rivista anarchica
anno 36 n. 317
maggio 2006


lettere

 

Una bella scoperta

Salve,
mi chiamo Lorenzo e non è la prima volta che scrivo (anche se precedentemente l'ho fatto per altri motivi).
Questa volta invece, ho voluto scrivere per chiedere un parere sull'opera di Stirner (L'Unico), che ho appena adesso finito di leggere. Volevo sapere quanto è stato importante per l'anarchismo, se e quanto è stato seguito e/o criticato il suo pensiero, e soprattutto vorrei un parere personale (anche perché non credo che la rivista abbia una sua “linea di partito”).
Scusate le domande e le curiosità un po' insolite, ma debbo dire che è stata una bella scoperta per me!
Grazie anche se non rispondete (mica me la prendo) e per il disturbo.

Lorenzo Tardella
(lorenzo_ska@hotmail.com)


Interrogativi interessanti

Caro Lorenzo,
la redazione di “A” rivista mi ha passato la tua lettera e ti rispondo volentieri, anche perché i tuoi interrogativi sono davvero interessanti.
Stirner è stato senza dubbio un pensatore originale, acuto e intelligente, che ha precorso, in un certo senso, molte di quelle teorie individualistiche e superomistiche che sarebbero venute dopo di lui. Precorso anche perché, a mio parere, non sempre il suo pensiero è stato interpretato correttamente, ma è stato travisato o letto in maniera “strumentale”. Sia come sia, in una certa fase dell'anarchismo, non sono mancati i suoi ammiratori e discepoli, in particolare a cavallo fra Otto e Novecento, quando nel movimento anarchico (in Italia soprattutto milanese) si creò una tendenza che dell'anarchismo prendeva quasi solamente ciò che riguardava la “libertà” e la “volontà di potenza” dell'individuo, senza curarsi della società, e dei bisogni della società, in cui viveva. Questo, da un punto di vista filosofico, avrebbe anche potuto avere un senso (semmai si fosse fermato lì) ma lo stirnerismo, se così lo vogliamo chiamare, divenne anche un movimento, una tendenza politica all'interno della più vasta tendenza che prendeva il nome di anarchismo. Gli effetti non furono certamente dei migliori: la propagazione di idee tese a valorizzare solo l'egoismo del singolo che trovava giustificazione nella sua esaltazione; il succedersi di atti che, nel nome in un certo senso usurpato di Stirner, affermavano solo la volontà distruttrice senza curarsi degli effetti che sortivano; il distacco sostanziale da quel mondo popolare e proletario che era l'humus naturale dell'anarchismo. Ovviamente non mancarono le polemiche, molto accese, fra questi stirneriani d'accatto e gli “anarchici sociali”, quali, ad esempio, Fabbri e Malatesta. E quello che distingueva gli uni dagli altri non era solo il diverso modo di concepire l'anarchismo, ma anche (e altrettanto importante) il diverso atteggiamento preso in queste polemiche. Da una parte il tentativo di ragionare e argomentare, dall'altro, molto spesso, solo l'invettiva o l'affermazione roboante. E anche la fine politica di molti di questi accesi sostenitori solo della propria volontà a scapito di quelle altrui, non fu certo delle più gloriose: molti, anche se certo non tutti, ingrossarono le fila degli interventisti prima, e dei fascisti antemarcia poi.
Oggi il pensiero di Stirner, forse capito meglio anche grazie all'opera di alcuni studiosi molto seri, non è più soggetto a quei travisamenti di cui ti ho detto, per cui la lettura de L'Unico può senz'altro essere una forma quanto mai stimolante per avvicinarsi alle teorie che cercano di rivalutare il ruolo dell'individuo, e le sue potenzialità, all'interno di una società sempre più gerarchica e soffocante.
Indubbiamente una lettura seria e non “esaltata” di Stirner può dare molto a chi cerca risposte sul proprio essere nel corpo sociale. Comunque, personalmente credo che leggere Stirner senza leggere quanto di altro si muove nel campo del pensiero libertario e antiautoritario, sia un approccio molto limitato al problema.
Spero di essere stato abbastanza esauriente
Cari saluti
.

Massimo Ortalli
(Imola)


La necessità dell'ateismo

“Quello che è stato adorato come Dio – scriveva Nietzsche – noi non lo troviamo affatto divino, ma al contrario pietoso, assurdo, dannoso, non solo perché è un errore, ma perché è un crimine”: un crimine contro l'uomo. Perché? Perché, inevitabilmente, l'idea del divino nega l'uomo come soggetto in-sé-per-sé: l'individuo, al contrario, viene considerato come un oggetto, dipendente ontologicamente da un creatore/padrone di fronte al quale è tenuto a prostrarsi. Qualsiasi concezione teologica, dunque, è contro l'uomo innanzitutto perché è contro la sua autonomia esistenziale: la libertà di Dio e quella umana sono contrapposte mortalmente l'una all'altra. C'è da considerare, inoltre, che dall'idea religiosa prendono corpo dottrine confessionali, ognuna delle quali si presenta come portatrice di verità assolute e dogmatiche, che il credente è obbligato ad accettare in ginocchio con il capo chino. Ha forse egli il diritto di criticare tali celesti dettami, metterli in discussione, o deviare da essi nella sua condotta quotidiana? Assolutamente no: pena la dannazione eterna. Senza dimenticare che anche le idee e le azioni più nefande, se rivestite di attributi sacrali, diventano insindacabili. Il divino, insomma, esige comunque passiva acquiescenza.
Tale impostazione, mortificandone il senso critico e gli impulsi libertari, abitua l'uomo all'arrendevolezza: arrendevolezza che, sorta inizialmente nei confronti dell'autorità celeste, si estende anche a quella terrena in ogni sua forma. Non è azzardato, quindi, definire Dio come l'assolutizzazione del principio di autorità, nonché “come la consacrazione e la causa intellettuale di ogni schiavitù sulla terra” (Bakunin). In proposito, S. Mill ha scritto: “La morale cristiana è essenzialmente una dottrina dell'ubbidienza passiva, inculca lo spirito di sottomissione a tutte le autorità costituite”. Gli fa eco Kropotkin: “Lo spirito del fanciullo è debole: è facile sottometterlo col terrore. Ed è quello che fanno. Gli fanno balenare davanti agli occhi le sofferenze dell'anima dannata, la vendetta di un Dio implacabile. […] Il religioso lo abituerà all'idea di legge per farlo meglio obbedire a ciò che chiamerà la legge divina, e l'avvocato gli parlerà della legge divina per farlo meglio obbedire alla legge del codice”. Non a caso, un popolo dotato di un forte senso religioso è sempre stato considerato il più facile da governare. C'è da considerare, infine, un ulteriore elemento che rende il credente così docile: la sistematica svalutazione, realizzata da ogni fede, del corpo a favore dello spirito, dell'aldiquà a favore dell'aldilà. Ma “solo se un uomo percepisce anche la sua carne, – ebbe a dire Stirner – percepisce se stesso nella sua totalità”: ecco perché “il credente non percepisce la miseria della sua natura schiavizzata”, e “non protesta per il torto che la sua persona subisce: con la ‘libertà dello spirito' si crede soddisfatto”. In questo senso, la religione ha sempre scoraggiato nell'individuo qualsiasi istinto di ribellione diretto verso le cause della sua sofferenza terrena, dipingendo il patimento materiale come una virtù, e promettendogli in cambio la beatitudine eterna.
Da quanto detto finora, emerge la necessità dell'ateismo o, meglio, dell'anti-teismo: non si tratta tanto di dimostrare la non-esistenza del divino, quanto di contrapporsi ad esso, di non accettare la sua autorità. “Se Dio esistesse – affermava Bakunin – bisognerebbe distruggerlo”. Solo rifiutando Dio, infatti, rifiutiamo qualsiasi forma di trascendenza rispetto all'individuo, determinando, così, la metamorfosi del weberiano “uomo che si sente creatura” in un uomo che si percepisce come l'unico, reale, produttore di senso. Solo rifiutando Dio, dunque, si può realizzare il passaggio da una significazione imposta all'individuo, ad una significazione da lui generata. Solo rifiutando Dio, inoltre, neghiamo l'esistenza di un fondamento assoluto ai valori: solo rifiutando Dio, quindi, possiamo definitivamente tirare un calcio a qualsiasi pretesa di verità indiscutibile, permettendo, così, il pieno sviluppo di uno spirito critico verso ogni principio di autorità. Solo negando Dio siamo, davvero, “condannati ad essere liberi”.

Emanuele Treglia
(Itri - Latina)


Nessun mito in Valsusa

Nell'articolo Il cortile, la valle, l'azione diretta, apparso sul numero 316 della rivista, Maria Matteo, riferendosi al mio articolo Nuovo municipalismo e vecchi merletti, pubblicato sul numero 315, afferma che “Stupisce tuttavia in un osservatore altrimenti attento come Scarinzi l'incapacità di cogliere l'occasionalità dell'intervento di Magnaghi. La teoria della democrazia partecipativa non descrive una pratica diffusa ma è il mero fiore all'occhiello per istituzioni locali che, dopo l'apertura del tavolo di trattativa romano nei giorni successivi alla riconquista di Venaus, hanno visto erodere in modo significativo la propria capacità di orientare e guidare il movimento”.
Ammetto che, alla lettura di un appunto così severo, ho sentito il bisogno di rileggere quanto avevo scritto nel mio testarello. Francamente, ho avuto conferma del fatto che non mi ero occupato del carattere occasionale o permanente dell'intervento di Magnaghi che citavo nel mio scritto e ne devo dedurre che o non mi ero espresso bene o che Matteo ha letto velocemente quanto ho scritto. Nel primo caso non sta a me giudicare. Nel secondo, capita.
Quest'appunto può, in ogni caso, fornire un'utile occasione per riprendere una questione che ritengo meritevole di attenzione e cioè l'apparire sulla scena di una corrente federalista democratica che può, insisto, può utilizzare anche il movimento valsusino come mito fondativo.
In estrema sintesi, è mio convincimento che coloro che, a diversi livelli, producono o, più modestamente, si riconoscono in teorie politiche generali interpretano i movimenti sulla base di convincimenti che hanno elaborato in precedenza ed ai quali fanno riferimento.
Naturalmente, questo viene da sé, le lotte e, a maggior ragione, quelle significative come quella sviluppatasi in Val di Susa, mettono in discussione questi stessi convincimenti e favoriscono innovazioni teoriche e politiche almeno per chi è disposto a sottoporre a verifica i propri paradigmi.
Per un militante di orientamento libertario, quale ritengo di essere, la lotta della Valle è certamente una conferma di quanto credo da decenni in merito alla critica della politica, alla rilevanza dell'azione diretta, alla natura delle politiche statali, al ruolo del riformismo ma, se fosse solo questo, avrei, almeno a mio avviso, perso quanto di rilevante il movimento ha espresso.
Questa lotta, infatti, mi sembra porre con forza interrogativi sulla dialettica fra movimenti di classe e mobilitazioni popolari, fra difesa di contesti vitali e critica del modello di sviluppo, fra prassi radicale delle minoranze rivoluzionarie e capacità di partecipare ad un movimento composito e attraversato da molteplici culture politiche e stili di azione, fra lotta diretta e ricerca scientifica indipendente dal potere costituito.
Non è, in altri termini, una sorta di meccanica ripetizione di quanto è avvenuto in precedenza ma pone al centro della riflessione proprio gli elementi di novità che ho cercato, assai poveramente, di segnalare.
Nel concreto, credo, ad esempio, che il movimento si è straordinariamente giovato del fatto che settori della stessa università hanno fornito materiale informativo analitico sui caratteri della TAV/TAC. Potremmo ipotizzare che il movimento avrebbe avuto la stessa forza se non vi fosse stato questo elemento ma, francamente, mi sembra improbabile. Soprattutto, e questo lo ritengo certo, non avrebbe avuto gli stessi caratteri.
Ne consegue che la stessa categoria di autorganizzazione non va utilizzata, a mio avviso, come una sorta di slogan adatto per tutti gli usi ma come una chiave di interpretazione viva e problematica. Ne conseguono, infatti, domande importanti sul possibile rapporto dell'opposizione sociale e cultura tecnico scientifica.
Una questione delicata e che eviterei di liquidare ricorrendo alla propaganda è il rapporto fra movimento ed istituzioni locali. È, infatti, evidente che le istituzioni locali sono, appunto, istituzioni e fanno, di conseguenza, il loro mestiere così come lo fanno i partiti parlamentari di governo e di opposizione. Compito nostro è, di conseguenza, sviluppare una posizione critica chiara ed esplicita nei loro confronti, denunciarne la fisiologica tendenza al compromesso, spiegare in maniera non demagogica ma radicale le ragioni strutturali di questa tendenza, valorizzare le pratiche di autorganizzazione che il movimento ha sviluppato e, soprattutto, può sviluppare, operare all'allargamento della lotta ed alla chiarificazione dei suoi obiettivi. Penso, sempre per fare un solo esempio, al legame fra critica della TAV/TAC e sviluppo del movimento dei pendolari.
Detto ciò, per restare alla Valle di Susa, non mi risulta che siano nati i consigli rivoluzionari degli operai, dei contadini e dei soldati. Fuor di celia, può piacere o meno ma la dialettica fra Comunità Montana della Bassa Val di Susa, singoli sindaci, comitati e movimento nel suo assieme è, appunto, una dialettica aperta e complicata che vede momenti di tensione, di rottura e di ricomposizione e il discorso politico dominante fra gli abitanti o, almeno, quello che ho colto è democratico radicale. Sarebbe, d'altro canto, singolare che in un'epoca non rivoluzionaria una singola vallata si organizzasse su di un'ipotesi di sovversione radicale dell'esistente.
Ritengo, insomma, che non sia utile, se non a fini propagandistici ma nella propaganda io non sono bravo, costruire un mito della Valle di Susa attribuendo al movimento caratteri che, con ogni evidenza, non ha e che quanto, in realtà, sta avvenendo sia sufficientemente importante per non rendere necessarie enfatizzazioni che rischiano di generare, alla prima difficoltà, corrispondenti delusioni.

Cosimo Scarinzi
(Torino)

 

 

 

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