Desjardins: di giardini e foreste, di riviere
e di scorie
Richard Desjardins s'è rivelato, già quarantenne e perfettamente maturo, col disco Tu m'aimes tu (sia detto en passant, un capolavoro) e da allora non ha mancato un colpo e soprattutto è stato ben più che “un altro cantante”.
Un maître à penser schivo e riservato, un saggio che ha tanto da insegnare ma che non fa nulla per inculcartelo. Te lo devi cercare attentamente Desjardins, e anche allora l'unica cosa immediata è il suo talento, il resto, cioè il fatto di essere un pilastro, un punto di riferimento e una bella speranza, lo devi capire tu ascoltandolo con fatica e con amore.
La canzone quebecchese, ovvero la canzone dei francofoni canadesi (un popolo di circa nove milioni di persone sparpagliate su un immenso territorio) è stata un'arma e uno strumento di riconoscimento e di adesione alle proprie radici. Lontani dalla Francia, l'antica patria culturale, la colonizzatrice originaria, da cui son sempre stati guardati con un misto di paternalismo e condiscendenza, vicini soprattutto (e per secoli duramente oppressi) alla maggioranza anglofona del Canada, che riverberava l'invasione culturale dallo strapotere statunitense, i québécois hanno intrapreso un grande atto di auto-riconoscimento culturale e politico solo a partire dal secondo dopoguerra, e in particolar modo dagli anni ’70, con quel fenomeno che passa sotto il nome di rivoluzione tranquilla.
In questa sorta di rivoluzione la canzone ha giocato un ruolo primario, spesso scontrandosi con l'ostilità e la censura dei media e del governo centrale, diffondendo con le sue proprie doti di straordinaria unità, linguaggio, pronuncia, epica, idee e aspirazioni di un popolo.
Non solo: i pilastri di questo fenomeno sono stati giganti tout court, e il loro straordinario lavoro ha rinnovato la canzone francese anche in Europa. I nomi del pioniere Felix Leclerc – a detta di Desjardins l'Atahualpa Yupanqui del Quebec – e poi di Gilles Vigneault, di Jean-Pierre Ferland, di Pauline Julienne, di Robert Charlebois, ecc… sono quelli di grandi figure che meritano tutte e singolarmente la nostra attenzione.
Essere cantanti in Quebec, dunque, è più che essere un cantante.
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Richard Desjardins |
La canzone del Quebec ha ritrovato, con Richard Desjardins, un artista di grande talento poetico, con una notevole capacità sperimentale linguistica, un musicista compiuto, raffinato ed energico, ma soprattutto un testimone delle belle idee.
Desjardins, non appena conquistato – e con quanta fatica e abnegazione! – un pubblico vasto, senza mai cedere a lusinghe e a compromessi, s'è fatto propugnatore di un patrimonio culturale altro, s'è fatto agitatore di mille battaglie politiche ed ecologiche di sensibilizzazione sul tema della deforestazione selvaggia, s'è fatto rappresentante del genocidio dei nativi americani, soprattutto dell'etnia Algonchina di cui è ancora presente una sparuta minoranza proprio nel territorio cui il cantante appartiene e di cui si occupa.
Tutto questo, lo dicevamo, con un'azione da vero poeta e non da politico; da uomo che riesce a tenere assieme la radicalità e l'inflessibilità dei suoi propositi con un carattere schivo sospettoso e refrattario alle sirene del successo e alle tentazioni divistiche.
Le tappe della sua galere (è così che i francesi chiamano il lavoro faticoso e sottopagato, quindi, nel caso dei musicisti, la gavetta, i cachet miserabili, ecc…) sono presto rintracciabili.
Desjardins è nato nel 1948 in una regione selvaggia del Quebec, l'Abitibi, da una famiglia non facoltosa ma appassionatissima di musica. Nella minuscola casa la madre considerava sacra ogni ora passata dal piccolo Richard al pianoforte, tanto che in quelle ore nessuno era autorizzato a disturbarlo e lui spesso si rifugiava nel pianoforte come in un giardino segreto.
I primi impegni musicali furono come pianista accompagnatore del fratello che cantava il repertorio dei grandi francesi Brel, Becaud, ecc… nei cabaret locali.
Richard si sentiva però assai più attratto, oltre che dalla musica classica di cui s'era abbeverato studiando pianoforte, dal Rock, dal Blues e da quanto proveniva dalle radio anglofone.
Sulla scorta di tali ascolti fonda a metà degli anni ’70 il suo gruppo Abitibi, per cui scrive testi e musiche, oltre a cantare e a suonare piano e chitarra.
Trasferitisi tutti a Montreal nel tentativo di cogliere l'opportunità di sfondare nella capitale francofona canadese, comincia a frequentare anche l'ambiente cinematografico. Il gruppo registra qualche disco e fa qualche concerto, Richard compone qualche colonna sonora, ma nulla di rilevante accade.
Negli anni ’80 Desjardins comincia a dare concerti in formula solista, con la sola chitarra o col pianoforte. Le sue canzoni risentono nondimeno dell'atteggiamento prog-rock con cui sono state composte. La straordinaria bellezza melodica, la ricchezza dell'accompagnamento, che la sobrietà dell'unico strumento esalta piuttosto che deprimere, la voce che morde le parole con un timbro nasale alla Bob Dylan, e che però si arrampica con maestria su melodie anche molto complesse e difficili, fanno capire che l'artista ha oramai acquisito una grande padronanza dei suoi mezzi espressivi.
I concerti aumentano, il materiale che Richard propone è bellissimo, ma i produttori che non avevano creduto nel rocker, ancor meno credono nello chanteur à texte.
Desjardins si convince così che la sua strada è l'autoproduzione e nel 1989 registra con uno studio mobile, in una cappella e con un suono meraviglioso, il disco che, lo dicevamo all'inizio, gli darà la fama: Tu m'aimes-tu. Con questo arriverà nel tempo a vendere centinaia di migliaia di copie, guadagnando così tanto da inaugurare una piccola casa di produzione per le sue successive registrazioni: Les derniers humains (composto da materiale precedente a Tu m'aimes-tu) nel 1990, Boom boom nel 1997 e Kanasuta nel 2003.
Tali produzioni discografiche, come si vede distillate con parsimonia, sono tutte indispensabili, marcate dalla personalità di un poeta-musicista che oggi è fra le più autorevoli dell'intera scena francofona e che comunque non teme confronti nella storia della canzone d'autore.
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Richard Desjardins |
I testi di Desjardins sono densi, sentimentali, sarcastici; in bilico, a volte con brusche sterzate, fra la metafora più ardita e un crudo realismo.
La sua scrittura riesce a entrare in strutture musicali complesse, ma si caratterizza per una purezza formale che fa pensare ai poeti rinascimentali.
Le canzoni di Desjardins sono fra quelle in cui la gestione dei pieni di parola e dei vuoti sonori è più equilibrata.
Già solo sul suo modo d'accompagnarsi al pianoforte ci sarebbe da scrivere un trattato.
Il tema principale del suo scrivere è il buio ancestrale da cui proviene la cultura della sua terra; una bruciante memoria, una ragione di rivendicazione e di lotta, che permea anche alcune delle sue canzoni d'amore, come Nataq, folgorante cavalcata che si apre al ricordo incandescente della mitologia indiana, fondendo e confondendo sensualità e rivendicazione.
Tu sei questo sole accecante le stelle, quando parli al morente il dolore è anche dolce
(…) Tu sai che non posso sognarmi vivo senza te
Nella memoria delle acque in cui mi son bagnato
E ora che vivo e che sogno insieme e tutto il mio essere ti desidera per ultima
Ma sono così preoccupato che la luce ritardi che sempre di più il silenzio m'opprime
Apri gli occhi e vedi che i lupi ci guardano e che hanno già scelto vittima e momento
Ed ecco che fugge in un cielo oscurato il respiro di Shaman soffocato di rimorso
Trema di paura, ha le dita consunte, e mentre io ti amo si appella alla morte
Se le morte si azzarda a soffiare fin qui nelle brume finali in cui termina il mondo
(…) O Nataq adorata, il mio cuore ha capito, che muoio di morire sul campo funesto
Sì, noi siamo perduti, più di ciascuno. Sì, noi siamo perduti, però ancora viventi.
Al tuo segno, alla voce, raccogli sotto la tua lancia
Mandrie di bisonti votati al sacrificio
Quando esploderà una luna d'abbondanza
Di tempeste di frutti perché viva il tuo figlio.
Il tuo destino è il mio; non mangeremo più, ci sprofonderemo in savane interiori
E tu infiammerai il mio desiderio puro e duro
Finché urli la tua gioia e tu mangi il mio cuore (…)
Più evidentemente marcata dalla tematica della lotta è la canzone, fortemente narrativa, Les Yankees, caratterizzata da alcune intuizioni geniali: l'uso del franglais (il francese sporcato di anglismi), il cortocircuito spazio/temporale che fonde indios sudamericani e indiani canadesi, la memoria del genocidio ottocentesco accostata al imperialismo dei nostri giorni (tanto che in una recente versione live, la canzone è preceduta da un monologo sulla guerra in Irak).
La notte dormiva nel suo acquaio, le capre bevevano al fiume
Andavamo per il destino vivendo ancor più forte
Malgrado i barbari e l'ansia.
Sapevamo che un giorno sarebbero arrivati a colpi d'asce, a botte di tasse
A traversarci il corpo da parte a parte. Noi il popolo degli uomini sulla terra.
Il vecchio Achille ci ha detto: “Stasera c'è un silenzio sospetto
Amici, io resto di sentinella, andate a dormire in pace”
Non era lo scoppio del tuono, né lo scorrere del fiume
Ma il galoppo di migliaia di cavalli all'assalto nell'occhio della sentinella.
E mentre tutti nelle tende sprofondavano nel sonno
“Sveglia, sveglia! Arrivano gli Yankee, arrivano gli Yankee
Easy com, visigoti. Ecco i gringos!”
Attraversarono il campo e disposero le armi
Uno fra di loro impugnando la colt in mano avanza con un megafono
“Siamo inviati dal Big Controllo” Il laser vibrava verso il Polo
“Abbiamo conquistato tutto, tutto, tutto, fino al ghiaccio delle galassie
Il presidente m'ha ordinato di pacificare il mondo intero. Veniamo da amici!
Bene! Ora che ho chiarito questo arrendetevi, perché prima che sia notte
Dobbiamo tornare in Virginia!”
Arrivano gli Yankee, arrivano gli Yankee. Easy com, visigoti. Ecco i gringos!
“Ora conto fino a tre e poi ci prendiamo le vostre donne, il grano, le bestie e l'uranio
L'oppio e il canto dei vecchi. Tutto ormai ci appartiene
E se non avete capito, conterò fino a tre. E per le notizie c'è la NBC
Tell me my friends, chi è il vostro capo? Si alzi in piedi.”
E il sole si levò in cielo.
“Hey Gringo! Escucha me, Gringo! Abbiamo attraversato i continenti
Oceani infiniti sopra zattere tenute assieme dai sogni
Ed eccoci in piedi e vivi, figli del sole abbacinante
Con la vita riflessa nella lama dei nostri coltelli
America, America! Se il tuo drago pazzo s'annoia
Vieni qui che lo sgozzo. Il tuo presidente, i suoi milionari
Resteranno impiccati sulle nostre labbra.
Gringo, non avrai niente di me!
Della mia memoria di titano, della mia memoria di bambino
È già da un po' che t'aspettavo. Vattene gringo, sparisci!
La notte dormiva nel suo acquaio, le capre bevevano al fiume
Andavamo per il destino vivendo ancor più forte
Malgrado i barbari e l'ansia.
Desjardins non si limita però a comporre canzoni e dare concerti fra un disco e l'altro. Negli anni ’90 ha diretto un impressionante film documentario sul saccheggio sistematico che le compagnie del legname stanno operando ai danni della foresta boreale, devastando un patrimonio dell'umanità è una risorsa della vita e del futuro. È un documento indispensabile, un'opera necessaria e coraggiosa, un pugno nello stomaco. Richard pone domande imbarazzanti ai magnati del legno, lancia accuse pesantissime al governo, getta ombre inquietanti sul futuro.
Pochi mesi fa è uscito un DVD che unisce le riprese di un concerto che è la summa della sua arte a questo documentario, come a testimoniare l'impegno e il riscatto di un'arte resistente e combattiva, etica ed estetica, rivoluzionaria e meravigliosa.
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
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