Dopo il 25 luglio 1943 – data della caduta del fascismo – la liberazione dei confinati politici che si trovavano in quella data nell'isola di Ventotene ebbe inizio soltanto oltre due settimane dopo che il governo Badoglio, rifacendosi alle tradizioni dell'Italia borghese e monarchica, iniziò la liberazione degli antifascisti incominciando, nell'ordine di precedenza, dai moderati fino ai giellisti, repubblicani, socialisti e comunisti.
Coerentemente ai contatti avuti e con gli impegni presi con i vari partiti dello schieramento parlamentare tradizionale, noi anarchici, esclusi dalla liberazione di fronte al progressivo avanzare nel Sud degli eserciti angloamericani – fummo invece trasferiti al campo di concentramento di Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo.
Con noi furono pure esclusi dalla liberazione comunisti e nazionalisti jugoslavi e albanesi ed alcuni antifascisti italiani. C'imbarcarono intorno al 20 d'agosto su una corvetta della regia marina non attrezzata al salvataggio di centinaia di persone nel caso di un probabile attacco di sottomarini. Quando la nave uscì dal porticciolo di Ventotene, prima di virare per Gaeta, gridammo ripetutamente il nostro saluto al compagno Gino Lucetti prigioniero nell'ergastolo dell'isola di Santo Stefano.
Dopo alcune ore di sosta a Gaeta, dove avemmo i primi saluti dal compagno Salvatore Vellucci, dai suoi figli e da sua moglie, incominciò il nostro viaggio verso il campo di concentramento. Eravamo scortati da carabinieri ed agenti della PS.
Non eravamo ammanettati tanto che fu facile a parecchi compagni tra i quali i fratelli Girolimetti, Giorlando, ecc. di evadere. In tutte le stazioni improvvisammo comizi, affacciati dai finestrini, incitando alla lotta radicale contro il fascismo ed il nazismo. A Roma il nostro treno fu sballottato da una stazione all'altra, si disse per proteggerci dai bombardamenti aerei ma in realtà per impedire i nostri contatti con i compagni romani e le nostre proteste per la nostra mancata liberazione.
Ricordo con dispiacere un tentativo di evasione del mio compagno Arturo Messinese fallito per un casuale incontro con un gruppo di nostri guardiani che rientravano in stazione dopo essersi allontanati temporaneamente. Lungo tutto il viaggio, nelle soste delle varie stazioni i nostri inviti alla lotta contro il fascismo incontrarono lo stupore e l'indecisione popolare. Fu ad Arezzo che notammo una diffusa e simpatica comprensione solidale da parte di centinaia di persone che si trovavano in quella stazione. Fu qui che vedemmo per l'ultima volta il compagno Zambonini. Era stato un forte e deciso militante, ferito nella guerra di Spagna ed ospite, con noi, nell'isola di Ventotene durante la seconda guerra mondiale.
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Piacenza, 21 novembre 1945 – Alfonso Failla porta il saluto d'addio degli anarchici ai funerali di Emilio Canzi
(foto: archivio Anpi Piacenza) |
“Sparate vigliacchi!”
Alla partenza da Ventotene, di fronte alle nostre proteste per la mancata liberazione c'era stato promesso che saremmo stati liberati nei giorni seguenti, in terra ferma. Il compagno Zambonini alla stazione di Arezzo si rifiutò di proseguire per il campo di concentramento, perciò venne condotto in carcere. Dopo, durante la resistenza, sarà fucilato dai nazifasciti nel poligono di Reggio Emilia.
Arrivati, sull'imbrunire, alla stazione di Anghiari fummo ricevuti da alcune centinaia di carabinieri e soldati ai quali sentimmo distintamente rivolgere dai loro ufficiali l'ordine di caricare le armi. Protestammo energicamente.
In un alterco con gli ufficiali che ci insolentivano minacciando fucilazioni, i compagni Marcello Bianconi e Arturo Messinese gridarono: “Sparate vigliacchi!”. Perciò furono immediatamente condotti in cella di sicurezza. Così ebbe inizio la nostra agitazione contro il regime interno del campo di concentramento.
Questo era stato fino ad allora uno dei peggiori del genere. I prigionieri erano in massima parte partigiani jugoslavi e con essi erano centinaia di minorenni e ragazzi di pochi anni. Il regime alimentare era stato sempre più scarso e pessimo; centinaia di internati, specialmente bambini e ragazzi erano morti a causa del pessimo trattamento. In cambio la sorveglianza era feroce e bestiale. Guardavano i prigionieri centinaia di soldati e carabinieri, richiamati, quest'ultimi, dalle regioni Toscana e limitrofe. Il comandante in seconda, maggiore Fiorenzuoli, ed il tenente Panzacchi si distinguevano per i loro arbitrii. Era perfino proibito che gli internati delle varie sezioni in cui era diviso il campo si avvicinassero alle reti metalliche divisorie per conversare reciprocamente. Il mattino seguente il nostro arrivo i nostri aguzzini fecero una dimostrazione di forza. Le minacce degli ufficiali rivolte a noi con lo spiegamento dei picchetti armati seguendo l'arresto dei compagni Bianconi e Messinese volevano conseguire lo scopo di intimidirci e renderci alla loro mercé.
Costituivamo, insieme ai compagni reduci dalle lotte combattute nell'esilio in Spagna, l'aggrupamento più provato dalle lotte che in carcere e al confino ci erano costate ulteriori condanne ad anni di carcere e di confino supplementari, oltre che la vita di parecchi compagni, per difendere la nostra dignità umana dagli arbitrii della milizia e della polizia fasciste. E l'odore di polvere era per noi un maggiore incentivo a non desistere dalla lotta iniziata contro gli aguzzini del campo di concentramento di Renicci di Anghiari. Reclamammo libertà di comunicazione tra i prigionieri dei vari settori, la cessazione degli arbitrii perpetrati specialmente dal tenente Panzacchi coadiuvato da alcuni soldati come lui dichiaratamente fascisti. E il ritorno tra noi dei compagni Bianconi e Messinese. Dopo alcuni giorni di dure schermaglie il comandante del campo, il colonnello Pistone, decise di togliere il divieto di intercomunicazione tra i prigionieri dei vari raggi ed ai ragazzi fu raddoppiata la razione alimentare che era costituita da qualche centinaio di grammi di pane e di poca minestra, alternativamente di carota o di patate non sbucciate e di acqua pompata direttamente dal sottostante fiume Tevere, che provocava epidemie di colite e dissenteria.
I nostri rapporti con i custodi rischiarono di arrivare ad una rottura tragica. Si pretendeva che all'appello mattutino noi si fosse allineati militarmente e che uno di noi stessi, in funzione di caporeparto, ci avesse contati e presentati all'ufficiale di ispezione.
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Peli di Coli, 21 novembre 1945 - i funerali di Emilio Canzi (foto: archivio fotografico Studio Croce - Piacenza) |
Solidarietà internazionale
Continuammo per parecchi giorni a rifiutarci. Il nervosismo, tra gli ufficiali specialmente, era al parossismo. Il compagno Emilio Canzi, quando stavamo arrivando all'urto, intervenne. Ci pregò di non formalizzarci e si assunse egli l'ingrato compito. Così ci allineavamo alla meglio e gli ufficiali dal canto loro accettarono il compromesso. Però gli occhi di Emilio Canzi, nel presentarci senza formalità all'ufficiale lo superavano in altezza morale molto più di quanto glielo consentiva la sua già alta statura fisica.
Qualcuno, tra noi, masticava amaro sulla “incoerenza” di Emilio Canzi che allora aveva già nella mente la costituzione dei primi nuclei partigiani che nella sua nativa zona di Piacenza, sul finire della guerra, costituivano un insieme di circa diecimila uomini. Le migliaia di partigiani jugoslavi che popolavano il campo, comunisti o nazionalisti, avevano fino allora conosciuto gli italiani come aguzzini e fascisti e perciò erano animati da profondo odio sciovinista antiitaliano nonostante che fossero formalmente osservanti della disciplina al punto che nel presentarsi ogni mattina sembravano un reparto delle stesse truppe che ci tenevano prigionieri.
La nostra manifestazione di solidarietà internazionale, da essi non richiesta, impresse uno spirito nuovo nel loro comportamento e l'Italia da quel momento per essi non fu più soltanto la patria del fascismo che li opprimeva ma anche di uomini militanti nella lotta internazionalista per la libertà dei popoli. Questo spirito internazionalista risorto dall'azione nei cuori e nei canti si confuse anche nel sangue di due prigionieri, uno slavo e un anarchico italiano, la sera del 9 settembre 1943. Quel giorno avevamo appreso che il fascismo con l'aiuto di Hitler aveva ricostruito un governo Mussolini nell'Italia centrosettentrionale. Noi ce ne accorgemmo per i preparativi dei baldanzosi ufficiali e soldati fascisti che ripresero il sopravvento sulla parte moderata del comando. In tutte le sezioni del campo i prigionieri jugoslavi che noi vedevamo ogni mattina allinearsi disciplinatamente si rivelarono formazioni militari già preparate. Nei comizi che si tennero in tutte le sezioni chiesero al comando militare le armi per marciare contro i nazisti. Nella nostra sezione aveva la parola vibrante Ganu Kriezju uno dei tre fratelli notabili albanesi che dividevano con noi l'internamento a Ventotene. In quel momento udii la cornetta del posto di guardia che chiamava il picchetto armato, di corsa. Non dubitai che esso si sarebbe diretto prima che altrove alla nostra sezione per l'odio che i fascisti risentivano contro noi anarchici, ultimi arrivati. Mi diressi perciò all'entrata per osservare ciò che stava per accadere, in tempo per udire chiaramente l'ordine dato dal maggiore Fiorenzuoli agli uomini del picchetto di caricare a salve e di sparare subito dopo avere intimato seccamente agli internati l'ordine di sciogliere il comizio e di ritirarsi nei cameroni. Non tutti gli internati ebbero il tempo di rendersi conto di ciò che accadeva. Subito dopo i primi spari di fucileria del picchetto armato agli ordini di Fiorenzuoli seguirono quelli incrociati delle mitragliatrici poste circolarmente sulle torrette di guardia che cingevano il campo.
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Piacenza Nuova, organo del CLN
della provincia - 17 novembre 1945 |
Silenzio apparentemente disarmato
Premeditazione o paura? Le salve furono soverchiate dai sibili dei proiettili. Sul terreno restarono feriti un internato jugoslavo ed il compagno Aldeghiari, di Verona, colpito allo stesso braccio in cui era stato ferito in Spagna nella guerra contro Franco.
Un'ondata di violenza terroristica si scatenò contro di noi all'interno dei dormitori. All'entrata, nel nostro camerone del tenente Panzacchi, in testa ai suoi soldati e carabinieri, un giovane jugoslavo gridò: vigliacchi! Pochi minuti prima io avevo insistito ad accompagnare Aldeghiari fuori dalla porta del camerone, che ci imponevano di non oltrepassare in quel momento, affinché lo medicassero senza perdere tempo, cosa che era stata fatta ma che aggiungeva contro di me altri motivi di risentimento a quelli che avevamo dati nei giorni passati. Il tenente Panzacchi mi disse a bruciapelo: “siete stato voi a gridare vigliacchi”! Risposi: “non sono stato io ma, certamente, non siete degli eroi”!
Con me nel camerone erano centinaia di compagni. Il silenzio apparentemente disarmato di quegli uomini era più forte delle centinaia di uomini armati. Ancora una volta lo spirito indomito della nostra resistenza disarmò coloro che ci tenevano sotto il controllo a vista delle loro armi. Ne uscii soltanto con un colpo di baionetta ad una tempia che però ricevetti dalla parte piatta per essermi tempestivamente abbassato. Era il regalo – non andato a segno – di un brigadiere dei carabinieri che aveva tolto il fucile con l'arma innestata ad un suo subalterno. Nei giorni che seguirono alcuni anarchici italiani, evasi dal campo di Renicci insieme ad albanesi e jugoslavi, costituirono i primi gruppi partigiani che operarono nella zona toscoemiliana. Altri si diressero in tutte le direzioni.
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Libertà, quotidiano di Piacenza - 18 novembre 1945 |
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Piacenza Nuova, organo del CLN della provincia 21 novembre 1945 |
In direzioni diverse
Prima di chiudere questo modesto ricordo dei numerosi compagni che poi lasciarono la vita nella lotta contro il nazifascismo o negli stenti derivati dai mali contratti nelle galere e nelle isole di confino del regime fascista, voglio rievocare la grandezza umana di un ufficiale di comando di Renicci di Anghiari. Aveva in consegna una quarantina di noi per condurci alla prefettura di Arezzo da dove avremmo dovuto essere liberati.
In viaggio gli facemmo osservare che Arezzo era già nuovamente in mano ai fascisti ed ai tedeschi e condurci là equivaleva a portarci alla morte.
Quell'ufficiale, nelle quotidiane discussioni che facevamo, dimostrava idealità fasciste però era alieno da atti arbitrari come quelli che erano cari al tenente Panzacchi, suo collega. Alle nostre insistenze, arrivati in località S. Firenze pochi chilometri prima di Arezzo ci fece scendere dal camion e, chiamati in disparte chi scrive e Mario Perelli, ci consegnò l'elenco del nostro gruppo dicendomi: “Voi siete responsabili di questi uomini!”. Quindi fece girare il camion e ritornò con i soldati della scorta al campo. Era il tenente Rouep, fiorentino, veniva dagli alpini.
Io e Perelli bruciammo il foglio. Quel gruppo di compagni si sciolse e ciascuno si avviò in direzioni diverse verso tutte le strade che ricordano vivi e morti, la loro presenza nella storia vera della lotta per la libertà. Storia che deve sempre essere “fatta” prima che gli altri, quelli che di solito scrivono e sistemano arbitrariamente i fatti della storia, possano scrivere la “storia” che non hanno “fatta”.
E questo è un discorso che può anche essere valido in relazione agli episodi che ho ricordato. Ed ai molti altri che restano da ricordare.
Alfonso Failla
A
Emilio Canzi
(Ezio Franchi)
Partigiano d'Italia
MCML
Qui
Tra gli alti monti e la gente umile
Donde con pochi animosi
Intraprese l'ultima sua battaglia
Per la libertà dei popoli
Emilio Canzi
Volle riposassero
Le sue spoglie mortali
Sposata la causa
Dei poveri e degli oppressi
Da combattente leale ed indomito
In terra d'Italia e di Francia
In Belgio, in Ispagna, in Germania
Per il trionfo della libertà
Per la giustizia sociale
E per un'umanità migliore
Soffrì
Persecuzioni, esilio, galera
O tu
Che qui pietoso t'aggiri
Ascolta la voce
Che ammonitrice ed implacata
S'alza da questa tomba
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Peli di Coli (Piacenza) – la tomba di Emilio Canzi sopra, l'epigrafe
(foto: Cino Bocchi) |
Gli anarchici
contro il fascismo
Un'opposizione dura, rigorosa, pagata a caro prezzo. Emilio Canzi fu solo uno fra i tanti.
Non fu solo uno scontro di classe, quello del proletariato contro la borghesia, che spinse gli anarchici a combattere il fascismo fin dal suo sorgere. Fu qualcosa di più complesso, di più profondo. Fu lo scontro fra due modi inconciliabili di concepire il mondo, di intendere i rapporti sociali, di misurarsi, umanamente, con i propri simili. Una visione antitetica che non poteva trovare altra sintesi che non fosse quella della lotta. E che rendeva inevitabile che l'anarchismo contrastasse il fascismo con tutti i suoi mezzi e le sue forze. Che è esattamente quanto è successo. Dalle prime imprese squadristiche nelle città e nei centri del nord Italia, fino alla definitiva sconfitta del regime nelle belle giornate dell'aprile 1945.
Fu una lotta dura e senza incrinature, che lasciò sul terreno esistenze troncate e speranze distrutte, che provocò lutti e sofferenze, ma che, nonostante la durezza con la quale il fascismo vincitore si accanì contro i suoi nemici, non riuscì a scalfire gli ideali di libertà, giustizia e uguaglianza a difesa dei quali gli anarchici si opposero alla dittatura.
Esiste ormai, a differenza che nel passato, una storiografia accurata e attenta a ristabilire la verità storica. Che mostra come il contributo del movimento anarchico, nella lotta antifascista, fu importante e secondo solo a quello del movimento comunista. Fu un contributo massiccio, a cui dette mano la grande maggioranza dei militanti, anche se, va ricordato, alcuni di questi che venivano dalle fila individualiste o del sindacalismo rivoluzionario, furono irretiti dal verbo “rivoluzionario” di Mussolini e dalle illusorie promesse del corporativismo.
Cercando la rivincita
Fino dai primi momenti dell'ascesa del fascismo, quando gli squadristi, con la connivenza dello Stato, imposero la legge del manganello, gli anarchici parteciparono alla resistenza operaia e popolare, a difesa delle garanzie del lavoro, delle organizzazioni popolari, delle Case del Popolo e delle sedi sindacali. Scontrandosi non solo con le camicie nere, ma anche con la debolezza e l'indeterminatezza dei dirigenti dei grandi partiti di massa. Importante fu il contributo all'attività degli Arditi del Popolo, il solo movimento che riuscì ad arginare la violenza fascista, a Parma, a Sarzana, a Roma, là dove si poté contare sull'unità delle forze antifasciste. Con l'avvento del regime, chi non era in carcere o confinato nelle isole, prese la via dell'esilio, in Francia, Belgio, Svizzera..., ricominciando a tessere, insieme alle altre formazioni della sinistra, le prime tele della resistenza. All'estero gli sforzi furono soprattutto indirizzati a creare un'organizzazione che raccogliesse tutti gli anarchici italiani e che quindi consentisse la ripresa della lotta, ma accanto a questi sforzi organizzativi, ci furono numerose iniziative individuali rivolte, soprattutto, contro la figura del duce. Zamboni, Schirru, Sbardellotto, Lucetti, dovettero pagare duramente il fallimento del loro comune proposito di uccidere il tiranno e di innescare un processo in grado di dissolvere il regime.
Quando in Spagna, nel luglio del 1936, i generali golpisti guidati da Francisco Franco tentarono di imporre la dittatura, centinaia di anarchici italiani, cercando la rivincita contro il fascismo, accorsero al fianco dei rivoluzionari spagnoli, dando così vita alla prima Brigata internazionale antifascista, ed organizzando, in tutti quei paesi dove la loro presenza lo permetteva, una estesa rete di solidarietà in difesa della rivoluzione spagnola. Sconfitti ancora una volta, questa volta dall'alleanza dei fascismi internazionali, rientrarono nella “libera” Europa, e molti, dopo essere usciti dai campi di concentramento per i rifugiati spagnoli messi in piedi dalla “democratica” Francia, presero parte attiva al maquis francese contro l'occupante nazista.
L'ultima fase di questa ventennale lotta contro il fascismo iniziò nel 1943, quando le prime formazioni partigiane mossero guerra alla Repubblica di Salò. Una nuova generazione di anarchici, di giovani cresciuti sotto il regime ma rimasti in contatto con i compagni più vecchi che non avevano abbandonato le loro idee, affiancò quanti rientravano dall'esilio o dal confino, e partecipò, in alcune regioni in maniera massiccia, al movimento partigiano. Soprattutto in Lombardia, Liguria, Toscana ed Emilia Romagna le bande dei partigiani anarchici ripresero il filo rosso della lotta antifascista, di quella lotta che, anche se a fasi alterne, non si era mai esaurita, neanche nei momenti più drammatici e bui.
Massimo Ortalli
Sulla lotta antifascista
degli anarchici
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I protagonisti |
Cesare Baio
Giovane studente di Bettola (Pc), insieme alla famiglia e ad alcuni amici è l'anima delle prime attività resistenziali nella zona. Già dall'autunno del 1943 si adopera per far espatriare ufficiali alleati in Svizzera o per metterli in contatto con le prime bande partigiane. Èquesto gruppo che porta le prime armi a Peli dalla Val Nure. Arrestato, muore insieme al padre nel lager di Colonia.
Bernardo Barbiellini Amidei
“Ras” di Piacenza, fascista della prima ora, fondatore del quotidiano “La Scure”. È il protagonista dello “splendido squadrismo piacentino”, come lui stesso lo definisce. Parlamentare nel 1924, podestà di Piacenza dal 1927 al 1929. Espulso nel 1930 dal Pnf, troverà la “bella morte” come volontario sul fronte greco-albanese.
Aldo Belizzi detto Paolo
Ardito del popolo sotto la guida di Canzi, organizzatore del grande sciopero delle bottonaie del 1930, confinato, segretario della Federazione comunista piacentina fino al luglio 1944. Componente del CLN e animatore del gruppo di Peli. Il suo laboratorio di falegnameria è centro di raccolta di armi per la Resistenza. Negli anni '70 sarà presidente del Comitato antifascista militante, espressione della sinistra extraparlamentare piacentina.
Camillo Berneri
È tra i fondatori nel 1919 dell'Unione Anarchica Italiana. Durante il fascismo è esule in Francia, Belgio, Olanda. Nel 1936 è tra i primi organizzatori del contingente anarchico italiano in Spagna e combatte a Monte Pelato con Carlo Rosselli. Dalle colonne del suo giornale, “Guerra di classe”, è tra i principali critici della militarizzazione delle milizie repubblicane. Viene arrestato e assassinato nelle strade di Barcellona dalla polizia stalinista il 5 maggio 1937, durante il “mayo sangriento”.
Wladimiro Bersani “Capitan Selva”
Avvocato comunista di Lugagnano (Pc), comandante della 38ma brigata “Garibaldi” in Val d'Arda. È uno dei comandanti partigiani piacentini più importanti, naturale candidato a ricoprire la carica di Comandante Unico. Muore in combattimento, il 19 luglio del 1944 a Tabiano di Lugagnano. A lui viene intitolata la divisione garibaldina “Val d'Arda”.
don Giuseppe Borea
Parroco di Obolo in Val d'Arda (Pc). Già arrestato per antifascismo nel 1942, strenuo difensore degli ideali della libertà, entra nella Resistenza come cappellano della divisione partigiana "Val d'Arda", comandata da Prati. Catturato dai fascisti il 27 gennaio 1945, torturato, fucilato il 9 febbraio. Muore perdonando i suoi nemici.
Giorgio Braccialarghe
Repubblicano e antifascista, è costretto ad emigrare in Argentina nel 1932. In Spagna combatte nel gruppo Picelli e nel battaglione Garibaldi. È aiutante di Randolfo Pacciardi e comandante del reparto Arditi. Dal 1941 è confinato a Ventotene. Nella Resistenza è comandante delle brigate partigiane mazziniane a Roma.
don Giovanni Bruschi
Parroco di Peli di Coli (Pc). Antifascista, cappellano capo della XIII zona partigiana, nei ruolini dell'ANPI figura come partigiano combattente con il grado di capitano. Dopo l'armistizio mette a disposizione della Resistenza la sua canonica, che diviene rifugio di ribelli e renitenti alla leva, deposito di armi e sede del Comando Unico.
Fausto Cossu “Fausto”
Tenente dei carabinieri, originario di Sassari. Evaso da un campo di prigionia nazista fonda in Val Tidone (Pc) la “Compagnia carabinieri patrioti”, primo nucleo del Comando della divisione Giustizia e Libertà, attestata nelle valli del Tidone e della Trebbia. Successivamente nominata divisione Piacenza, è la più grande e organizzata del Piacentino. Fausto la comanderà fino alla Liberazione e sarà il primo questore della Piacenza liberata.
Renato Cravedi
Conosciuto l'antifascismo in fabbrica, entra giovanissimo nel PCI clandestino di Piacenza e nelle prime SAP in città. Sale in montagna nell'agosto del 1944, nella brigata “Stella Rossa”, a soli 17 anni. Dopo il grande rastrellamento passa a far parte della Divisione Piacenza, agli ordini di Ludovico Muratori, “Muro”. Militante comunista nel dopoguerra, oggi è segretario provinciale dell'ANPI di Piacenza.
Francesco Daveri
Avvocato democristiano. Di lunga militanza antifascista, è tra i fondatori del CLN piacentino. Uomo di grande spessore culturale e morale, è un ottimo mediatore tra le diverse anime della Resistenza. Condannato per aver dato pubblicamente alle fiamme un ritratto del duce a Bettola (Pc), è costretto a riparare in Svizzera e poi a Milano. Arrestato e deportato nel 1944, muore nel lager di Mauthausen.
Milih Dusan “Montenegrino”
Ex ufficiale dell'esercito Jugoslavo, evade l'8 settembre dal campo di concentramento di Cortemaggiore (Pc). Salito in montagna nella primavera del 1944, viene chiamato a comandare la 60ma Brigata d'assalto Garibaldi “Stella Rossa”. Formatasi a Peli, la “Stella Rossa” opera in seguito nel settore della Val Nure.
Alfonso Failla
Anarchico siracusano, antifascista militante fin dai primi anni Venti, viene confinato nel 1930. Sconfinato da Ventotene nell'agosto 1943 dopo un periodo di detenzione nel campo di Renicci d'Anghiari partecipa alla Resistenza tra Toscana, Liguria e Lombardia.
Nel dopoguerra sarà uno degli elementi di punta della Federazione Anarchica Italiana.
Savino Fornasari
Ferroviere, nato a Mortizza (Pc) nel 1882. È il principale esponente del forte movimento anarchico piacentino del primo dopoguerra: fondatore dell'Unione Comunista Anarchica di Piacenza, dirigente della Camera del lavoro. Fuoriuscito, partecipa al movimento libertario in esilio e al Comitato pro-Spagna di Parigi. Confinato a Ventotene, dopo l'8 settembre torna a Piacenza ma, ormai sessantenne, non entra nella Resistenza. Dopo la Liberazione parteciperà alla rinascita del movimento anarchico piacentino, prima di morire nel settembre 1946 a Piacenza, investito da una camionetta dell'esercito alleato.
Pietro Inzani “Aquila nera”
Tenente degli alpini originario di Morfasso (Pc), è a capo di una delle prime bande partigiane della Val d'Arda. Partecipa alla costruzione e al Comando della 38ma Brigata “Garibaldi” sotto la guida di Wladimiro Bersani. Canzi lo vuole poi al Comando Unico, come Capo di Stato Maggiore. Quando muore fucilato vicino a Ferriere, nel tremendo rastrellamento invernale, è comandante della Divisione Val Nure.
Mario Iacchia “Rossini”
Avvocato ebreo antifascista. Fondatore del Partito d'Azione bolognese, sin dal 1942 prende contatti con il movimento comunista clandestino. Fa parte del Comando Nord Emilia. Catturato dai fascisti perché si attarda a distruggere dei documenti, viene torturato e trucidato. Il suo corpo non verrà mai ritrovato.
Italo Londei
Tenente degli alpini, l'8 settembre si trova ad Alessandria agli ordini del generale Bellocchio, anch'egli bobbiese. Scorta Daveri in Svizzera, poi torna in Val Trebbia dove è artefice della liberazione di Bobbio (Pc), il 7 luglio del 1944. Dopo la fine della Repubblica di Bobbio forma la 7ma Brigata “Alpini Aosta” della quale rimane comandante fino alla Liberazione.
Lorenzo Marzani “Isabella”
Anarchico piacentino, collabora con il movimento clandestino di Giustizia e Libertà durante la guerra. Conosce Canzi in carcere, nel 1942. Dopo l'8 settembre è, a Peli, uno dei primissimi a dar vita alla Resistenza piacentina. Attivissimo ufficiale di collegamento del Comando Unico e fedele compagno di Emilio Canzi, è tra gli arrestati del 20 aprile 1945.
Luigi Marzioli “Marzi”
Colonnello dell'esercito, responsabile della piazza di Piacenza. È tra i militari che non si arrendono ai tedeschi. Nelle prime fasi della guerra partigiana rimane defilato a Morfasso (Pc). Nel 1944 subisce invece un arresto a causa della sua attività nella Resistenza. A guerra quasi conclusa entra nel Comando Unico e successivamente accetta di sostituire Canzi.
Giovanni Molinari “Piccoli”
Figlio del primo sindaco socialista di Fiorenzuola (Pc), nel 1921 suo fratello è assassinato da una squadraccia fascista. Anarchico in gioventù, è uno dei riorganizzatori del PCI clandestino. Dal 1930 subisce carcere e confino. Tra i primi fautori della lotta armata tra il Piacentino e il Parmense, la sua banda (la “Piccoli”) è tra le più attive militarmente tra Val Tidone e Val Trebbia. Il 5 giugno 1944 viene ucciso insieme a tre compagni dagli uomini di Fausto, per motivi politici e di egemonia territoriale. La sua fine è uno dei nervi scoperti della Resistenza piacentina. Secondo molti storici, dopo Porzus il fatto più grave nella storia della Resistenza italiana.
Randolfo Pacciardi “Leone di Guadalajara”
Repubblicano, fondatore di “Italia libera” e aderente a “Giustizia e Libertà”. Feroce oppositore del regime sin dal 1922, nel 1936 è tra i primi a recarsi in Spagna, dove comanda il battaglione Garibaldi. Nel 1937, in dissidio con le posizioni comuniste, esce dalla Spagna ma continua a combattere il nazifascismo dalla Francia e dagli Usa. Alla fine della guerra parteciperà alla Costituente.
Ferruccio Parri
Insegnante al Liceo Parini di Milano, redattore del "Corriere della sera". Nel 1926 con Carlo Rosselli organizza l'espatrio clandestino di Filippo Turati. Più volte arrestato e confinato, rifiuta la domanda di grazia. Promotore del Partito d'Azione e suo rappresentante nel CLNAI, poi Vice comandante del Corpo volontari della libertà. Partecipa attivamente alla fase conclusiva della Resistenza e all'insurrezione di Milano. Nel 1945 è il primo Presidente del Consiglio dei ministri.
Alessandro Pertini
Socialista e antifascista, dal 1926 al 1943 vive tra prigionia, esilio, confino: a Ventotene conosce Emilio Canzi. Liberato nell'agosto 1943 e successivamente catturato dalle SS, viene condannato a morte. Evade dal carcere e raggiunge Milano. Qui assume la carica di segretario del Partito Socialista nei territori occupati e dirige la lotta partigiana. Dopo la Liberazione sarà segretario del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria e deputato all'Assemblea costituente.
Giuseppe Prati “Liberatore”, poi “Prati”
Ufficiale dell'esercito fino all'8 settembre. Originario di Morfasso (Pc), dal gennaio 1944 opera in Val d'Arda dove diviene comandante di divisione. Comanda le brigate garibaldine ma non è comunista. Spesso in conflitto con il Comando Unico, è tuttavia lui a predisporre la liberazione di Canzi, imprigionato da “Venturi” nel suo territorio.
Remo Polizzi “Venturi”
Proveniente da Parma, diviene nel giugno 1944 segretario della Federazione comunista di Piacenza sostituendo Paolo Belizzi. Entra nell'ottobre dello stesso anno nel Comando Unico come commissario politico.
Guido Schiaffonati
Originario di Ziano (Pc), anarchico, segretario di una sezione locale degli Arditi del popolo. Espatriato in Francia nel 1922, collabora con il movimento libertario italiano. È con Canzi nel direttivo del Comitato anarchico pro-vittime politiche. A Barcellona nel 1937 mantiene i collegamenti tra i miliziani italiani, la FAI e il Comitato pro-Spagna. Sfuggito alla prigionia tedesca nel 1944, si unisce alla Resistenza francese ed entra a Parigi con le truppe di liberazione alleate.
Argo Secondari
Decorato della Grande Guerra, non accetta il diffondersi della violenza squadrista e fonda gli Arditi del Popolo. Il suo movimento si oppone al fascismo con le armi, ma è abbandonato dalla sinistra ufficiale. Vivrà i suoi ultimi anni di vita in manicomio, incapace di esprimersi per i danni al cervello subiti in un pestaggio fascista. Mussolini in persona rifiuterà al fratello di portarlo con sé oltreoceano per il tempo che gli restava da vivere. |
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