realizzazione della solidarietà e della paritarietà.
Dall'altra parte invece abbiamo per esempio Stuart Mill, che ne coglie solo il diverso modo di organizzare la produzione e riconduce la cooperazione all'alveo di un'ottimizzazione della divisione del lavoro, oppure Vilfredo Pareto, che la percepisce come forma ibrida fra socialismo e capitalismo, oltre a metterne in evidenza le capacità correttive dei difetti capitalistici col risultato di migliorare il grado di concorrenzialità dei privati.
Non a caso per tutta la seconda metà dell'ottocento e per i primi due decenni del novecento fu ampiamente usata da tutte le componenti del movimento operaio. Per gli anarchici, i repubblicani federalisti e i sindacalisti rivoluzionari fu concepita quale mezzo rivoluzionario di emancipazione dallo sfruttamento e fucina di costruzione della nuova società, per i socialisti e i socialdemocratici quale strumento radicale indispensabile alla vittoria del riformismo socialisteggiante.
Ci pensò poi il fascismo a stroncare definitivamente tutto questo movimento che rappresentava un pericolo per la conservazione del sistema. Nel 1926 sciolse i partiti e i giornali di opposizione, mise al bando le cooperative esistenti chiudendone le sedi e distruggendone le tracce, e fondò l'Ente Nazionale Fascista della Cooperazione, privando la cooperazione di ogni autonomia con l'ingerenza statale.
Dopo la liberazione del 1945 il movimento cooperativo riprese forma e vigore, completamente deprivato però dell'afflato radicale e sovversivo che ne aveva contraddistinto la nascita e tutta la fase di costruzione sociale pre-fascista.
Complici i partiti riformisti del movimento operaio, ha smesso di essere una base per la costruzione di una possibilità alternativa per una nuova società emancipata dallo sfruttamento e dall'oppressione, omologandosi quasi completamente alle logiche di classica gestione aziendale di tipo capitalista.
È rimasta la parità proprietaria (i soci hanno tutti uguale numero di azioni), ma non esiste più, se non in rarissimi casi ai margini, la gestione collettiva e comunitaria, oggi affidata tout-court al management interno dei consigli d'amministrazione. Nel momento in cui si passa da forme di tipo autogestionario a forme di gestione manageriale, si annullano le differenze sostanziali che determinano la diversità della qualità politica.

La crisi dei “bravi compagni”

Ora in toto la cooperazione è diventata parte integrante del sistema di produzione capitalista, che al contrario nei suoi scopi di origine e nei suoi geni doveva contribuire ad abbattere e superare, ed aspira a diventarne una componente forte, in grado di far concorrenza nel mercato e di accaparrarsi la propria consistente fetta di profitto e di movimenti finanziari in ambito globale. Rappresenta ormai solo una diversa tecnica di organizzazione della produzione, senza poter essere più un modo alternativo di organizzare i rapporti sociali e di produzione.
In altre parole hanno pienamente vinto Mill e Pareto e sono stati messi da parte Owen e Proudhon. Con simili premesse il terreno era pronto per i movimenti finanziari poco chiari di Consorte e Sacchetti, perché ciò che hanno fatto, che sta mettendo in crisi di coscienza tanti “bravi compagni”, non è che conseguente e logico rispetto a tutto ciò che gli accaparratori politici di professione hanno predisposto.
Tutta questa vicenda mi sembra utile per una riflessione a largo raggio relativa agli strumenti operativi che eventualmente possono essere messi in campo.
Non esistono mezzi o strumenti, per quanto coerenti e congruenti, che in quanto tali siano in grado di effettuare la trasformazione, in particolare se ipotizzati a fini emancipatori e rivoluzionari. Se non sono supportati da una coscienza adeguata, essi soli sono insufficienti a condurre al fine. Siccome contengono sempre, e non possono non contenerla, la potenzialità di essere recuperati e omologati al sistema contro il quale sono stati pensati, se non vengono sorretti dalla volontà e da una forte consapevolezza di realizzare lo scopo prefisso, alla fine possono risultare devianti.

Andrea Papi