Il nord est dell'Italia è lo specchio attraverso il quale possiamo riconoscere alcune caratteristiche peculiari della cultura dominante.
In quasi tutti gli ambiti della vita sociale, nelle città e nei paesi di quest'area geografica, è possibile trovare degli elementi particolarmente significativi che possono rivelarci, in maniera più o meno palese, le peculiarità e le identità di un sistema di relazioni sociali più ampio e più diffuso. È chiaro che in altri contesti, le forme espressive della cultura delle popolazioni possono essere anche significativamente diverse, ma mi pare interessante identificare alcune caratteristiche che dimostrino il grado di penetrazione raggiunto da alcuni valori.
Nel Nord-est è evidente e incontrovertibile che la cultura è unica, senza che nessuna differenza significativa caratterizzi ceti, gruppi, età, pur diversi.
Questa cultura è quella dominante, quella del consumo, dell'apparire, del competere, quella che ha omologato tutti attorno a dei riferimenti e a dei simulacri che hanno ormai penetrato l'animo più profondo e intimo di ogni essere umano. Basta stare tra le persone al supermercato, al lavoro, nelle occasioni di divertimento, nei dibattiti politici, nelle feste e nelle sagre paesane, nella passeggiata del sabato tra le vie di una qualsiasi città o paese, nei bar e nelle osterie, nelle scampagnate domenicali. È sufficiente lasciarsi toccare e anche solo sfiorare da ogni momento di vita sociale per rendersi conto che ormai nessuna differenza significativa esiste tra l'operaio di una grande fabbrica, l'artigiano, la commessa, l'operatore finanziario, l'avvocato o il commercialista, la casalinga o il commerciante, l'impiegato o il contadino e tra i loro figli.
Tutti vivono o aspirano a vivere nello stesso identico modo, secondo gli stessi schemi, seguendo i medesimi miti, nutrendo speranze e alimentando desideri assolutamente uguali.
Questo è il trionfo di una cultura di massa che ha rivoluzionato in modo totale milioni di vite e ha creato i presupposti concreti per la sua perpetuazione attraverso un'opera di profonda penetrazione in ogni essere umano. Insomma è una cultura totalizzante che ha colonizzato i desideri oltre che le abitudini. Questa è stata una vera rivoluzione, questa è stata ed è la specificità di questa trasformazione epocale. Mai nel corso della storia il mutamento è stato così radicale, vero, profondo e mai questo cambiamento ha assunto i connotati di un desiderio più omologante.
Mostruosamente
difficile
Se questo è vero, naturalmente nella sua essenza, è necessario e più che mai urgente, porsi delle domande, cercare delle risposte, formulare delle ipotesi, ma, soprattutto, uscire da schemi obsoleti, abbandonare interpretazioni vecchie e rassicuranti, disertare luoghi comuni del pensiero, magari politicamente corretti, ma fallaci e patetici nel loro svolgersi.
E tutto questo non è facile, anzi è mostruosamente difficile, complicato, persino rischioso, perché la suadenza strisciante di questa cultura è potente, sottile, ammaliante.
Tutti i fenomeni sociali che caratterizzano questa epoca sono in questi luoghi presenti e rappresentano con dovizia di particolari la scena del teatro della convivenza. Un esempio su tutti (non certamente l'unico) è l'arrivo massiccio di tanti uomini e donne, bambini e bambine, da altri paesi e di come questo sia avvenuto, quali reazioni contrastanti, violente, difficili, abbia provocato tra richieste forti di manodopera dequalificata delle imprese, tra reazioni xenofobe radicali, tra pietismo assistenzialistico, tra ideologizzate e spesso neo-coloniali manifestazioni di apertura, tra scontri di inaudita violenza tra religioni e all'interno delle stesse famiglie degli immigrati, con però una tendenza sempre più diffusa di ulteriore omologazione, con begli esempi di vero e rispettoso incontro. Insomma un crogiuolo di varietà e di contraddizioni dentro alle quali, comunque, regna sovrana la medesima cultura e l'accanita difesa della propria presunta superiore specificità.
Un altro aspetto attraverso il quale si manifesta questa comune (a tutti i ceti e a tutte le età) cultura è quello della doppia morale ormai estesa e penetrata in ogni realtà. Sia che si tratti di questioni generali e etiche, sia che si discuta di comportamenti sociali, vige una sorta di doppia velocità, di schizofrenica valutazione: una pubblica, identitaria, di appartenenza obbligata a un sistema ufficiale di valori, un'altra privata, intima, comoda traduzione personale di ogni morale. L'esempio più eclatante è la comparsa periodica nei giornali locali delle dichiarazioni petrarchesche accompagnate a cronache boccaccesche di cui il nord est è esempio quanto mai ricco e variegato. Ma questo modello di relazioni, di moralità, di convivenza, non è patrimonio esclusivo di categorie rampanti, di imprenditori e manager in vista, ma è costume diffuso e desiderio esteso. Poco importa che la doppia moralità sia consumata in private ed esclusive alcove del sesso o nelle squallide esibizioni delle “lap dance” da mille lire (pardon, ora da due euro).
La rivoluzione della massificazione totalizzante ha vinto su ogni resistenza perché ha colonizzato i desideri generando la più grande ed esclusiva trasformazione sociale che la storia abbia conosciuto, nonostante le grandi rivoluzioni del passato (che poi sono tutte miseramente fallite), a prescindere da ogni dichiarazione d'intenti, da ogni proclama. È una rivoluzione tutto sommato silenziosa, senza proclami, senza schieramento di truppe, senza eserciti più o meno popolari, ma straordinariamente insinuante, sottile, appetibile, desiderabile, e per questo più efficace, vincente.
Questa cultura è il biglietto da visita di esseri umani che fin dalla nascita, anzi ancor prima, li introduce in una società che si presenta come la più egualitaria della storia, quella che rende tutti uguali nelle apparenze e soprattutto nei desideri, nei sogni, e “se non ce la farai, vuol dire che sei proprio cretino”.
Spunti
di riflessione
Ecco perché di fronte a tutto questo, dovendo cambiare il mondo con questi esseri umani, mi appaiono sempre più patetiche tante forme di lotta che non tengano conto di ciò, che, anzi, ripetono stanchi rituali che servono forse a cementare identità alternative ma si rivelano alla fine quantomeno poco efficaci. Questi sono gli uomini e le donne, i ragazzi e le ragazze, con cui quotidianamente conviviamo, con i quali consumiamo le nostre vite, e per questi esseri non serve, non è giusto portare disprezzo, piuttosto è meglio staccarsi con convinta secessione dai loro comportamenti, con umiltà e amore cercare di contaminarli, riconoscendone le tensioni, le pulsioni, testimoniando in ogni frammento di vita quel bisogno che in tutti prima o poi compare, di confrontarsi con le grandi e significative questioni della vita e della morte.
Non si tratta, specifichiamo per chi si sentisse sminuito nella sua casacca di rivoluzionario vero, serio, tosto, di una via intimista all'anarchia, piuttosto di semplici spunti di riflessione di chi, come il sottoscritto, si sta sempre più misurando con la ricerca e il bisogno di capire piuttosto che di proclamare.
Quando sono diventato anarchico ciò che mi ha fatto riconoscere questa identità è stato l'incontro tra un desiderio d'amore universale, ingenuo, semplice, ma straordinariamente dirompente, forte, potente, rivoluzionario, e il sogno che l'anarchia tuttora rappresenta, di un mondo colorato e non grigio, di un mondo che deve esistere prima di tutto dentro ciascuno di noi. Insomma sono diventato anarchico perché desideravo qualche cosa di più bello, di più giusto, di più libero, di ciò che avevo e che c'era attorno. Non sono diventato anarchico contro qualcuno ma per me stesso, per i miei desideri che volevo dividere con qualcun altro. Ed è ancora così. Sarà poco, ma è così.