Nel 1548 Etienne de la Boétie scriveva un libricino, Le discours de la servitude volontarie, nel quale sosteneva che le radici del dominio stanno in chi lo subisce piuttosto che in chi lo esercita.
Questa tesi mi appare oggi sempre più veritiera. La ragione è essenzialmente una: come spiegare altrimenti che gli esseri umani possano accettare di subire ogni sorta di violenza e malefatta senza ribellarsi. Naturalmente non tutti restano inermi di fronte alla sopraffazione ma è fuori dubbio che la maggior parte di uomini e donne subisce per anni tante forme di dominio senza quasi mai, se non per limitati e contingenti momenti, trovare la forza di opporsi.
Cercare di capire perché ciò succeda mi pare di essenziale importanza per chi come noi sogna e desidera un mondo migliore di questo e di quelli che lo hanno preceduto e soprattutto desidera ardentemente dei rapporti umani regolati da altri valori e altre modalità, relazioni fondate su presupposti antiautoritari ed egualitari.
Le ragioni più note di questa passività sono quelle classiche relative al peso che i condizionamenti economici, culturali, sociali, educativi, hanno nel formare personalità sempre più accondiscendenti e passive. Ma queste spiegazioni non mi soddisfano compiutamente, occorre urgentemente capire altri aspetti del problema, indagare più in profondità, soprattutto perché nessun vero e significativo cambiamento può concretizzarsi e durare nel tempo se non è profondamente interiorizzato e fatto proprio da ogni singolo individuo.
Recentemente mi sono trovato nel lager di Mauthausen in Austria e la guida spiegava e illustrava i luoghi dell'orrore con precisione e sensibilità sicuramente non comune ma non riusciva a capacitarsi perché le stesse persone che di giorno commettevano ogni sorta di indescrivibili orrori, la sera, come normali e pacifici lavoratori, uscissero dal campo e in strutture adiacenti, all'uopo edificate, consumassero le loro serate praticando sport, giocando al casinò, ascoltando musica, ecc. Così come accadeva negli altri luoghi dell'orrore ad ogni latitudine e sotto ogni bandiera, così come apparve chiaro nelle riflessioni di una sottile e straordinaria filosofa come Hannah Arendt, quando assistendo al processo ad Adolf Eichmann a Gerusalemme, lo descrisse come l'uomo della porta accanto, l'uomo qualunque, senza alcun tratto che lo potesse differenziare in maniera significativa appunto da colui che condivide il pianerottolo del palazzo in cui vive.
Non volendo accontentarmi della facile, e magari strumentalmente rassicurante, spiegazione circa la naturale malvagità della natura umana, mi pare indispensabile dare una risposta a queste domande, senza la pretesa di darne di ultimative ma, almeno, darne più che possibile per permettere poi una presa di coscienza e una conseguente lotta per la rimozione delle cause possibili appunto per la formazione della logica del dominio e del potere.
Già, perché? Perché accade tutto questo? Perché?
Spontaneo atto di volontà individuale
Non vi può essere vero cambiamento, l'esperienza storica ce lo conferma in modo inequivocabile, se non si accompagna (se non preceduto?) da un significativo cambiamento del proprio immaginario e della propria percezione circa il posto e il significato dello stare al mondo in maniera attiva, responsabile, libera. Senza uno spontaneo e poi consapevole atto di volontà individuale non vi è mutamento possibile, non vi è neppure attivazione di un processo collettivo di cambiamento.
E poi mi pare di poter dire che non è sufficiente compiere questo atto di volontà una volta per tutte, ma è indispensabile rinnovarlo quotidianamente. Ma come è possibile fare tutto ciò vivendo dentro un mondo che non incoraggia certo la responsabilità e la libertà individuale, un sistema di vita che promuove valori, comportamenti, relazioni, dipendenze tutt'altro che consone ad un progetto di cambiamento profondo e sincero delle condizioni esistenziali e di vita di ogni individuo.
C'è chi ha pensato di fuggire via, di isolare la propria esistenza da quella degli altri, di costruirsi un proprio piccolo mondo alternativo, ma non tutti sono disposti a ciò, non tutti desiderano un ritorno ma preferirebbero non rinunciare a ciò che rende la vita meno difficile da sopportare. Mi pare di poter dire che ognuno dovrebbe poter sperimentare la propria via senza pretendere che essa sia la vera strada, l'unica alternativa, la confortante nuova certezza della quale nutrirsi. Ma quando siamo arrivati a questo punto mi pare che siamo già andati avanti abbastanza.
Il problema è capire perché non scatta questo desiderio di cambiamento nonostante che nel corso della storia, anche quella recente, fenomeni e situazioni forti e significative abbiano trovato espressioni e manifestazioni che avrebbero potuto accendere la scintilla, innescare la miccia interiore. Invece calma piatta, con buona pace dei rivoluzionari immaginari, quelli che si pensano sempre alla vigilia di qualche situazione catartica pronta a creare il regno del bene e dell'utopia domattina, anzi subito.
Forse è il caso di cominciare a pensare, cari rivoluzionari di professione, cari illusi portatori di devastanti frustrazioni, di nuove forme di potere e di dominio, che cambiare è difficile, faticoso, lento e spesso terribilmente rischioso per tanti esseri umani e che se il cambiamento non è condiviso è necessariamente imposto, dunque non dovrebbe interessarci, come sempre la storia delle rivoluzioni dovrebbe averci insegnato. Le nostre idee, scriveva il vecchio Malatesta, non sono che una piccola parte delle idee degli esseri umani e pertanto dobbiamo averne una piena consapevolezza, non certamente per abdicarvi ma per viverle con la coscienza che con altre esigenze, altri sogni, altre speranze dobbiamo convivere tracciando il limite ogni qualvolta sia necessario, definendo il confine oltre il quale non si può andare, pena la nostra scomparsa.
Il cambiamento possibile
Che fare allora quando “come il pesce muore appena fuori dell'acqua, così quelli (i sottomessi, N.d.A.) chiudono gli occhi alla luce del mondo, per non vedere la loro servitù” (De la Boétie), come capire e spiegare questa abdicazione alla propria libertà?
Credo che si debba essere consapevoli che ciò che desideriamo e che proponiamo, ciò per cui ci battiamo nella nostra vita quotidiana di libertari, non è cosa di poco conto come potrebbe apparire a noi. In questo mondo così edonista, fatto di illusioni costruite artificialmente, di tante falsità e di continui perbenismi, la maggior parte degli individui si riconosce poco nella propria specificità, tende a trovare nella massificazione quelle condizioni che permette loro di condurre una vita ritenuta accettabile e, soprattutto, molti pensano veramente di poter migliorare la propria condizione materiale ed anche spirituale attraverso le opportunità di questo mondo.
Non serve a niente, anzi, aggredirli, umiliarli, disprezzarli. Occorre dimostrare loro con i fatti semplici e quotidiani che un diverso mondo è desiderabile non attraverso sterili proclami, azioni esemplari, ma, piuttosto, offrendo a questi esseri infelici (così noi pensiamo, ma siamo proprio sicuri che lo siano?) momenti, spazi, tempi, modalità, di incontro, di ascolto, di sostegno, di solidarietà, di coerenza, che dimostrino come un nuovo sogno non si trasformi in un terrore. La paura che attanaglia e soffoca la pulsione al cambiamento, alla ricerca della felicità, non può essere derisa, alimentata, combattuta attraverso la violenza della propria ostentata diversità. Il desiderio di cambiamento può essere una necessità, percepito come inevitabile, ma non è sufficiente a trasformare in miglioramento una situazione deprecabile, occorre sia accompagnato da una consapevolezza responsabile la quale non può che derivare da una presa di coscienza profonda, etica, personale.
Il cambiamento è sempre possibile, spesso necessario, ma deve essere coerente con i valori che si proclamano e, soprattutto, insisto, non può mai essere imposto. Certo talvolta fatti eclatanti, azioni esemplari, possono svelare la falsità di cui sono intrise le strutture del dominio, ma questi non dovrebbero mai contraddire i principi che vogliamo affermare.
Occorre insomma anche, non solo, naturalmente, un grande lavoro su noi stessi, un continuo uscire da questa realtà di violenza diffusa, ogni volta che il limite diventa insostenibile, una secessione individuale e collettiva, ma anche un continuo ritorno dentro un mondo che pure non ci appartiene, perché senza questo mondo e senza gli esseri umani che lo abitano, non vi è mondo possibile. L'importante è starci a modo nostro, senza velleità e fughe in avanti, senza aizzare la latente paura che sovrasta gli individui. Questi uomini e queste donne, gran parte di essi, sono quelli con i quali, che ci piaccia o no, dobbiamo cercare di affermare il diritto individuale a vivere una vita degna di essere vissuta.