Siamo a fine febbraio 2006 ed è appena iniziata la campagna elettorale, quella ufficiale, delle forze e delle coalizioni in lizza. Il clima politico è quello tipico che prese avvio col crollo dell'era democristiana, incentrato sullo scontro tra i leader in campo, oggi di opposte fazioni per quanto riguarda i due poli residui dell'originario bipolarismo, di diverse correnti e diversi raggruppamenti per quanto attiene l'interno delle singole coalizioni. In più, non certo dal punto di vista della qualità, c'è l'esasperazione ad arte dello scontro per l'ossessiva proposizione d'immagine dei leader, imposta dalla trasbordante capacità dell'uso mediatico dimostrata dal berlusconismo, capace di offrire un po' di emozioni piccanti al pubblico fruitore che, o abbagliato o abbacinato o soggiogato secondo i calcoli degli esperti, più che convinto e consapevole, dovrà poi votare.
In qualche modo, aggiornato alla fase nostrana attuale, il tutto mi sembra perfettamente in linea con l'ipotesi schumpeteriana di una democrazia ormai ridotta alla concorrenza tra leader, prendente spunto dalle logiche della concorrenza mercantile. La politica dunque come effetto dell'induzione, o meglio imbonizione, del pubblico per la conquista dei voti nel vasto mercato delle offerte gestionali e dei programmi. Potremmo dire tranquillamente: fine della possibilità concreta di partecipazione a qualsiasi livello e trionfo completo, ora anche nell'agone politico, della logica e della filosofia del consumo, indotto dalle potenze degli apparati più forti per il possesso del potere di governo.
Spettacolo della politica
L'assenza di una seria riflessione sul senso e sugli scopi della politica stessa brilla ormai di luce propria in mezzo a questa indigestione di consumo dello spettacolo della politica. La frenesia dei dati dei sondaggi ha da subito preso tutti a destra e a manca, come se la giustezza delle scelte fosse legata a o dipendesse da chi conquista la maggioranza dei voti. Tutti al contempo dicono, e fanno anche finta di crederci, che bisognerebbe smettere di cercare d'influenzare e indirizzare l'opinione dell'elettorato facendo la guerra dei sondaggi, e affermano che al contrario bisognerebbe concentrarsi sui programmi proposti. Il “berlusca” ha perfino mosso, si presume a suon di quattrini, dei cosiddetti esperti sondaggisti americani che, guarda caso, hanno riscontrato fin dall'inizio che la CdL era in vantaggio e che i sondaggi nostrani non erano giusti perché, guarda caso, indicavano che era in vantaggio l'Unione prodiana.
All'interno delle stesse coalizioni la vita non è tranquilla. Vi aleggia famelico un incontrastato protagonismo leaderistico delle singole componenti, per cui, al di là delle conclamate rassicurazioni che ognuno vuole agire per il bene del polo di appartenenza, emerge una continua guerra intestina per la prevalenza d'immagine dei protagonisti di ogni forza politica partecipante. Il gioco per cui, come si usa dire, vale la candela è così tutto proiettato alla conquista di parti dell'elettorato, con lo scopo evidente di avere ognuno più eletti possibili dalla sua, per contare poi, ad elezione avvenuta, nella contrattazione del gioco di forza fra le parti per la gestione della conduzione parlamentare.
Drammaticamente Debord (1) continua ad essere attuale. Mercificata e alienata, la società nel suo insieme subisce e allo stesso tempo accetta di separarsi da se stessa, per proiettarsi nell'immagine di sé, per non aver coscienza di essere, per trasformarsi in puro spettacolo al di là e contro ciò che è e riesce ad essere.
Non siamo in un teatro, luogo deputato a rappresentare con la coscienza della finzione rappresentativa e capace di esorcizzare emotivamente drammi tensioni e pulsioni. Abbiamo invece accettato di essere teatro senza essere attori e protagonisti, ma semplici fruitori, consumatori d'immagini. I protagonisti e gli attori che c'imboniscono, o tentano di farlo, non sono su un palcoscenico, ben identificabili dalle nostre consapevolezze, ma ci addormentano con la costante azione soporifera dei media. La realtà è diventata un'immensa proiezione indotta e diretta da menti e mani sapienti, che hanno imparato bene a condurci ed usarci.
Così ci chiedono continuamente di essere partecipi, ma hanno organizzato il tutto per tenerci accuratamente esclusi da ogni vera possibilità di partecipazione. Abbiamo accettato di trasformarci in mediadipendenti, così ci sommergono di informazioni e di dati, oculatamente e con discrezione selezionati da loro, che ci fanno partecipi emotivamente di ciò che accade in ogni parte del mondo nel momento in cui accade, senza poter (e in cuor nostro ormai nemmeno voler) essere presenti e concretamente partecipi. Ci soddisfa il sapere, il vedere, il sentirci e supporci informati anche se non direttamente, il fruire e consumare la miriade di avvenimenti, fatti, parole, immagini che la gestione autoritaria e discreta del piccolo schermo ci regala quotidianamente con dovizia di mezzi e di quantità. Questa è la vera partecipazione/nonpartecipazione a ciò che accade, esclusi dai luoghi e dai momenti delle decisioni che ci riguardano, ma continuamente informati ed emotivamente coinvolti. Siamo inclusi nello spettacolo ed esclusi dalla sua direzione.
Abbiamo bisogno del nuovo
Sommerso da questo bailamme sento il bisogno prorompente di anarchia, perché riattiva l'immaginario, mentre il teatro mediatico lo obnubila perché ci vuol ridurre a fruitori massificati, individui nel nostro intimo emotivo, massa impotente e diretta nella fattualità degli eventi. Abbiamo imparato da Castoriadis (2): sappiamo quanto sia importante l'immaginario nella e per la costruzione del nuovo. Ed è del nuovo che abbiamo bisogno. Il vecchio, in vigore, ci giunge sempre più consunto, opaco, intristente. Ci lascia l'amaro in bocca e lascia spazio a questo indegno spettacolo d'imbonimento delle coscienze. Per fare che cosa? Non per altro, solo per trovare le motivazioni per continuare a governarci e a governarsi. È una reiterazione spasmodica della conservazione di sé, anche se non ci soddisfa, anche se né vuole né è in grado di portare a soluzione nemmeno uno dei problemi irrisolvibili che esso stesso suscita e di cui si nutre.
Per quanto più volte sconfitti, per quanto continuamente repressi e impediti a manifestarsi da tutte le strutture del potere autoritario, di destra o di sinistra che siano, l'anarchia, proiezione immaginaria di ciò che vorremmo che fosse, e l'anarchismo, pratica quotidiana di lotte e di esempi per tentare di realizzarla, continuano a conservare la loro freschezza originaria.
Di tutte le teorie che presero forma nel sette e ottocento, stimolate dalla forza delle rivoluzioni americana e francese che s'imposero per dare corpo e sangue ai principi di uguaglianza di libertà e di solidarietà, l'anarchia è rimasta l'unica veramente intatta nel porre un'autentica alterità allo stato di cose presente. Forse perché fin dall'atto della sua nascita è anche l'unica plurale e non monolitica, capace di definire una genuina pratica sociale e politica fondata su solide basi etiche: si è sempre distinta, infatti, per la non separazione di principio tra etica e politica. Forse pure perché non si è mai posta, né può farlo, in modo rigido, schematico, fondamentalmente ideologico, di quel tipo di ideologismo che più che sistema d'idee pretende di essere sistema onnicomprensivo e compiuto, lettura unica da imporre sulla realtà per condizionarla ai suoi propositi.
Nell'anarchia, metodologicamente, c'è un continuo rapporto dinamico tra pensiero e azione, tra teoria e prassi, tra ipotesi teorica e realizzazione fattuale. L'una influenza l'altra, l'una modifica le sue possibilità in base alle indicazioni dell'altra, senza dover minimamente modificare i presupposti fondanti, anzi per confermarli. Si chiama elasticità, possibilità di autocorrezione, spirito euristico di ricerca scientifica che si fonda sull'esperienza diretta, non mediata, come base della conoscenza. È rimasta intatta nella sua essenza, pluralista libertaria orizzontale e antigerarchica. Così continua ad esser proponibile nella completa sostanza dei suoi principi.
Il mondo in cui viviamo, antianarchico, si fonda sulla disuguaglianza, sull'accaparramento delle risorse da parte di un'esigua minoranza di furbi e capaci, che sono stimolati ad imporsi dalla possibilità di accumulare ricchezze e potere per sé a detrimento e sulla pelle di tutti gli altri.
Vi impera uno smodato spirito di potere, come tensione a dominare su tutto e su tutti da parte di chi ne entra in possesso. Oligarchie finanziarie politiche militari e religiose sono dominatrici incontrastate e conservano il loro dominio o alleandosi, quando i reciproci interessi sono convergenti, o facendosi concorrenza, al limite scontrandosi in guerra, quando non lo sono; in ogni caso la molla delle loro scelte sono sempre il potere del denaro e il potere del dominio.
La massa di tutti gli altri, esclusi da queste élite, sono massa di manovra adoperata costantemente per i loro scopi, costretta ad essere usata, sottomessa, sfruttata, umiliata, se resistente nullificata o al limite annientata.
In Italia, il paese in cui viviamo, ad uno sguardo immediato potrebbe anche sembrare che la situazione non sia affatto nei termini sopraddetti, dal momento che ancora, soprattutto a livello dei consumi pro capite, siamo annoverabili tra i paesi ricchi. In effetti non siamo paragonabili ai paesi del terzo mondo dove lo stato endemico di povertà offre spettacoli desolanti per l'insieme di quelle popolazioni.
Ma in proporzione al nostro stato generalizzato di facenti parte della riconosciuta area del benessere, le nostre condizioni diffuse rientrano comunque perfettamente nel quadro che in varie maniere caratterizza lo stato del mondo: condizioni di vita sempre più precarie, sia per la costante inflazione che nullifica ogni conquista salariale sia per lo stato lavorativo soprattutto tra i giovani, stato di subordinazione ai potentati economici e finanziari e alla spietatezza del mercato capitalista globale, endemiche disuguaglianze in accentuazione progressiva, tra chi ha di più e chi possiede poco o pochissimo se non addirittura nulla, tra chi può decidere i destini di tutti e la grande maggioranza degli esclusi da ogni tipo di decisione, dissennato uso delle risorse naturali con conseguente degrado vieppiù devastante degli impatti ambientali. È a tutti gli effetti la situazione tipica dei sistemi di conduzione politica ed economica cui è sottomesso il mondo intero.
Un'alternativa radicale
L'anarchia offre un'alternativa radicale, compiuta e realistica, che potenzialmente contiene la capacità di andare oltre il disastro del presente che tutti subiamo e che i politici di ogni risma vogliono governare, promettendo ognuno di risolvere i problemi che ci opprimono, fingendo di non sapere che non sono risolvibili. In un'ottica di possibile effettivo miglioramento, il presente non può né dev'essere governato, perché si regge sui mali che ci affliggono e non ne può fare a meno, mentre può e dev'essere sovvertito, se si vuole veramente vivere in condizioni altre che siano in grado di soddisfare i bisogni e i desideri di vero benessere diffuso per noi esseri umani.
Il sistema attuale si fonda sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, sull'accaparramento delle risorse in poche mani a detrimento di tutti gli altri, sulla coazione e la prevaricazione autoritaria delle elite al comando.
Si regge, in politica su poteri centralizzati e gerarchici separati che hanno il potere d'imporsi sulle popolazioni sottoposte, indipendentemente che si tratti di democrazie rappresentative di totalitarismi di dittature o teocrazie, in economia sulla concentrazione finanziaria, sulla conquista dei mercati da parte di apparati economico-tecnocratici, sulla totale sottomissione e il totale controllo del lavoro dipendente. Il sistema attuale è perciò un determinatore di ingiustizie, di sofferenze, di privilegi e corruzioni, di disuguaglianze insopportabili, oltre che di un costante e asfissiante inquinamento mentale e ambientale.
L'anarchia si pone oltre perché pone un paradigma politico-sociale-economico totalmente altro rispetto al sistema di potere vigente. Parte dal presupposto che le società non debbano essere governate da centri di potere e vuole realizzare una condizione diffusa di autentica pace tra gli individui e i popoli, come risultante però della messa in opera di strutture di relazioni orizzontali e paritarie, come risulta ovvio completamente diverse da quelle vigenti, e non come mediazione di potere tra potentati e stati, come illusoriamente vorrebbe invece l'attuale pacifismo istituzionale.
L'anarchia sostiene che non bisogna più essere governati dai detentori di potere, di qualsiasi conventicola facciano parte, e che bisogna imparare ad autogovernarsi secondo presupposti di solidarietà e di reciprocità, in modo che le regole della comune convivenza non siano più diritto imposto da chi ha la possibilità di dominare e decidere per tutti, ma diventino patrimonio realmente condiviso delle comunità.
Sostiene pure che bisogna liberarsi del principio dell'accaparramento privatistico delle risorse, sia finanziarie sia naturali, perché la ricchezza deve tornare ad essere un bene collettivo e comunitario gestito dall'insieme delle comunità, con la possibilità concreta per cui tutti, senza discriminazioni di sorta, ne possano usufruire; ne consegue che l'economia non potrebbe più essere regolata dall'inseguimento di profitti personalistici e dall'accumulo di concentrazioni finanziarie in pochissime mani privilegiate, com'è oggi, mentre dovrebbe essere fondata su scambi liberi sostenuti da e basati sulla reciproca solidarietà tra tutti gli esseri umani.
È possibile realizzarla? La mia personale risposta è che non solo sia possibile, ma soprattutto auspicabile. Certo non è dietro l'angolo. Anzi, i sabotaggi dei poteri costituiti e gli ostacoli sono oltremodo prevalenti.
Ma ciò vuol soltanto dire che bisogna tenerne in debito conto. Con certezza posso solo dire che i brevi e intensi momenti in cui ha fatto capolino nel contorto divenire della storia (3) hanno dimostrato che una società che sceglie di autogestirsi, sia sul piano politico che su quello economico, può funzionare e regalare ai suoi componenti momenti di condivisione esaltanti. Ciò che non ha funzionato è stata la sua difesa, perché non si è mai riusciti a preservarla dalla brutale repressione dei vecchi poteri, che ogni volta si sono vendicati di essere stati messi da parte e si sono ripresi la rivincita con l'imposizione selvaggia della loro devastante violenza e del loro rovinoso dominio. Questo è un errore politico di cui tener conto alla prossima occasione.
Ma per renderla possibile bisogna renderla desiderabile, perché una cosa diventa possibile se la si ritiene tale e se la si vuole. Per essere desiderabile dev'essere innanzitutto immaginata e pensata.
Il compito prioritario diventa così la costruzione di un diffuso immaginario alternativo e radicale, che abbia le caratteristiche della gestione dal basso non gerarchica, della libertà per tutti di esprimersi e manifestarsi, della volontà di non dominare e dell'impossibilità di accumulare ricchezze a vantaggio personale e di apparati. Di immaginare in definitiva come si possa fare per decidere tutti insieme le regole della convivenza collettiva nel rispetto delle libertà individuali, sulla base del confronto e dell'accettazione delle differenze, secondo i principi della pluralità e della complessità di cui è naturalmente composta la realtà nel suo complesso.
Andrea Papi
Note
- Guy Debord, La società dello spettacolo (La société du spectacle), Parigi, 1967.
- Cornelius Castoriadis, L'istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
- Cito ad esempio l'esperienza della Comune di Parigi del 1871, la comune di Kronstadt repressa dall'armata rossa nel 1921, l'esperienza machnovista (1918/'21) sempre repressa dall'armata rossa, la rivoluzione spagnola, in particolare catalana, del 1936/'37, repressa prima dallo stalinismo poi dal fascismo.
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