La partita che si sta giocando in valle di Susa è una partita dalla posta molto alta, poiché va ben al di là delle rive della Dora.
È una partita che si gioca su più fronti, che si intersecano ma non coincidono. Sul tappeto c'è la questione delle grandi opere e del modello di relazioni sociali di cui sono indicatore. Sul tappeto c'è altresì la crisi del modello di rappresentanza democratico e una prassi che con differenti gradi di consapevolezza ne prefigura il superamento.
La prima posta in gioco è tra le più rilevanti. Spesso la vulgata sulle ragioni della strenua opposizione al treno ad alta velocità mette l'accento su temi rilevanti ma non determinanti a spiegare un movimento di lotta che, in alcuni momenti, ha assunto un carattere fortemente radicale. Questioni quali l'emergenza ambientale e i rischi per la salute, lo sperpero di denaro pubblico per fini privati, la sostanziale inutilità dell'opera sono solo tasselli di un lessico comune che ha messo in discussione la logica che sostiene un modello di sviluppo che sarebbe dissennato, anche se le montagne non fossero imbottite di uranio e amianto, anche se gli amici di merende del governo e dell'opposizione non si fossero seduti ad una tavola imbandita con soldi pubblici, anche se non fosse dimostrato che questa linea non serve a nulla. Nella genealogia del movimento valsusino c'è un lungo processo di ri-approppriazione di competenze e saperi che la struttura di potere pretendeva di avocare a se nel nome della tecnica e del progresso, i due feticci della modernità trionfante, che non possono essere né discussi né verificati, ma solo acriticamente adorati.
In questa costruzione di consapevolezza il constatare l'enormità del sopruso che i sacerdoti del progresso-profitto-velocità volevano imporre ha indubbiamente avuto una funzione importante, poiché ha aperto una finestra da cui è stato poi possibile osservare con occhi disincantati il circolo vizioso prodotto dall'equazione tra moltiplicarsi degli scambi e miglioramento delle condizioni di vita. Un'equazione falsa perché la pretesa del liberismo di costruire il migliore dei mondi possibili si scontra con l'evidenza della natura distruttiva di un modello di cui il Tav è l'emblema più efficace: un treno in corsa che travolge, schiaccia, divora tanta parte dell'umanità e dei luoghi in cui vive. La critica al capitalismo è la constatazione della sua natura intrinsecamente distruttiva, pur partita da una questione specifica, è oggi molto forte tra chi, tra Torino e Susa, si oppone al Tav.
Arroganza e preoccupazione
Quando, in più occasioni, il ministro di polizia Pisanu ha definito eversivo il movimento No tav, in fondo tutti i torti non li aveva. Ritenere che la logica del profitto non sia indicatore di progresso, il sostenere che un mondo dove le vite di milioni di uomini a nord come a sud del mondo vengono sfruttate, sottomesse, inquinate è un mondo intollerabile non può che essere considerato sovversivo.
Pochi sanno che il giorno che si verificò il terribile incidente nel tunnel stradale del Monte Bianco, a seguito del quale la galleria rimase chiusa per anni, vi transitavano, tra gli altri, due camion: uno diretto in Francia e l'altro diretto in Italia. Il primo trasportava carta igienica, il secondo trasportava carta igienica. Quei due tir sono una sorta di monumento alla follia nella quale siamo forzati a vivere.
Nella dialettica tra il manganello e la carota che contraddistingue i politici che vogliono imporre ai valsusini una scelta che non condividono, oggi, in questa lunga tregua elettorale, non è certo un caso che, specie i politici dell'Unione, pongano l'accento sulla necessità di “informare correttamente” i valligiani. Al di là dell'arroganza si coglie la preoccupazione di politici consapevoli che le ragioni della lotta dei No Tav oltrepassano ormai ampiamente i timori per l'ambiente e la salute.
Ma non solo. L'altro grande tema sul tappeto, quello della crisi del sistema di rappresentanza democratica, e le concrete esperienze di autogestione politica territoriale rappresentano un elemento di rottura della gerarchia che, se capace di contaminare altri ambiti sociali, potrebbe risultare difficilmente riassorbibile.
La vasta mobilitazione che ha accompagnato i giorni della rivolta, l'attenzione con cui da tutt'Italia si guardava a quest'angolo di nord ovest, la solidarietà ampia e spontanea che si è sviluppata intorno alla “libera repubblica di Venaus” sono i sintomi che l'esperienza valsusina risponde ad un bisogno diffuso ma costantemente frustrato di coniugare i termini di un'opposizione sociale radicale, radicata ed autonoma dal quadro politico istituzionale. La Val Susa, come già Scanzano, rimette in campo la possibilità di un conflitto che, nei suoi momenti più forti, allude al superamento della società gerarchica. Intendiamoci. Qui si delinea un orizzonte possibile tra i tanti che potrebbero darsi nei prossimi mesi. Non bisogna cadere nella tentazione di scambiare i propri sogni per realtà, ma semmai di cogliere alcune tracce utili per il cammino che ci attende dopo la fine della tregua elettorale.
Mi è capitato durante un recente dibattito sul conflitto politico e sociale e, in particolare, sulle modalità e forme che assume in un'epoca segnata dal contrarsi dello scontro diretto tra capitale e lavoro, di mettere a confronto la recente rivolta delle banlieue francesi con quella della Valsusa. Una forbice tanto divaricata da rendere pressoché impensabile un paragone. Utile tuttavia come riferimento per cogliere i differenti casi in cui il modo di vita modellato dall'universo della merce risulta incompatibile con le esigenze di segmenti sociali che esprimono un rifiuto che assume le forme della rivolta. Una rivolta che, nelle banlieue francesi, si caratterizza per un deficit di significazione, mentre in Valsusa mette in campo un caleidoscopio semantico.
La rivolta delle banlieue è stata raccontata, interpretata, analizzata dall'esterno, ma è stata muta, senza volontà/possibilità di autorappresentarsi, una sorta di monumento alla distruzione del legame sociale, della solidarietà sul territorio. La banlieue, come non luogo, come posto alieno tanto quanto la metropoli. Non è un caso che la spinta distruttiva, come in una sorta di gara a punti, si sia concentrata proprio contro la banlieue stessa, straripando solo occasionalmente dalle periferie al centro.
Legame sociale
In Val Susa una delle spinte della ribellione è la volontà di mantenere e rinsaldare il legame sociale. Significativa in merito la grande solidarietà ed il mutuo appoggio che in alcuni momenti si sono tradotti nell'abolizione del denaro. A Venaus, sia nei giorni difficili della resistenza, sia in feste come quella di capodanno o nelle varie iniziative al presidio permanente, tutti mangiano senza pagare e tutti portano legna o cibo da condividere, senza alcun calcolo monetario. A ciascuno in base ai bisogni, da ciascuno in base alle possibilità.
Questo rafforzarsi del legame sociale si è tradotto nelle partecipazione diretta alla lotta così come alle assemblee generali ed ai coordinamenti dei Comitati No Tav che di fatto oggi sono il vero parlamento della valle.
Tra le istituzioni locali e le varie forme di autogoverno territoriale si è creata una dialettica complessa (1). L'autorità dei sindaci dipende dalla capacità di esprimere nel confronto con le altre parti istituzionali (Provincia, Regione e governo) gli obiettivi che il movimento ha definito attraverso il confronto negli oltre 40 comitati locali, nelle assemblee, nei coordinamenti, nei presidi di Venaus, Borgone e Bruzolo. Né il presidente della Comunità montana, né l'assemblea dei sindaci sono stati sinora in grado di imporre mediazioni. Il tentativo di ammorbidimento attuato in estate con la cosiddetta “commissione Rivalta”, incaricata di verificare le criticità dell'opera, ha aumentato la consapevolezza che tavoli di trattativa o di confronto che non assumano tra le possibilità l'opzione zero sono solo trappole per dividere il movimento.
Quando le istituzioni si sono schierate su posizioni non condivise, il movimento ne ha ignorato l'opinione ed è andato avanti senza alcun timore. Un esponente No Tav molto moderato in un'assemblea in cui si discuteva un'iniziativa osteggiata dai sindaci (2) aveva detto tra gli applausi: “Se i sindaci saranno con noi, bene.
Se non ci saranno poco male: la Val Susa è perfettamente in grado di autorappresentarsi”.
Autonomie delle assemblee
Descrivere, come fanno taluni, quella della Val Susa come esperienza di “democrazia partecipativa” appare del tutto improprio. Vi è semmai un complesso intreccio tra i vari luoghi della rappresentanza, che non può essere ridotto alle assemblee gerarchizzate indette da quello che qualche mese or sono era il Comitato istituzionale ed oggi si è attualizzato in Comitato di Coordinamento. Queste assemblee guidate da Ferrentino sono lo strumento che il presidente della Comunità montana usa per legittimare scelte fatte dall'assemblea degli amministratori locali e difficilmente ribaltabili da un'assemblea cui paternalisticamente si rivolge esigendo crediti di fiducia in bianco. Crediti che la gente è sempre meno disponibile a concedere. Ne consegue che il Comitato istituzionale ha gradualmente cessato di essere il luogo in cui si definiscono gli obiettivi del movimento ma è oggi uno dei quattro luoghi della rappresentanza del movimento No Tav.
Gli altri sono il Coordinamento dei Comitati No Tav, l'assemblea generale di valle e i vari presidi permanenti.
Il Coordinamento che riunisce i Comitati No Tav della valle, di Torino e dei paesi della gronda è sempre più uno dei luoghi in cui si definiscono obiettivi, strategie ed iniziative. All'interno del Coordinamento la partecipazione diretta dei singoli è molto forte, così come la consapevolezza che la modalità decisionale migliore è la ricerca del consenso su una sintesi condivisa.
Le periodiche assemblee generali di valle, cui prendono parte ogni volta dalle 500 alle 1500 persone, sono di fatto gli strumenti di autorganizzazione più forte. Anche in questo caso la partecipazione diretta è ampia, anche se hanno un maggior peso le capacità comunicative individuali. Passata la fase mediatica del movimento, si sono dileguati nelle nebbie torinesi i vari esponenti politici e sindacali che individuavano nel No Tav un'occasione su cui piantare il cappello.
Infine vi sono i presidi, luoghi di socialità intensa e di confronto informale ma continuo.
In occasione delle Olimpiadi di Torino, Ferrentino e soci hanno promosso, sponsorizzati dal Manifesto e dalla sinistra CGIL, il forum “Il grande Cortile”. Scopo dichiarato dell'iniziativa raccogliere in un'unica assemblea rappresentanti dei vari movimenti di opposizione alle grandi opere – dal Ponte, al Mose, alla Romea, al Terzo Valico… – per delineare le prospettive di un movimento ampio su scala nazionale. Nei fatti si è trattato di tre giorni di vetrina politica – in chiave indirettamente elettorale – per lo stesso Ferrentino e per i suoi padrini politici. La forma assembleare era solo il contenitore di una kermesse decisa a tavolino, senza alcuna reale velleità di aprire un confronto, ma mirante alla rilegittimazione di un ceto politico di valle che ha perso parte del suo smalto. Interessante l'atteggiamento del movimento anche in occasione di questo strombazzatissimo “evento”. Tutti sono passati a dare un'occhiata alla vetrina, ma sebbene nessuno abbia osato infrangerla, non si può dire che vi sia stata ressa per acquistarne la merce.
Quello che emerge dopo le accelerazioni degli ultimi mesi è un movimento sempre più maturo, autonomo, capace di definire con chiarezza i propri obiettivi. Interessante il rifiuto di partecipare con una lista No Tav alle elezioni. Ma ancor più interessante la consapevolezza della sostanziale equivalenza degli schieramenti in campo e, anche se quasi certamente non ne conseguirà una scelta astensionista diffusa, tutti sanno che la partita della Val Susa si vince o si perde sui campi Venaus, si vince o si perde nella capacità di mantenere l'autonomia delle assemblee e dei comitati dal quadro politico istituzionale.