Tormentate visioni
di L. Kerrigan
Partiamo subito da un avvertimento: i film di Lodge Kerrigan non sono una passeggiata. Chi vuole rilassarsi, scelga qualcos'altro. Chi cerca risposte immediate, continui la sua scampagnata. Ma se siete pronti a un'esperienza angosciante, a uscire dal cinema storditi e disorientati, cercate a tutti i costi di vedere almeno un film di questo filmmaker newyorkese di 42 anni.
Il coraggio di Lodge Kerrigan sta proprio qui: nel mettere lo spettatore in una posizione scomoda, scegliendo di non rassicurarlo, ma di dargli la libertà di decidere la verità dei personaggi. Lo costringe a mettersi in discussione, a sentire l'inquietudine dei suoi protagonisti in maniera talmente "sintomatica" da avvertire il dolore fisico di un taglierino che asporta un'unghia (Clean, Shaven).
E il pubblico in sala si rivolta nelle poltrone, in un'ora e mezza asfissiante, di sentimenti contrastanti per il protagonista della pellicola: identificazione e rifiuto, tenerezza e rigetto, attrazione e risentimento al contempo. Chi non è pronto può sempre alzarsi e uscire dalla sala.
Le storie di Kerrigan rimangono dentro proprio perché innescano un lavoro interiore e doloroso, sulle nostre comodità, sulle certezze acquisite, sulla paura di ciò che non conosciamo.
E in tutto questo c'è un grande rispetto per lo spettatore, quel rispetto che manca nelle commedie con happy end, in cui personaggi fintamente sfaccettati seducono il pubblico dandogli l'illusione di essere intelligente.
È il cinema che amiamo perché fa male. Un cinema difficile, senza soluzioni e con tante domande che si ripresentano anche fuori dalla sala, quando le luci si accendono e torniamo alle nostre vicende quotidiane che si intrecciano col degrado delle città, quando solitudini smarrite cercano di mettersi in salvo, riaffermando con un grido la propria esistenza. E se la prima reazione di fronte all'emarginazione è il rifiuto, siamo costretti a tornare sui nostri passi, a scandagliare i pregiudizi e metterci in discussione, ricordarci che abbiamo torto, risalire alla fonte del giudizio facile, affrettato, razzista, sessista.
È quello che ha fatto Kerrigan dando vita al suo secondo film, Claire Dolan, e ce ne ha parlato alla conferenza stampa del 23° Torino Film Festival (novembre 2005).
L'idea è nata durante la fase di montaggio di Clean, Shaven (1994) che si svolgeva vicino a Times Square, prima che la zona venisse "ripulita". In quel periodo c'erano molte prostitute e alcune erano incinte. Lodge dice di aver provato un certo fastidio e di aver voluto capire da cosa questo fastidio nascesse. Non era certo il concetto della prossima maternità a metterlo in imbarazzo né la presenza delle prostitute. Doveva essere allora la combinazione delle due componenti. Ha scoperto così che questo stato d'animo nasceva da un pregiudizio maschilista, un sentimento che non poteva accettare. Da qui l'idea del film che ha come protagonista una prostituta che cerca di cambiare vita.
In sintesi: Lodge ha scoperto di avere un pregiudizio e per combatterlo ci ha fatto un film. Un "processo" ammirevole e decisamente raro di questi tempi.
Avremmo proprio bisogno di altri registi capaci di quest'onestà intellettuale nel seguire percorsi scomodi.
Lodge ci dimostra anche, con certezza, che il cinema non può essere intrattenimento, ma necessità, dolore, dura realtà. Non c'è spazio per fronzoli e accessori. E più che mai ce lo dimostra con Keane, il suo ultimo lavoro, che anche in fase di realizzazione ha avuto tutte le caratteristiche di una performance live, più che di un set chiuso in cui si gira un'inquadratura, il totale, un dettaglio. Nelle riprese a Port Authority (New York), infatti, non c'è alcun set allestito, lo scenario è reale, con le centinaia di lavoratori pendolari che salgono e scendono dai pullman durante la giornata.
E in tutto questo, c'è molta semplicità, c'è l'umiltà di un regista che ha girato tre film andati a Cannes, proiettati a Vancouver, Istanbul, Buenos Aires, Dublino, e a cui vengono dedicate retrospettive in tutto il mondo.
Alla fine del suo incontro col pubblico, Kerrigan rispondendo a una domanda sul cinema indipendente, conclude parlando di maturità. Ed è forse la qualità che apprezziamo di più, insieme al coraggio, in questo regista che non ha paura di rischiare e di angosciare il pubblico.
Serena Zanzu
Quali
minoranze
È appena uscito per i tipi di Elèuthera Da pochi a pochi (appunti di sopravvivenza) di Goffredo Fofi, critico cinematografico e letterario, ma soprattutto partecipe dagli anni ’50 ad oggi a molte esperienze di intervento sociale ed educativo, nonché fondatore e direttore di riviste di interesse culturale e politico (ultima “Lo Straniero”)
Ecco l'introduzione dello stesso Fofi.
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Si scherzava, anni fa, attorno a un nostro possibile slogan: «Minori, minorati, minoritari di tutto il mondo unitevi!». Ma non lo abbiamo mai usato, in nessun articolo e in nessuna occasione, ed è perché non ne eravamo veramente convinti. C'è minore e minore, c'è minorato e minorato, c'è minoritario e minoritario...
È stato giusto che si lottasse per i diritti di minoranze e parti della società vilipese, trascurate, oppresse da maggioranze conformiste e imbecilli o, più semplicemente, maggioranze attaccate ai propri privilegi e pronte a difenderli senza rispetto per nessuno. Bene, è stato fatto – non completamente, non dovunque; e dove ancora la disuguaglianza è grande, dove l'oppressione è ancora forte, è giusto che si continui in questa azione, su questa strada. Ma con una esigenza ulteriore, dettata da una coscienza più chiara che è nata via via dalla nostra partecipazione o, quando questa non era possibile, dal nostro voler capire e dal nostro voler aiutare con gli scritti e le parole le minoranze etniche, religiose, politiche, sessuali schiacciate in vario modo da maggioranze prepotenti e aggressive. Questa ulteriore esigenza è nata anche, talvolta, dalla coscienza dei limiti di questa nostra solidarietà e partecipazione, limiti che abbiamo avvertito nella nostra stessa convinzione e di cui talora quasi ci siamo vergognati per il fatto stesso di sentirli.
In breve: non ci soddisfa appieno, o non ci soddisfa più, un concetto di minoranza, diciamo così, di «nascita» e ci rendiamo ogni giorno di più conto della sua insufficienza, e rivendichiamo la possibilità di giudicare anche le minoranze non dal fatto che siano tali, ma dalle loro idee, dai loro progetti, dalle loro azioni e dal loro rapporto con altre minoranze (anche avversarie!). Dai modi del loro agire.
In breve: ci identifichiamo con le minoranze etiche presenti all'interno delle minoranze etniche, religiose, politiche, sessuali...
Non vogliamo più dare la nostra solidarietà e il contributo pur piccolo o minimo, quello che possiamo, a minoranze che si comportano – o sappiamo che molte probabilmente si comporteranno – nei confronti di altri con gli stessi metodi che condannano in chi oggi le opprime; che di fatto sembrano sognare nuovi oppressi stavolta sotto il loro giogo, in un rovesciamento puro e semplice del gioco del potere e del comando. Non ci schiereremo dunque con gli ebrei o con gli arabi, i cattolici o i protestanti, gli israeliani o i palestinesi, i castigliani o i baschi, i tutsu o gli hutu, gli inglesi o gli irlandesi, i turchi o i curdi, i bianchi o i neri, i maschi o le femmine, gli etero o i gay, i rossi o i neri, i gialli o gli azzurri, i grassi o i magri, i giovani o i vecchi... ma con quella parte di queste parti contrapposte che ci sembri davvero rispettosa del diritto all'esistenza e alla pari dignità per l'altro da sé, per il «nemico».
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Goffredo Fofi |
La logica tribale di questi anni – dalle guerre in ex Jugoslavia alle lontane Asie, dall'Africa nera alle nostre periferie – non deve assolutamente appartenerci, e nostro compito deve essere quello di trovare prima e allearci poi con quella parte della varie minoranze che sentiamo «nostra». Per esempio, non con «gli israeliani», e tantomeno cogli israeliani di destra o anche di centro, ma gli israeliani «di sinistra»; non con «i palestinesi» in quanto tali, e tantomeno quelli accecati dal nazionalismo e dal fondamentalismo tal quale gli israeliani (nella convinzione peraltro che dietro questi poteri ci sono poteri stranieri – gli Usa o parte degli ebrei della diaspora, gli Stati arabi o le sette religiose più ottuse – che spingono finanziano armano esigono la contrapposizione frontale tra questi due popoli, per i loro interessi tutt'altro che limpidi e generosi!), ma i palestinesi «di sinistra», altrettanto pochi e soli degli israeliani, mentre la solidarietà, per esempio, della nostra sinistra è andata e va ciecamente e visceralmente nella direzione della contrapposizione di un potere contro un altro potere, di una «etnia» contro un'altra «etnia», secondo logiche di derivazione più stalinista che socialista.
E via dicendo, minoranza per minoranza, dentro un meccanismo di cui occorre contribuire a cambiare il corso, perché altrimenti ogni acritico «schierarsi con» e «schierarsi contro» non potrà che riprodurre disastri: catene di odio, sangue, guerra. Non ci convincono le «donne» e i «gay» in quanto tali, ma certa parte delle donne e dei gay; non gli inglesi o gli irlandesi, ma certa parte degli inglesi e degli irlandesi; eccetera. E il ragionamento non è a ben vedere diverso da quello dei nostri lontani padri socialisti, è quello dell'internazionalismo proletario che distingueva tra i proletari e gli Stati a cui i proletari appartenevano, e non si schieravano né con gli Stati né con le razze, le Chiese, i sessi, perfino i partiti...
Il concetto stesso di minoranza va riveduto alla luce di quanto è accaduto nelle minoranze degli ultimi quarant'anni. Contro ogni fondamentalismo e ogni retorica dell'identità, ogni fanatica esaltazione della differenza, ogni bisogno di avere – per sentirsi vivi, per giustificarsi – un nemico.
Goffredo Fofi
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