Cosa volete che vi dica: da molto tempo ormai mi chiedo se valga la pena, o abbia un senso, parlare o scrivere di politica, in un mondo che si caratterizza proprio per l'assenza della politica e che regola i propri rapporti con l'altro da sé mostrando i muscoli ad ostentazione della propria potenza perentoria e persuasiva. Accade ovunque e sotto qualsiasi latitudine e nell'immaginario collettivo questo modo di imporre la propria visione del mondo e gli schemi istituzionali che ne conseguono, è del tutto legittimo. La ragione, le norme, un tempo largamente condivise, di un'etica minima in grado di stabilire chi, col proprio agire, si collocasse dentro o fuori i confini della legalità internazionale, sono bandite dalla prassi corrente, e ciò vale, ripetiamo, sia nell'ambito dei rapporti tra gli Stati che nella politica interna di ciascuno Stato.
Badate bene: in questa iniziale sottolineatura del mio discorso non c'è il minimo rammarico per il buon tempo andato. È del tutto evidente che, per chi la pensa come noi la pensiamo, non esiste alcuna legittimazione per norme che intervengano dall'alto per regolare la vita di una qualsiasi comunità; figuriamoci quindi se siamo qui a lamentarci per il collasso di un diritto internazionale che abbiamo sempre reputato ingiusto perché largamente basato sui rapporti di forza. Non possiamo, però, non constatare che a tale collasso succede un imbarbarimento complessivo delle relazioni tra i popoli, e all'interno stesso dei popoli, con l'aggravamento delle condizioni dei più deboli e dei più poveri, a vantaggio di categorie sempre più ristrette di cittadini che, a prescindere dalle rispettive collocazioni geopolitiche, monopolizzano gran parte delle ricchezze prodotte, e che tali ricchezze si dispongono a difendere con ogni mezzo e al di là di ogni norma di equità e di legalità.
Umanità povera e sfruttata
Questo stato di cose, ormai incontrovertibile e sotto gli occhi di tutti, pone a noi anarchici problemi non facili da districare perchè difficilmente riconducibili (lo abbiamo già rilevato in passato) ad una scelta di campo che, nelle condizioni presenti, ove si volesse confermare non troverebbe più soggetti storici (e storicamente consolidati) che esprimano con chiarezza i termini del conflitto e siano in grado di progettare con coerenza gli indirizzi da imprimere alla lotta, nel quotidiano dei frammentatissimi contesti politici e sociali che caratterizzano il mondo contemporaneo.
Per dirla con chiarezza: è del tutto evidente che larghissima parte dell'umanità è povera e sfruttata; che interi continenti siano afflitti dalla miseria, decimati da epidemie e malattie gravissime che l'Occidente potrebbe contribuire a debellare se non ne fosse frenato dalla logica egoistica del capitalismo maturo; ma è altrettanto evidente che questo popolo immenso di diseredati (ai quali vanno aggiunti i diseredati delle nostre periferie urbane, gli espulsi dai processi produttivi e il mondo crescente delle nuove povertà), non riesce a reperire forme politiche per articolare il dissenso e la rivendicazione dei propri inalienabili diritti.
Si pone, quindi, l'esigenza di riflettere sui nostri percorsi di riflessione teorica prima ancora che operativi. Serve con urgenza una strategia che ci consenta un'aggregazione politicamente significativa dell'opposizione al prevalente modello di sviluppo capitalistico. Strategia che rifugga dalle facili suggestioni di parole d'ordine – “Sfruttati di tutto il mondo unitevi! – che, ricche di mozioni emotive, rievocano eventi e contesti storici che non esistono più. Pretendere di rispondere alla globalizzazione degli interessi capitalistici (alla quale, purtroppo, sembrano adattarsi molti paesi emergenti) con una mobilitazione globale dei poveri e degli sfruttati è pura follia: gli egoismi, i privilegi, la ricchezza aggregano molto più facilmente e in fretta di quanto non riescano a fare le variegatissime condizioni in cui nel mondo si articolano oggi l'indigenza, lo sfruttamento, la miseria e la malattia.
L'intuizione
di Malatesta
Nella premessa teorica e nel seguente (e conseguente) Patto Associativo dell'Unione Anarchica Italiana del 1920, c'è una bellissima descrizione dell'assoluta e immodificabile autonomia dei gruppi e delle individualità anarchiche. A volte esplicitamente, in più passaggi in implicazione diretta, si fa riferimento al radicamento territoriale degli anarchici, riconoscendo la specificità di ciascun contesto e la necessità di adeguare l'azione politica degli associati alle emergenze dei contesti stessi.
L'intuizione di Malatesta e dei compagni che in quel lontano luglio 1920 si riunirono a Bologna per far nascere il primo movimento libertario organizzato dopo l'esperienza, per molti versi traumatica della Prima Internazionale, fu che il territorio, lo spazio in cui l'uomo vive e lavora, i luoghi abituali e conosciuti che filtrano gli eventi, piccoli o grandi che siano, riducendoli o ampliandoli a dimensione dell'esperienza diretta del singolo e della collettività, sono i luoghi stessi che esplicitano le sofferenze e i conflitti originati da determinati assetti politici e sociali, evidenziano le perversità terminali di assetti statali e istituzioni internazionali che impongono e legiferano sulla testa dei cittadini, riducendoli ad un unicum astratto e improponibile. È nel territorio, è nei luoghi che le donne e gli uomini concreti, con il loro nome e cognome, la lingua, le tradizioni, la persistenza della loro memoria storica, riconoscono e certificano ciò che è bene e ciò che è male, tracciano i confini invalicabili di una morale condivisa, stabiliscono le regole di una convivenza pacifica, anche se non sempre facilissima per l'insorgere naturale di superabili incompatibilità.
Ma c'è di più: il territorio contribuisce a plasmare l'indole della gente che lo popola, ne caratterizza i comportamenti, suggerisce la struttura urbanistica più adeguata allo svolgimento delle attività vocazionali, si oppone all'omologazione che desertifica gli spazi con l'imposizione di consumi pianificati altrove per esigenze sollecitate in conformità non ai bisogni reali della popolazione, ma alle opportunità ed alle leggi della produzione capitalistica. L'abbandono delle terre coltivabili, le dolorose diaspore, dai centri agricoli alle aree di concentrazione della produzione di massa, hanno sottratto risorse umane e intellettuali al Mezzogiorno d'Italia senza la compensazione di un sia pur relativo benessere generalizzato, anzi aumentando esponenzialmente gli squilibri con il relativo accrescimento delle sperequazioni tra le regioni più ricche (poche e anch'esse alle prese con problemi di diversa natura ma egualmente radicali), e le molte altre più povere.
Ebbene, secondo il mio sommesso parere bisogna ripartire da questi dati, non certamente per evocare fantasmi di un possibile ritorno alle origini o, peggio, alla contrapposizione tra un territorialismo virtuoso e un nomadismo alienante. Bisogna, secondo me, lavorare perché l'uomo contemporaneo guarisca dallo spaesamento imposto dalle leggi della globalizzazione e ritrovi le ragioni vere e non escludenti del suo appartenere ad uno specifico territorio e, insieme, recuperi l'esigenza di ricostituire aggregazioni che di tali ragioni sostanzino il loro essere nel mondo.
Bisogna che l'uomo concretizzi nel suo vissuto quotidiano il rischio mortale costituito dalle multinazionali, dai danni, in alcuni casi irreversibili, provocati dall'immissione nell'aria e nelle falde acquifere, dei molti veleni prodotti dalle scorie industriali, dallo spreco d'energia, dalla cementificazione indiscriminata.
Riconquistare il territorio può voler dire materializzare, rendere immediatamente percepibili i danni provocati dal dissennato modello di sviluppo del capitalismo avanzato. Vedere dal nostro rubinetto scaturire un liquido giallastro o il nostro modesto canale di irrigazione invaso da acque maleodoranti vale molto di più, ai fini dell'acquisizione di una consapevolezza ecologista, di mille libri che si perdono in astrazioni statistiche, sia pure prodotte in perfetta buona fede. Recuperare il gusto di uno spazio e di un tempo umani può contribuire, alla lunga, ad arginare la crescita mostruosa dei centri urbani, a detta di tutti ormai invivibili, non abitati ma solo attraversati da un'umanità derelitta che cerca disperatamente l'accesso ai consumi senza produrre ricchezza, anzi bruciandone quantità enormi nell'uso parossistico di prodotti non necessari e comunque sempre sovradimensionati rispetto alle esigenze di uno progresso compatibile.
Ecco, io ritengo che bisogna alleggerire il peso delle ideologie, abbandonare gli astratti furori delle scelte manichee, per ritornare a ragionare sull'uomo, sul suo disagio di esistere così com'è ridotto ad esistere da un modello di sviluppo insostenibile.
Credo che nella Premessa teorica e nel Patto Associativo dell'Unione Anarchica Italiana fosse esplicito il riconoscimento rispettoso della diversità degli individui e delle comunità e, nello stesso tempo, l'auspicio che l'esercizio delle libertà condivise convergesse verso il bene comune di una convivenza pacifica.