Il cavaliere, l'arte e l'amore
Intervista a Fausto Amodei. Prima parte
Inauguriamo su queste pagine, con l'intervista che segue, un nuovo filone. Un filone connesso con i temi di cui mi occupo su queste pagine: la canzone d'autore, con un occhio di riguardo a quella di tematica sociale (non solo anarchica).
Stanco però di raccontare la rava e la fava, e avere solo me stesso con cui confrontarmi prima di arrivare alla pagina stampata, m'è venuta voglia di costruire una piccola rubrica nella rubrica, che si caratterizzerà per dei dialoghi con una serie di persone che, per chiara fama o per mia arbitrarissima convinzione, sono portatori di esperienze e di punti di vista interessanti.
L'inaugurazione la facciamo con la banda in testa e i fuochi d'artificio, perché abbiamo raccolto, in una lunga chiacchierata informale, di cui di seguito leggerete la prima parte, le impressioni del decano, non solo dei cantautori della canzone cosiddetta di protesta, ma anche di uno dei primi cantautori tout court: Fausto Amodei.
Fausto Amodei, non meno allievo di Brassens di quanto lo fosse De André, cesellatore di versi cristallini, poeta didascalico e ironico al contempo, è senz'altro un maestro riconosciuto da tutti.
Nato all'arte della canzone e dell'incisione delle canzoni su vinile, quando ancora l'unico proto-cantautore sulla piazza era Modugno, autore di uno di quei pezzi assunti come propri dall'intera sinistra italiana e dall'immaginario collettivo popolare (Per i morti di Reggio Emilia), assente però dalle scene della discografia da moltissimo tempo (dal '74, per la precisione), ma mai del tutto distante dai palchi delle rassegne di musica popolare e d'autore, dalle feste dell'“Unità”, dai circoli ARCI, quest'anno, a sorpresa, ha pubblicato un nuovo disco. Per fortuna c'è il cavaliere.
Uscito per la Nota di Valter Colle, la stessa etichetta che ha pubblicato il mio CD (lo dico subito a scanso di equivoci), ed esattamente nella collana che Resistenza e amore ha inaugurato (e questo è motivo d'un orgoglio che voi non potete immaginare), Per fortuna c'è il cavaliere è un disco che denuncia sin dal titolo, ovviamente con una forte ironia, le sue intenzioni, ma che non si ferma lì. È un disco dove, a una certa nudità arrangiativa (chitarra e un po' di contrabbasso), fa controcanto l'incredibile barocchismo armonico dell'autore, la scrittura d'una raffinatezza metrica senza pari, l'ironia e il gusto per un lessico che sposa il d'antan alla parolaccia ben detta.
Insomma è un'opera in cui la scrittura ha un valore alto già di per sé.
Cominciando ad ascoltarlo vi si trova subito una dichiarazioni programmatica, Le canzoni in scatola, e poi una canzone quasi d'amore, la stupenda Questo mio amore, già nota in una versione incisa da Paolo Ciarchi fin dai lontani anni '60, ma finalmente qui disponibile dalla voce del suo autore. Si tratta di un manifesto etico/sentimentale che molti di noi, e senz'altro io, vorrebbero aver scritto…
Vorrei dirtelo tutto d'un fiato
E gridartelo questo mio amore
Come grida un bambino ch'è nato
Come grida la gente che muore
Come grida chi s'è ribellato
Come grida chi chiede vendetta
Ed invece sto qui senza fiato
E ti dico una cosa già detta
Vorrei dirtelo questo mio amore
E parlartene a lungo ed a fondo
Come parla di un mondo migliore
Chi vuol render migliore 'sto mondo
Come parla chi vuol risvegliare
La coscienza di un popolo stanco
Ma sto zitto per non disturbare
Te che dormi tranquilla al mio fianco
Vorrei dirti che questo mio amore
È l'amore che riesce a sentire
Chi per la libertà lotta e muore
Verso la libertà di chi vive
Che chi vive vorrebbe provare
Per la vita che l'ha riscattato
Ma ti riesco soltanto ad amare
Come un cucciolo buffo e impacciato
Vorrei farti capire che t'amo
Perché tu riesci a darmi il coraggio
Di ascoltare l'antico richiamo
Verso un mondo più giusto e più saggio
Perché tu riesci a starmi qui a fianco
E ascoltare i miei sogni ribelli
Mentre sembra che ami soltanto
Il tuo viso e i tuoi lunghi capelli
Te beata che riesci ad amarmi
Alla buona così come viene
Quando ancora sorridi a guardarmi
E mi mormori che mi vuoi bene.
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Fausto Amodei |
Alessio Lega – Un raro manifesto emotivo fra le tue canzoni?
Fausto Amodei – Emotivo… ma in una certa misura razionale. Pensa che ho portato il disco a una mia fan, una signora sposata e tutto quanto, che m'ha detto “Ah, vederti insieme, tu e tua moglie, si capisce tutto!”…ma mia moglie non c'entra proprio niente! Nel senso che, per carità, quarant'anni che stiamo assieme e si va d'amore e d'accordo, però se fai una canzone d'amore da innamorato secondo me fai una sbrodolatura tremenda. Puoi essere innamorato, ma devi tornare indietro e reinventarti la persona a cui rivolgi la canzone… insomma, Petrarca mica era sempre innamorato quando ha scritto Il canzoniere! A un certo punto sarà stato innamorato della letteratura, del sonetto, delle rime, degli endecasillabi. E poi era innamorato dei concetti, di tutti i concetti di quel pre-rinascimento.
Comunque Questo mio amore rappresenta la tua capacità di scrivere un capolavoro anche al di fuori del tuo stile e dei tuoi temi più consueti. Ti assicuro che è una canzone che ho misteriosamente sentito rispuntare qua e là, anche dove non mi sarei mai aspettato di trovare un tuo pezzo.
Ah, è vero… ho avuto dei riscontri divertentissimi con quel pezzo. Pensa che mio genero, che è stato capo scout, mi diceva che c'era un libretto di canzoni scout, in cui era presente quel testo col titolo Cucciolo, e, non conoscendo l'aria su cui cantarla, se la inventavano di volta in volta.
Poi ho incontrato ben due signore che mi hanno detto che il loro partner le aveva conquistate cantando questa canzone e dicendo che l'aveva composta lui per loro.
Questo è un classico!
Non invento niente! Una era una signora siciliana che era venuta, mi pare fino a Mantova, apposta da Catania, e allora gliel'ho dovuta cantare per forza.
Aveva scoperto, solo dopo averlo sposato, che in realtà l'autore di quei versi non era suo marito, comunque ormai era fatta!
Una bella esperienza questa per un autore.
Certo ho sempre sognato di fare il paraninfo!
Bando alle ciance… iniziamo sul serio. Sono…?
Le ore 15 e 35 del 10 febbraio 2006, Torino, città olimpica, poche ore prima dell'inaugurazione, dei fuochi d'artificio, della folla che riempirà le strade… e poco prima che io me ne vada in montagna per 20 giorni… non tanto per iniziare la resistenza, ma, più banalmente per scappare!
Ahi, ahi, ahi… iniziamo la nostra intervista da una ritirata strategica! E pensare che io ero qui per parlare di un ritorno.
30 o forse 31 anni dopo il tuo precedente disco, L'ultima crociata, ti sei sentito spinto a intraprenderne un'altra… di crociata. Insomma, è servito il disastro per spingerti a ricominciare, 5 anni di governo Berlusconi.
A dir la verità m'era bastato anche meno, le canzoni le avevo scritte nel 2002, 2003, e il disco in ogni caso era stato registrato nel 2003; col Berlusconi poi era stato “amore a prima vista” e mi ero mobilitato, anche se in modo più sporadico, sin dal '94. Però, negli anni del centrosinistra mi ero occupato d'altro, pur canticchiando in giro… Venivo da altri vent'anni in cui il mio lavoro musicale s'era orientato su una serie di studi sugli autori francesi dell'800 che mi interessano, come Beranger, il grande fustigatore dell'epoca della seconda repubblica e poi del secondo impero. Avevo lavorato a collaborazioni con l'interprete Raffaella de Vita, per la quale avevo fatto traduzioni ritmiche da Boris Vian e da alcuni autori greci.
Fra l'altro quelli erano stati anche anni in cui per una serie di ragioni ho sgobbato parecchio come architetto (da sempre il lavoro che mi ha garantito il pane), perché volendo andare in pensione, ed essendo le pensione calcolata sul reddito degli ultimi anni di lavoro…
E così, ormai in pensione, ti sei potuto gettare di nuovo anima e corpo in questo lavoro di cantautore che, come si sa, è particolarmente remunerativo…
Ah… ormai non ho più remore… alla fatidica domanda “Qual è il tuo cachet” rispondo invariabilmente: si mangia bene da voi? Che vino avete?
Beh, ti dirò, a parte il fatto che questa chiacchierata verterà sul tuo ultimo disco, mi piace l'idea di parlare anche della prospettiva straordinaria che hai sulla canzone, non solo politica, italiana. Alla fine quando tu, con Straniero, Liberovici e tutti gli altri, avete iniziato l'esperienza dei Cantacronache nel 1958, Modugno aveva appena cantato Nel blu dipinto di blu a Sanremo, dunque, a fronte della sua rivoluzione espressiva, voi, da Torino, iniziavate una rivoluzione tematica, col richiamo a certa canzone francese, alla canzone popolare…
Infatti, a noi, dello stesso Modugno, ci piacevano soprattutto le canzoni di matrice popolare… cioè, anche Il vecchio frack in una certa chiave, ma poi quella del Ciuccio ubriaco, Il pesce spada e tutte queste, ci piacevano assai più che Volare… ma per questioni bassamente ideologiche!
Forse, col senno di poi, si può dire che lo sposarsi della vostra e della sua rivoluzione, una formale, l'altra tematica, ha dato l'avvio a tutta la moderna canzone d'autore italiana, anche quando questa è diventata un affare commerciale.
Il fatto che, a un certo punto, nella discografia commerciale si sia inserita anche musica di qualità, io l'ho sempre vista come una nostra vittoria.
La nostra rivolta era proprio contro il fatto che, in tutta la musica che si sentiva, non ci fosse assolutamente qualità stilistica, né letteraria, né musicale… infatti all'inizio non eravamo partiti su un piede politicizzato, eravamo partiti su un piede di politica della cultura e non di cultura della politica.
Poi siamo stati trascinati a una valenza più specificamente politica dalle reazioni del nostro stesso pubblico, quando presentammo le prime ricerche sul canto di protesta, della cui raccolta e riproposta siamo stati gli iniziatori.
Addio Lugano bella l'ha tirata fuori Sergio Liberovici nel '59 da un farmacista anarchico di Ivrea, che l'ha cantata quando nessuno di noi l'aveva mai sentita. Noi l'abbiamo pubblicata nell'interpretazione di Edmonda Aldini, in uno di quei primi dischi sperimentali di repertorio popolare.
Erano dischi in cui convivevano delle reinterpretazioni, come quella di Edmonda, con le registrazioni originali sul campo delle mondine che cantavano Se otto ore vi sembran poche, o anche quell'altra in cui si parla bene del prigioniero austriaco che veniva trattato male dal Vigliacco d'un tenente / hai il cuore di un leone / meriteresti il fronte / o la fucilazione, o ancora le parodie e i contraffacta antifascisti sull'aria di Giovinezza.
È così che è avvenuto una specie di baratto: quando abbiamo presentato alcuni nostri concerti nei circoli operai, trovandoci a spiegare perché ci chiamavamo Cantacronache, abbiamo subito avuto la risposta di alcuni compagni più anziani che ci dicevano “Guardate che anche noi cantavamo fatti di cronaca: la morte di Matteotti, l'attentato di Gaetano Bresci…” allora, poco per volta, s'è ricostruito tutto questo tessuto di raccolta e riproposizione di canti politici.
C'era precedentemente stato l'esperimento di raccolta del repertorio popolare fatto da Carpitella e Lomax, che non si proponeva valenze politiche, ma poi con Roberto Leydi e Cesare Bermani del Nuovo canzoniere italiano e noi la cosa è cambiata. Comunque col '61, '62 noi e il Canzoniere, legato ai Dischi del sole, ci siamo accorti che eravamo interessati allo stesso percorso e ci siamo messi assieme.
Volevo in proposito sviluppare con te una mia teoria. Ho l'impressione che il Cantacronache, nella sua assoluta disponibilità a tradurre nel suo linguaggio ogni forma, dalla song brechtiana, alle canzoni di Brassens magari riproposte proprio in francese, al canto popolare, avesse un principio dialettico rispetto a ogni forma musicale, anche a quelle più commerciali. Questa tendenza, magari un po' velleitaria vista la sua breve durata nel tempo e i suoi scarsi mezzi, era a mio avviso modernissima.
Il Nuovo canzoniere, invece, coi Dischi del sole aveva stabilito un principio di assoluta alterità rispetto alle forme della musica in voga, che voi chiamavate gastronomica.
Insomma, lamenti che nei Dischi del sole non ci fossero più le canzoni d'amore?
Ma no, non solo quello, i Dischi del sole sono un'esperienza grandiosa, con un'impressionante serie di capolavori all'attivo, ma aderivano, ad esempio, al principio un po' astratto che la canzone di protesta, anche quella contemporanea, dovesse essere in genere arrangiata – o piuttosto non-arrangiata – come una canzone popolare.
Ecco tu che sei passato per tutte queste esperienze pubblicando sia con Italia canta, che coi Dischi del sole, che con i Dischi dello zodiaco di Sciascia e Virgilio Savona…
Sì, di fallimento in fallimento, anche il repertorio dei Cantacronache era finito per uscire riedito proprio dai dischi dello Zodiaco.
… e dunque Cantacronache si poneva in maniera dialettica rispetto alla musica di consumo, invece poi?
Poi, coi Dischi del sole si dava per scontato che la scelta fosse già stata fatta. Avevamo assimilato il principio per cui a dei contenuti alternativi al consumo, andava accordata una forma alternativa. Anche perchè Dischi del sole e tutta l'organizzazione della Linea rossa avevano individuato, oltre ai contenuti, un'utilizzazione di massa dei circuiti alternativi. Tieni conto che in quel periodo, fra Festival dell'“Unità”, feste dei sindacati, circoli ARCI, manifestazioni estive di comuni e amministrazioni varie, per celebrazioni della resistenza o altro, c'era da cantare in quantità professionistica!
In questo senso, avendo preso questo filone, forse s'è tarpata qualcuna delle valenze che sarebbero potute affluire.
Anche se poi c'era un certo spazio di manovra: se pensi a tutta l'esperienza di Giovanna Marini, che è riuscita a coniugare l'alterità del canto popolare, sia come moduli armonici e melodici che come emissione vocale, con l'avanguardia più avanguardia, vedi che è stato possibile attivare una delle esperienze più interessanti e innovative della musica italiana.
Ma certo, un'esperienza che poi è ulteriormente cresciuta e si è internazionalizzata anche dopo la chiusura dei Dischi del sole.
Però, recentemente, la comune rivisitazione del canzoniere popolare fatta proprio dalla Marini con Francesco De Gregori, con cui chissà quanta gente ha scoperto la canzone popolare, mi ha convinto che forse, anche prima, ci sarebbe potuta essere qualche commistione in più con la parte più sensibile e interessata dei cantautori al di fuori del circuito prettamente politico.
Forse sì…
(Fine della prima parte. Sul prossimo numero la seconda)
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
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