Quando una consultazione popolare avviene sotto la pressione di un contesto per molti versi avvelenato da una guerra in corso e dal permanere di condizioni esistenziali insostenibili, è naturale che le ragioni della politica abdichino alle più pressanti urgenze della rivolta e del rancore.
La recente consultazione elettorale nei territori palestinesi, se da un canto ha travolto il governo di Al Fatah, corrotto e incapace di venire a capo dei molteplici, gravissimi problemi che incombono sulla popolazione, dall'altro rivela in tutta la loro crudezza gli errori strategici che l'amministrazione Bush, in primo luogo, e parte dell'Europa dei Venticinque hanno commesso nell'affrontare la questione mediorientale. La vittoria di Hamas e della costellazione composita della lotta armata contro Israele è parte di quell'onda lunga che destabilizza l'area e rende difficile ogni tentativo di mediazione politica. Di fatto, il trionfo di Hamas ha riportato indietro l'orologio di un quindicennio, con l'OLP di Arafat arroccata nella sua posizione di guerra ad oltranza contro Israele e Sharon ostinato a relegare i palestinesi nell'angolo dei soccombenti sotto lo strapotere delle armi dell'esercito israeliano.
Si dirà che nel corso degli ultimi mesi Sharon ha unilateralmente tentato di sbloccare la situazione di stallo, evacuando la striscia di Gaza e ammettendo la plausibilità e la fattibilità di uno stato palestinese autonomo e sovrano, ma lo sviluppo di questo progetto era appunto un processo condotto senza alcuna consultazione con i diretti interessati, con quell'amministrazione di Abu Mazen, che pure aveva operato per arginare gli atti terroristici contro Israele e tentava faticosamente, con l'aiuto finanziario dei paesi occidentali, di creare un embrione di stato democratico in grado di riappropriarsi dell'autorevolezza necessaria per portare avanti iniziative politiche credibili: l'aver promosso il turno elettorale, arduo per le condizioni ambientali e incerto nell'esito, va ascritto al tentativo generoso di rasserenare il clima di conflittualità permanente all'interno dei territori e di portare la Palestina con l'autorevolezza necessaria al tavolo delle trattative con lo stato israeliano.
Questo tentativo era solo apparentemente affiancato dallo sgombero israeliano dalla striscia di Gaza: le frequenti incursioni dei carri armati nei territori appena sgombrati, i fili spinati, i posti di blocco, gli omicidi mirati offuscano in misura decisiva l'apparente atto di disponibilità al dialogo di Sharon, mentre lascia sempre irrisolti problemi spinosi, come la sorte dei territori della Cisgiordania e di Gerusalemme e quello capitale dei cinque milioni di profughi della diaspora palestinese.
In Cisgiordania, inoltre, continua, più o meno strisciante, la pratica degli insediamenti dei coloni, malgrado la Road Map li vieti specificamente.
E continua anche l'abbattimento degli ulivi, segati alla base, per rendere ancora più precaria la vita delle popolazioni palestinesi. In merito a questi palesi atti di terrorismo bianco, Sharon ha taciuto ed ha lasciato fare e non sembra che il suo successore abbia molta voglia di intervenire.
Soldato israeliano in posizione d'attacco
Tra mille
difficoltà
Come tutti i generali che si rispettano, insomma, Sharon e i suoi simili sono bravissimi ad attaccare campi profughi e a sconfiggere eserciti fantasma, ma quando si tratta di guardare aldilà del proprio naso, perdono il senso della realtà. Sharon avrebbe dovuto capire che, con iniziative unilaterali e il lassismo manifesto nei riguardi del comportamento dei coloni, avrebbe reso più difficile la vita ad Al Fatah, che, tutto sommato, tra mille difficoltà, tentava di abbassare il livello dello scontro con Israele. Avrebbe dovuto capire che l'unica alternativa ad Abu Mazen non poteva che essere l'integralismo di Hamas, con ricaduta immediata nella politica interna israeliana, dove il Likud, in caduta libera dopo la defezione di Sharon e dei suoi più stretti collaboratori, si sarebbe avvalso dell'insperato radicalizzarsi del conflitto, per risalire la china.
È bene sempre tenere presente che la sconsiderata demenziale guerra scatenata da Bush contro l'Iraq rende ancora più fosca la vicenda israelo-palestinese, accentuandone la dimensione religiosa che inizialmente non era rilevante. L'umiliazione che la parte più ottusa e conservatrice dell'occidente ha inteso infliggere al mondo islamico, con la pretesa di esportare con le armi un modello di sviluppo politico-economico poco congeniale non soltanto alla cultura e alle tradizioni di quell'area, ma alle stesse condizioni di partenza di quelle popolazioni, afflitte dall'indigenza per la gran parte e spesso governate da regimi fantocci sostenuti dall'appoggio diretto o dall'indifferenza delle potenze occidentali, non sarebbe rimasta senza una risposta.
L'avventura irachena ha scatenato una catena di reazioni i cui esiti sono difficilmente calcolabili e che comunque hanno già provocato il moltiplicarsi in misura esponenziale di quel terrorismo che si pretendeva di combattere.
La vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi è anche il frutto diretto di questa politica insensata: una parte consistente del popolo palestinese ritiene che l'unico modo per contrastare lo strapotere delle armi israeliane sia quello di destabilizzare con atti terroristici un paese che gli è nemico. Può non piacerci, ma questo è il livello dello scontro.
Ariel Sharon e Abu Mazen (Mahmoud Abbas) in atteggiamento sorridente e confidenziale
Onestamente
coerenti
Da quando le guerre non si combattono più al fronte sono a dismisura aumentate le vittime innocenti, dall'una e dall'altra parte, quindi finiamola di discriminare una guerra dall'altra o un fronte dei contendenti dall'altro: per essere coerenti, onestamente coerenti bisognerebbe che tutti ripudiassimo la guerra, punto e basta. Ma questo, purtroppo, è un obiettivo perseguibile solo se si pone mano ad alcune premesse indispensabili quali l'eliminazione delle politiche di potenza, il realizzarsi di società più giuste, di sistemi economici meno rapaci. Cose dell'altro mondo, insomma!
Ma per tornare al nostro argomento, ci sembra che la situazione sul fronte israelo-palestinese tenda a sospendersi nell'immediato futuro in un allucinato immobilismo. Non sono pensabili soluzioni militari e mi pare francamente difficile che Hamas rinunci nell'immediato al punto principale del suo statuto che prevede l'eliminazione dello stato d'Israele e degli ebrei dalla faccia della terra.
“Militanti” dell'organizzazione terroristica Hamas
Certo, adesso che è legittimato dal voto popolare, il vertice di questa formazione deve poter conciliare la lotta armata, alla quale esplicitamente non vuol rinunciare, con la responsabilità assai gravosa di governare un paese, in pratica, privo degli strumenti indispensabili per programmare sviluppo economico, pacificazione interna e sufficiente autorevolezza per condurre una politica estera resa estremamente difficile dalla diffidenza delle cancellerie europee, americane e degli stessi paesi arabi vicini all'Occidente.
Tutto si gioca sul filo del rasoio. Può la nuova amministrazione palestinese rinunciare ai consistenti aiuti economici che le provengano da America, Europa e dalla stessa Israele? Non sembra che tali risorse possano essere adeguatamente sostituite dai paesi dell'area che si allineano, come la Siria, nello schieramento che persegue l'eliminazione dello stato israeliano.
Ma anche se paesi come la Siria e l'Iran non sono in grado di sostituirsi all'Occidente nel supportare il governo di Hamas, è certo che la vittoria di quest'ultimo nelle elezioni politiche palestinesi ha elevato esponenzialmente l'instabilità dell'intero contesto mediorientale. Può darsi che, se richiesta, la mediazione di Al Fatah possa ricondurre ad un dialogo che eviti la pericolosissima e a lungo insostenibile cristallizzazione del conflitto. Ma occorre preliminarmente che anche Al Fatah recuperi credibilità presso il suo popolo, facendo pulizia al suo interno, e si renda più autonoma rispetto alle esigenze delle grandi potenze.