rivista anarchica
anno 36 n. 319
estate 2006


 

Le lotte sociali non si fanno con le lapidi, però…

A Jesi il 1° maggio scorso sono stati inaugurati dei giardini pubblici dedicati a Sacco e Vanzetti e per l'occasione è stata scoperta una lapide dedicata ai due anarchici il cui testo recita:

A Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti
uccisi innocenti sulla sedia elettrica
perché anarchici, immigrati, e lavoratori.

Il valore delle loro vite vissute
in nome di ideali di libertà,
giustizia sociale e solidarietà umana
sia monito ed esempio
contro ogni forma di
intolleranza razziale,
persecuzione politica e
repressione delle libertà.

1° maggio 2006.

Jesi, 1° maggio 2006. Un aspetto della manifestazione
in occasione della dedica dei giardini pubblici
a Sacco e Vanzetti, con inaugurazione della lapide (sotto)
dedicata ai due anarchici


La giornata è stata una bella occasione di festa e d'incontro per molti compagni, simpatizzanti e persone di ogni genere. All'inaugurazione erano presenti circa centocinquanta persone, poco più della metà ha festeggiato il 1° maggio nel pomeriggio presso la sede del Centro Studi Libertari “Luigi Fabbri” di Jesi (sede contigua ai giardini citati), e circa duecentocinquanta persone infine, la sera, ha riempito la platea del Teatro Pergolesi per assistere all'applaudito concerto di Alessio Lega.

Il tutto è stato reso possibile non solo dall'impegno delle compagne e dei compagni del posto, ma anche dal sostegno all'iniziativa dato dall'amministrazione comunale di centro-sinistra. Fatto che può sembrare “anomalo” (stranissima la combinazione anarchici-istituzioni), ma che aveva un suo precedente locale. Sedici anni fa, in occasione del 25° anniversario della strage di P.zza Fontana, gli anarchici di Jesi, insieme ad altre associazioni e forze di sinistra, avevano fatto mettere nell'atrio del palazzo comunale un'altra lapide, dedicata appunto alle vittime della strage di stato e a Giuseppe Pinelli. Il testo è il seguente:

Ai morti di Piazza Fontana
al ferroviere G. Pinelli
a tutte le vittime di 25 anni
di stragi impunite
in loro onore
il nostro impegno, passato, presente, futuro
nelle lotte per la libertà
l'uguaglianza
la giustizia sociale.

La città di Jesi.


Unico “neo” della vicenda fu che il sindaco di allora “censurò” di sua iniziativa l'aggettivo anarchico vicino al nome di Pinelli. Del resto le istituzioni sono sempre istituzioni, e qualche “gaffe” devono pure farla ogni tanto. Se non peggio. Infatti, per contro, il 23 marzo scorso, causa proprio l'azione meschina ed elettoralistica di un'altra amministrazione comunale, quella di Milano, gli anarchici si sono ritrovati davanti alla famigerata Banca Nazionale dell'Agricoltura a “riposizionare” una copia fedele della storica lapide messa a ricordo dell'assassinio di Giuseppe Pinelli. Una risposta diretta contro il gaglioffo tentativo del centro-destra locale che, con l'apposizione di una nuova lapide dove Pinelli da “ucciso innocente” diventava “morto tragicamente” voleva non solo riscrivere la storia, ma anche cancellare una testimonianza diretta dell'alto ed ampio livello di denuncia politica del tempo, ravvisabile dalla firma della lapide rimossa: gli studenti e i democratici milanesi.

Jesi, atrio del Palazzo Comunale – La lapide
apposta nel 1990 dagli anarchici di Jesi insieme
ad altre associazioni e forze di sinistra

La vicenda milanese più che suggerire quanto sia “cattivo” il centrodestra e “tollerante” il centro-sinistra, ricorda come istituzioni e anarchici, o meglio memoria storica, lotte sociali, diritti ecc., mal si conciliano. E non c'è da meravigliarsi se qualcuno abbia storto il naso all'idea di una lapide, quella a Sacco e Vanzetti, “concessa” da una amministrazione comunale. Ed ancora. È giusto chiedersi se con tutti i problemi presenti, le lotte e le rivendicazioni da fare si possa perdere tempo a fare mera testimonianza storica mettendo lapidi qua e là per il paese. Ed infine, gli anarchici, iconoclasti per antonomasia, possono abbassarsi ad usare simbolismi che sono sempre stati utilizzati dal potere?
Le risposte possono essere le più varie, concordi o discordi, e ad elencarle tutte si rischierebbe solo di fare un trattato autocelebrativo o autoflagellante.
Per quello che mi riguarda posso dire che ogni volta che gli anarchici hanno “perso tempo” ad inaugurare lapidi, era perché ravvisavano in questo piccolo oggetto di pietra, un simbolo tangibile della loro presenza sul territorio. Presenza intesa in maniera viva, dinamica, attiva: dalle lotte sociali e sindacali, dalla controinformazione alla propaganda, all'essere appartenenti ad una comunità, ad un territorio, alle rivendicazioni e alle utopie, ai bisogni ed ai sogni di una collettività.
Le lotte sociali non si fanno certo inaugurando lapidi, ma queste possono esserne un utile testimone al fine di mantenere viva la speranza e la voglia di cambiamento della società.
Cito in merito un episodio di qualche anno fa. Si era al tempo della guerra del Kosovo e andavo in giro a recensire il video La Sindrome del Golfo fino ad allora mai trasmesso dai media nazionali (di stato e privati). Ero a Gubbio, invitato dal locale, e neonato, comitato per la pace. Nonostante fosse molto eterogeneo nella sua composizione, durante il dibattito, trovai molti riscontri positivi alla denuncia antimilitarista che da anarchico facevo contro la guerra e lo stato. Al termine alcuni dei promotori più attivi del comitato mi fecero notare come, pur non essendo anarchici, si ritrovavano durante i primi momenti di nascita del comitato, in una via del centro storico della città (quello però meno frequentato dal turismo), proprio davanti alla lapide dedicata a Pietro Gori, inaugurata negli anni ‘50 dal locale gruppo anarchico. Davanti una lapide dedicata ad un anarchico perché: “…lì ci sentivamo protetti e stimolati allo stesso tempo”.
Quanto ricordato serve per sottolineare che certi simboli o certi strumenti, una lapide come un concerto o una cena sociale, non sono “sostitutivi” dell'impegno politico degli anarchici e neanche emotiva testimonianza del tempo che fu, ma possono essere invece dei buoni catalizzatori della voglia di fare politica, organizzarsi dal basso, e respingere qualsiasi forma di autoritarismo e delega che alberga sempre nell'animo degli sfruttati di ogni tempo e luogo.

Giordano Cotichelli

 

Messico, stupratori in divisa

Pubblichiamo un articolo, apparso su “La Jornada” di lunedì 8 maggio 2006, nel quale si parla di violenza sessuale su una donna da parte di alcuni poliziotti.

Il Centro per i Diritti Umani Miguel Agustín Pro Juárez questo martedì denuncerà e documenterà, tra le molte violazioni dei diritti umani sugli abitanti di San Salvador Atenco, un caso di abuso sessuale compiuto dai poliziotti su un donna durante il trasferimento al carcere di Santiaguito, nello stato di México. Si parla di violenze di gruppo sulle donne arrestate a San Salvador Atenco, ma il Centro Pro ha comunicato: “Documenteremo e denunceremo uno di questi casi. È molto grave che nel tragitto da San Salvador Atenco alla prigione di Santiago, una delle donne fermate sia stata violentata dai poliziotti. Abbiamo tutte le testimonianze del caso”.
Il Centro Nazionale di Comunicazione Sociale (Cencos) ha comunicato che fino alle 14 di ieri non era stato possibile agli avvocati della difesa, nominati dai famigliari degli arrestati, incontrare i detenuti. Il Cencos ha affermato che “alcuni abitanti di San Salvador Atenco hanno potuto vedere i loro famigliari arrestati solo per 15 minuti, e non è stato permesso loro di portare abiti né articoli per l'igiene personale o per ripararsi dal freddo; gli arrestati continuano ad indossare gli stessi abiti di quando sono stati fermati”. (...)
Una delle testimonianze raccolte dal Centro Pro a San Salvador Atenco racconta di un uomo che si stava recando al lavoro quando è stato rincorso, picchiato ed arrestato. La testimone è una donna: “Mio cognato si preparava ad andare a lavorare, doveva incamminarsi per calle Fresnos ma non è riuscito più ad uscire perché la polizia aveva già cominciato con le aggressioni. Lo hanno inseguito e lui è scappato per difendersi, non poteva fare altro. Lo hanno raggiunto e picchiato.
Mentre lo stavano picchiando sono venuti ad avvisarci i vicini. Sono arrivati e ci hanno detto ‘stanno picchiando tuo cognato'. Mio marito è uscito a soccorrerlo, ma si trova in mezzo allo scontro. Mio marito riesce a prendere mio cognato e scappano per mettersi in salvo. Vengono inseguiti ancora ma non c'è via di scampo, dovunque c'erano i granatieri. Sono arrivati in centro e mio marito riesce a mettere al sicuro suo fratello in una casa; mio marito tenta di entrare in un'altra, chiede aiuto, ma lì c'erano rifugiati, e gli dicono: ‘scappa, scappa'. La polizia incomincia a perquisire le case, entrano dove stava mio cognato. Entrano e dicono al padrone di casa. ‘Dov'è?' Il padrone di casa dice ‘qui non c'è'. ‘Come no, figlio di puttana!', hanno risposto i poliziotti e sono entrati in casa
”.
Il padrone della casa dove è entrata la polizia dice ai suoi vicini: “Sono un uomo ma mi viene da piangere a raccontarlo. Perché tanto accanimento – li picchiavano a calci e con i manganelli –; siamo persone, perché colpirli con tanto accanimento?”.

Victor Ballinas
(Traduzione dal castigliano a cura del Comitato Chiapas “Maribel” – Bergamo)