Sono convinto che sia di estrema importanza una seria riflessione sulle possibilità e capacità dell'anarchia di diventare realizzabile. Fin dal momento in cui, qualche decennio fa, mi sono sentito affascinato dalle idee e dalla proposta politica di nuova vita associata che pone, ne sono stato letteralmente conquistato, come sono convinto sia successo a molti/e compagni e compagne che conosco e molti/e altri/e che non conosco. Da allora sono stato spinto ad una ricerca continua della nostra storia, delle nostre vicende trascorse e dello sviluppo plurimo del nostro pensiero, con lo scopo di comprendere cosa e come fare per contribuire alla sua concreta realizzazione.
È pur vero che per sentirsi anarchici e vivere il più coerentemente possibile coi nostri principi, come per forza di cose avviene ora per tutti noi, non c'è bisogno di essere in anarchia, proprio per l'insieme di valori di libertà che abbiamo abbracciato. Per questo modo d'intendere abbiamo anche un maestro, Emile Armand (1), il quale sottolinea innanzitutto l'aspetto esistenzialista della nostra idea, fino a non ritenere importante la trasformazione rivoluzionaria della società. È però altrettanto e oltremodo vero che un simile approccio non soddisfa, né può farlo, la maggior parte di noi, che siamo cresciuti, e continuiamo a riconoscerci, all'interno dell'anarchismo per come si è storicamente determinato: movimento di lotta rivoluzionaria, sorto in parallelo e all'interno del movimento internazionale dei lavoratori, per l'emancipazione della società dai poteri costituiti del dominio autoritario e dallo sfruttamento economico.
Per affrontare il problema della fattibilità politica della futuribile società anarchica la questione dev'essere affrontata su almeno due piani: a) una considerazione, diciamo, oggettiva, per cui si tende ad identificare i limiti che sono insiti nella sua stessa proposizione; b) una considerazione, diciamo, contingente, per cui si tende ad identificare i limiti determinatisi coi cambiamenti che di volta in volta prendono piede con l'evolversi del divenire delle “cose umane”.
Cambiamento
alle radici
Il nocciolo duro del movimentismo rivoluzionario anarchico recita più o meno nella maniera seguente. Il modo di organizzare le relazioni sociali dev'essere cambiato alle radici, cercando di instaurare una situazione diffusa e paritaria di libertà estesa a tutti i componenti della società, superando il regime di proprietà del capitalismo e mettendo gli strumenti di lavoro e l'usufrutto della comune ricchezza a disposizione di tutti, in regime di sostanziale eguaglianza delle possibilità economiche. Le decisioni e la definizione delle norme che regolano la vita associata vengono prese attraverso organismi collettivi organizzati su base orizzontale, escludenti gerarchie privilegi e capi di ogni risma. In sostanza un programma di autogestione delle comunità, che autonomamente si federano tra loro e si coordinano nel rispetto delle reciproche autonomie.
Il valore primario di questa proposta è la libertà al suo più alto livello, sia per quanto riguarda i singoli individui sia per quanto attiene l'insieme societario, resa possibile da un altissimo grado di solidarietà, di reciprocità, di paritarietà, sia delle possibilità economiche sia di quelle partecipative e decisionali.
Dal momento che se c'è imposizione, coazione, supremazia della maggioranza sulla minoranza, o comunque di una parte sull'altra, non ci può essere anarchia, appare evidente che, affinché una simile situazione diffusa si realizzi, bisogna che tutti, o la stragrandissima maggioranza (il 99,99%?) dei coinvolti, vi si riconosca e accetti di buon grado di prendervi parte e dare il proprio contributo. Non tanto nel senso che tutti debbano essere fin da subito per forza anarchici, la qual cosa, non c'è bisogno di spendere molte parole, è intuitivo che non è realisticamente ipotizzabile. Ma per esempio nel senso di una situazione equiparabile a quella del Chiapas attuale, che trova la concordanza e la partecipazione fattiva, in molti casi entusiasta, di anarchici e non anarchici, accomunati da un comune sentire e da intenti contingentemente convergenti.
Non credo sia necessario spendere molte parole nemmeno per sostenere che tale auspicabile eventualità dev'essere considerata rara, o comunque legata a situazioni specifiche e straordinarie. Ma poiché uno degli assunti fondamentali del nostro pensiero, di cui ci facciamo giustamente vanto, riprende l'affermazione bakuniniana che recita finché anche uno solo non è libero nessuno è libero, diventa indispensabile soffermarsi per ragionare un minimo in profondità sul cosa fare per rendere fattibile l'ipotesi anarchica che, risottolineo, per principio non può essere imposta, tenendo appunto conto della realistica impossibilità pratica di avere d'incanto una società di tutti individui che vogliano vivere e rendere operativo ciò che solo noi anarchici vorremmo fin da ora. In altre parole, si tratta d'identificare una strategia politica che ci permetta di saper scegliere con agilità cosa fare al momento opportuno, tenendo conto dei limiti e dei vincoli etici ineludibili sopra detti.
Errico Malatesta aveva ben presente tale problema (2). Per questo ipotizzò il gradualismo anarchico. Ma il gradualismo malatestiano, oltre a limitarsi, per sua stessa ammissione, soprattutto a segnalarlo, perché si rendeva conto che la stragrande maggioranza dei compagni non ne aveva capito l'importanza, si muove all'interno di una considerazione monocorde, circoscritta all'unica ipotesi strategica della rivoluzione insurrezionale, convinto com'era che solo attraverso di essa si potessero mettere in moto i processi funzionali alla realizzazione dell'anarchia.
Personalmente sono convinto che la rivoluzione, cioè una trasformazione radicale e irreversibile della società, possa avvenire in maniere diverse e non soltanto per mezzo di scontri insurrezionali, anche se questi possono facilmente avere la preminenza. Ultimo esempio storico in tal senso sono i fatti dell'ottantanove, quando l'impero bolscevico cessò di esistere per implosione, delegittimato dal suo stesso popolo. Comunque sia, proprio guardando la storia con occhio disincantato, ci si accorge della plurima dinamicità delle trasformazioni, come del resto per qualsiasi altra cosa. Non si può allora ancorarsi in modo assiomatico alla cecità di una visione univoca, perché si rischia l'incomprensione della realtà.
Ciò che invece è del tutto interessante della tesi malatestiana è il metodo che propone, cioè i criteri che suggerisce per rendere effettivo il gradualismo, con cui concordo pienamente. La sostanza sta nell'agire, al di fuori di ogni violenza e imposizione, per far si che le nostre pratiche e i nostri metodi si dilatino a un numero sempre maggiore di individui, accettati e fatti propri da loro fino a riconoscerli utili congruenti e confacenti coi presupposti di un'emancipazione vera.
Occupandosi soprattutto di cosa fare nel dopo rivoluzione, Malatesta sottolinea l'importanza di non distruggere nessuna istituzione o forma organizzativa senz'aver identificato prima con che cosa sostituirla, perché ciò che c'è e in qualche modo funziona è meglio di una situazione caotica, che porterebbe inevitabilmente le masse a retrocedere chiedendo di esser governate per problemi di sicurezza. Arriva perfino a dire che l'anarchismo è sempre stato e non potrà mai esser altro che… riformatore… dal momento che rivoluzione significa, nel senso storico della parola, riforma radicale delle istituzioni,… (3).
Si tratta allora di riuscire ad identificare una strategia, che malatestianamente non può che essere gradualista, ma che, pur riconoscendosi nella metodologia proposta dal nostro Errico, al contempo non s'irrigidisca su visioni e concezioni rivoluzionario-insurrezionaliste.
Contaminazioni arricchenti
I punti di riferimento di cui tener conto sono sostanzialmente due.
1° La rivoluzione, cioè il cambiamento sociale alle radici, è tale se mette in moto e rende operativa una mutazione diffusa che affossi progressivamente il sistema di potere vigente, sostituendolo con nuove forme istituenti di gestione di tutto ciò che concerne le comunità di riferimento, indipendentemente che ciò avvenga con scontri insurrezionali o altre forme d'azione spontanee d'opposizione radicale.
2° La costruzione di nuove forme di relazione economiche e politiche, capaci di realizzare un progressivo cammino verso una società che sia sempre più coerente e congruente coi presupposti anarchici, non può che realizzarsi attraverso un aumento costante di adesioni al nostro progetto, volontarie e operative, escludendo giustamente per principio l'imposizione, ma accettando che tali adesioni possano avvenire sia come identificazione ideologica, cioè con una consapevolezza dichiaratamente anarchica, sia come semplice accettazione di metodo e di sperimentazione.
Per quanto riguarda il contingente, cioè ciò che caratterizza la fase che stiamo attraversando, oggi sta assumendo prevalenza condizionante il fenomeno immigrativo, per cui c'è una continua e costante immissione di culture e modi di pensare altamente differenziati. Non va visto in alcun modo come una complicazione, ma come una ricchezza, dal momento che quando si allarga la base del confronto di idee di visioni e di comportamenti si allarga l'orizzonte dello sguardo e l'arco delle possibilità creative di operare, ovviamente se se ne riesce a cogliere il senso e il segno.
Per vivere la contaminazione delle differenze come ricchezza bisogna accettare e valorizzare le diversità sul piano del confronto e della comparazione, in modo che i diversi valori e i diversi presupposti si scambino il senso arricchendosi reciprocamente. Per un punto di vista anarchico esiste il problema che molte culture hanno fondamenti autoritari, in alcuni casi teocratici, apparentemente impermeabili a pratiche di libertà autentica. Dal momento che per il principio che ci distingue non possiamo neanche supporre di imporre il nostro punto di vista, dobbiamo ipotizzare possibilità di un confronto critico sulla base di un riconoscimento reciproco, ovviamente rivolto a tutti coloro che, pur aderendo a visioni autoritarie, non pretendano di far subire il potere gerarchico.
Per estendere il ragionamento a situazioni futuribili, in cui si possa immaginare un'auspicabile mutazione sociale di liberazione emancipativa in atto, è altamente probabile che, proprio per il retaggio di culture e identificazioni religiose, non sarebbero pochi coloro che vorrebbero riproporre forme organizzative e strutture di relazione che farebbero a pugni con le nostre idee. Non dovremo commettere l'errore di contrastare tali tendenze con l'imposizione della forza, mentre accetteremo che si manifestino secondo la loro volontà in nome della conquistata libertà e dell'autonomia. Il contrasto efficace non può che trovarsi sul piano del confronto culturale attraverso il dibattito delle idee, supportato dalla sperimentazione e dall'esempio che riusciremo a mettere in campo. In nessun caso comunque potremmo accettare di essere aggrediti o impediti ad essere, contro il quale sopruso ci difenderemmo con forza ed energia adeguate.
Il problema di fondo comunque è quello di applicare questi criteri e questi metodi a una visione strategica che consideri le possibilità di un cambiamento rivoluzionario sganciate dall'illusoria unica speranza nel trionfo insurrezionale, capaci di andare oltre quegli stretti confini. Non limitarsi al dopo rivoluzione, ma agire prima durante e dopo, accettando le differenze di pratiche di idee e di visioni, contrastandole con l'arma della sperimentazione e dell'esempio, rifiutando di subire le pratiche autoritarie e gerarchiche e di riconoscerne la validità. Porre soluzioni antitetiche a quelle del dominio sul piano della concretizzazione, portate avanti da chi ne è convinto e considerate quale luce di riferimento per la dilatazione dei metodi e delle pratiche nostre. Se coerenti, dovrebbero risultare le più funzionali alla realizzazione delle aspirazioni al cambiamento.
Gradino dopo gradino
Non basta propagandare e decantare la nuova società anarchica, mentre bisogna porsi nell'ottica di costruirla giorno dopo giorno, passo dopo passo, gradino dopo gradino, secondo i principi e i valori che la contraddistinguono fin dal momento in cui cominciò ad essere pensata e ipotizzata, avendo ben presente la necessaria gradualità della sua edificazione. Un gradualismo rivoluzionario, appunto, che però dovrebbe essere assunto come fatto strategico fin da subito, senza demandarlo pigramente al dopo, a rivoluzione avvenuta, come se d'incanto, una volta abbattuti i poteri costituiti, fosse possibile, senza un'adeguata preparazione, mettere in piedi e istituire taumaturgicamente una nuova situazione di relazioni sociali politiche ed economiche autenticamente libere.
L'abbattimento del potere autoritario non è l'equivalente della rivoluzione, perché questa è la messa in moto prima e subito dopo in opera di un cambiamento radicale irreversibile. Semmai ne rappresenta un momento indispensabile per realizzarla pienamente, mentre il semplice abbattimento di per sé è un'incognita, perché, se non è supportato da una volontà e una consapevolezza collettive di voler quel tipo d'innovazione, può dare avvio a nuovi regimi, senz'altro diversi dal precedente, ma al pari reazionari se non addirittura peggiori. L'impegno strategico non può dunque limitarsi a far la guerra al sistema vigente, perché dev'essere soprattutto in grado d'indicare il cammino, il senso del nuovo e come rendere operante la coerenza rispetto ai valori, ai principi e alle speranze suscitate.
Bisognerebbe perciò aver anche ben chiaro il problema delle alleanze politiche, come giustamente a suo tempo segnalò ripetutamente Berneri, oltre quale tipo di azione continua vada privilegiata. Per le alleanze, sono convinto che il criterio più consono debba essere quello di non farsi abbagliare da roboanti sirene inneggianti a rivoluzioni poco chiare, ma d'identificare le forze che, al di là di smaccati riformismi ostentati o di residui ideologici autoritari (esclusi gli anarchici, che alla fin fine poi non ne sono sempre completamente esenti, tutte le altre formazioni politiche sono portatrici di dettati autoritari), siano comunque disponibili a mettersi sinceramente in gioco ed a sperimentare seriamente pratiche di libertà radicale e alternativa al sistema di potere vigente.
Per quanto riguarda l'azione continua da privilegiare, bisognerebbe volgere l'attenzione, un'attenzione particolare, all'elemento propositivo: la realizzabilità dell'autogestione, le capacità e le possibilità del suo riuscire ad essere e funzionare. Perché questo, e solo questo, è in grado di attivare la costruzione di un immaginario innovatore. Perché soltanto diffondendo l'immaginario del nuovo mondo possibile, la trasformazione anarchica della società, possiamo sperare di renderla desiderabile per un numero sempre maggiore di individui e di stimolare a volerla.
Spostare l'attenzione sull'elemento propositivo vuol dire cominciare a considerare d'importanza secondaria l'elemento della protesta, che invece finora sembra sia quello che c'interessa di più. Il che non significa sottovalutarla e smettere di farla. Tutt'altro! Significa invece che la protesta, che sottolinea ciò che non vogliamo e non ci distingue perché sono in tantissimi a farla, non rappresenta più il momento qualificante del nostro operare e propagandare, che dovrebbe essere sostituito con ciò che vogliamo e proponiamo, che al contrario ci distingue e qualifica.
Cerchiamo così di essere presenti in tutti i luoghi della protesta e di attizzarne di nuove, come già facciamo, ma con lo sguardo e l'attenzione oltre la protesta stessa, perché soltanto se riesce a trasformarsi da momento contestativo a momento alternativo, tendente ad istituire il nuovo contrapposto al potere vigente, può mettere in moto processi rivoluzionari. Attivare dunque luoghi e processi di autogestione e spingere le comunità a decidere autonomamente, sganciandosi dal giogo delle decisioni dell'autorità costituita. Sta a noi anarchici, che la proponiamo, dimostrare il senso e il valore alternativi dell'anarchia e renderla appetibile.