A viverla giorno dopo giorno, la nostra contemporaneità sembra scorrere normalmente, in parte perché si è affievolita, e di molto, la nostra capacità di reagire e di indignarci, in parte perché, a piccole dosi, la follia finisce con l'assimilarsi alle pratiche consuete e non sembra alterare i nostri equilibri. Ma se alle consuete occupazioni alterniamo – come sarebbe in ogni caso opportuno – momenti di riflessione, spegnendo la televisione e disattivando i telefonini, ci accorgeremo che siamo tutti finiti in una gabbia di matti. Ci siamo ridotti ad accettare senza scandalizzarci le situazioni più paradossali, ad ammettere nella sfera della nostra comprensione le affermazioni più stravaganti, talché la nostra capacità di critica si è di molto affievolita e con essa si è drasticamente ridotta la nostra dimensione politica.
Facciamo qualche esempio.
Il caso Telecom. Tutti sapevano (e tutti sanno) che Tronchetti Provera, più che imprenditore è un liquidatore di quelle società che malauguratamente finiscono nelle sue mani: ha praticamente disattivato, dal punto di vista produttivo, il potenziale delle industrie a vario titolo controllate, trasformandone la struttura da produttiva a finanziaria: è avvenuto con la Olivetti, prima, e con la Pirelli, poi, della quale cedette il settore “Cavi per le telecomunicazioni” alla statunitense Corning dalla quale ricevette in cambio quei settemila miliardi (di lire) che, attraverso un complicato meccanismo, sarebbero serviti ad acquisire il controllo della Telecom Italia. Per meglio chiarire: il controllo della Telecom, di cui Tronchetti Provera detiene solo lo 0,8% del capitale azionario, gli deriva da quel sistema di scatole cinesi di aziende dal Tronchetti controllate (Comfin, Pirelli e Olimpia) che, complessivamente, costituiscono il patto di sindacato che controlla Telecom. Tronchetti Provera si è dimesso dalla presidenza Telecom, motivando il gesto con il conflitto istituzionale accesosi col presidente del consiglio Romano Prodi, a seguito dell'“incidente” del piano occulto di ristrutturazione dell'Azienda fornito sottobanco a Tronchetti Provera dal consigliere economico di Prodi, Angelo Rovati (28 pagine dettagliate e niente affatto “artigianali”, talché si sospetta non infondatamente che non sia solo farina del suo sacco). In realtà, malgrado le dichiarazioni ottimistiche sulla salute di Telecom che si sono sprecate nelle settimane scorse, la situazione è tutt'altro che florida. È vero: la Telecom, per merito soprattutto della telefonia mobile, realizza profitti, ma il grosso di tali profitti va a sostenere i gravosi interessi che derivano da un debito che si aggira sui 41 miliardi di euro dichiarati (ma, secondo alcuni analisti, supererebbero i 47 miliardi). Un debito che appare sostenibile in astratto, ma che minaccia di essere sempre meno sostenibile in un regime di agguerrita concorrenza, al quale la Telecom non fa fronte con un adeguato aggiornamento tecnologico. Sicché la TIM (la telefonia mobile) appare sempre meno competitiva oltre ad essere per sua natura obsoleta in un mercato che, nello stesso settore, si attiva in altre direzioni. Questa situazione è ben rappresentata dal calo crescente e continuo del valore delle azioni della Telecom, che, dall'ingresso di Tronchetti Provera (luglio 2001) ha perduto circa il 50% della sua quotazione originaria.
E così torniamo all'assunto iniziale: bisogna essere matti per contrabbandare le dimissioni di Tronchetti Provera da presidente dell'azienda di telecomunicazione come l'effetto dell'“incidente” istituzionale col capo del governo: in realtà la sua posizione all'interno della Telecom era insostenibile, talché il suo successore, Guido Rossi, nominato in tutta fretta al suo posto, la prima cosa che ha fatto è stata quella di inviare alla Procura della Repubblica le ultime delibere del Consiglio di amministrazione.
Il Presidente
nel ridicolo
Di tutta questa vicenda gli italiani capiscono poco, ma non diffidano abbastanza sia dei salvati che dei presunti salvatori. Gli italiani sono abituati ad ingerire senza danno apparente qualunque cibo indigesto, a sentirsi rassicurati da qualunque frottola venga loro ammannita per tranquillizzarli e a ricondurli al tran tran quotidiano, anche se, in questo caso, ad essere duramente colpiti dalla caduta dei titoli in borsa della Telecom e soprattutto della Pirelli che, come abbiamo visto, è direttamente implicata nella vicenda, e dunque a perderci, sono i piccoli risparmiatori, coloro che tengono i titoli in portafoglio e non speculano.
Naturalmente, anche in questa circostanza, il governo ed il Presidente del Consiglio non hanno mancato l'occasione per finire nel ridicolo. Prodi ha subito affermato che delle intenzioni di Tronchetti Provera e del piano di riordino inviato da Rovati allo stesso Tronchetti Provera, su carta intestata di palazzo Chigi non sapeva nulla. Come un consigliere economico del capo del governo possa allestire un piano che prevede l'acquisizione (o il controllo) di TIM da parte delle Partecipazioni Statali, intanto, senza conoscere l'intenzione del Consiglio di Amministrazione della Telecom di scorporare TIM (Consiglio che si tiene l'11 settembre, certamente dopo che era pervenuta la bozza di ristrutturazione di Rovati), e, poi, tenendo all'oscuro l'attore principale di tale piano, il suo Presidente del Consiglio, ebbene, tutto ciò è incredibile, è pillola che si può pretendere di far ingerire ad un popolo che non si stima, che si considera ebete.
Le dichiarazioni rese da Prodi alla camera il 28 settembre, lungi dal fugare i dubbi, li hanno moltiplicati. Fermo nell'affermazione insostenibile che non sapeva nulla e che con le dimissioni di Rovati considerava chiusa la vicenda, Prodi confermava la sua intenzione, e quella del suo governo, di non voler interferire nelle vicende interne delle aziende private, piccole o grandi che fossero, anche se operavano in regime di concessione delle reti, sostenendo nel contempo che il potere pubblico non poteva rimanere indifferente sull'evoluzione (o l'involuzione) di un'azienda che operava in un settore strategico per la vita della nazione. Ci si attendeva, a questo punto del ragionamento, che almeno si adombrasse una soluzione che salvaguardasse insieme l'interesse pubblico e la libera iniziativa delle imprese. Invece niente, tranne che un generico richiamo alla necessità di regole valide erga omnes che tale salvaguardia realizzassero.
Da un governo di centrosinistra credibile, ci si sarebbe aspettato che, dopo un'analisi appena accennata sulla natura stracciona del nostro capitalismo, si dicessero parole chiare per tacitare lo starnazzare continuo delle anatre della Confindustria e dei poteri forti che insistono sulla necessità di sovvenzionare direttamente o indirettamente le imprese per metterle in grado di sostenere la concorrenza. Ci si sarebbe aspettato che un Presidente del Consiglio, a capo di una coalizione che si dice contrapposta alla destra, cogliesse finalmente l'occasione per affermare con chiarezza che è l'ora di finirla con l'acquisto e la vendita di strutture produttive senza che vi fossero impiegati capitali veri e riconducibili agli acquirenti; che si finisse con la pratica delle scatole cinesi e dei patti di sindacato che controllano le grandi imprese senza rischiare nulla e caricandole di debiti, che la comunità è poi chiamata, direttamente o indirettamente, a ripianare. Ci si sarebbe aspettato che Prodi ricordasse ai fautori delle privatizzazioni e del capitalismo “senza lacci e lacciuoli”, che altre nazioni europee, molto più civili di noi, affidano al potere pubblico quote o addirittura la totalità delle reti nazionali, siano esse di telecomunicazioni e telematiche, elettriche o autostradali e che, quindi, non ci sarebbe stato nulla di scandaloso nel progetto Rovati. A condizione, naturalmente che esso non occultasse cordate di imprenditori amici, reclutati a fini elettorali.
Invece, nulla di tutto questo. Generico e vacuo, il discorso del Presidente del Consiglio, si è esposto gratuitamente alla canea dei deputati della destra, senza che si intravedesse un disegno, almeno un segnale di novità per l'azione di governo.
A leggere, infatti, le note di indirizzo della finanziaria 2006, non vi è nulla che riguardi il sistema produttivo del nostro paese, nulla che avviasse almeno una discussione critica sulle regole che presiedono al comparto borsistico e, più in generale, all'assetto finanziario. Auspicare che le autorità di controllo e garanzia operino con maggiore rapidità e determinazione, significa affrontare semplicemente il problema del rispetto delle regole, mentre sono proprio le regole che vanno discusse. Se così non fosse, qualcuno dovrebbe spiegarci come mai in poco meno di quarant'anni si è potuto dilapidare un patrimonio industriale imponente (la siderurgia, la chimica, le tecnologie avanzate, la cantieristica, ecc.) e si è inquinato il sistema borsistico, consentendo l'ingresso all'azionariato pubblico a operatori che portavano bilanci truccati.
Il rigore, l'equità, la certezza del diritto sono slogan che un intero sistema politico-giuridico-economico profondamente inquinato invia ad un popolo che si ritiene inintelligente.
Solo opera di
alcuni manigoldi?
E il popolo, purtroppo, a giudicare dalle sue reazioni, si beve questo e altro. Come la favola che Tronchetti Provera e il suo staff fossero all'oscuro delle intercettazioni illegali che si effettuavano alla Telecom.
Tutto avveniva, secondo la vulgata corrente, ad opera di alcuni manigoldi (che però, guarda caso, erano ai vertici dell'Azienda e di Pirelli). Questi manager, remunerati a colpi di miliardi annui, una mattina si alzano e decidono di mettersi in proprio, utilizzando la rete telefonica e telematica pubblica per spiare imprenditori concorrenti, giornalisti e per schedare i lavoratori. Tutto questo per sport. Per sport corrompevano funzionari del SISMI, delle forze dell'ordine e dipendenti dei ministeri. Entravano impunemente negli archivi dei ministeri, dei palazzi di giustizia e dei settori della pubblica sicurezza. Spiavano mezza Italia, almeno quella che conta e anche una parte di quella che conta poco. Senza avere un referente, qualcuno che tirasse i capi della matassa!
Anche per questa vicenda, pagine e pagine di giornali, trasmissioni televisive e di approfondimento, sedi nelle quali scorrono fiumi di parole e opinioni in libertà. Con la partecipazione qualificata di esperti indiscutibili, di politici indignati e di membri del governo sussiegosamente consapevoli della gravità dell'accaduto e disponibili ad operare perché vicende che si reiterano, per non andare troppo lontano, dal dopoguerra ai nostri giorni (vi ricordate della FIAT di Valletta nel '71?), non abbiano più a ripetersi. Vaniloqui che lasciano il tempo che trovano, ma che, del tutto involontariamente, fanno emergere particolari significativi, come quello dell'Autorità di controllo che almeno da un anno sospettava o addirittura sapeva che alla Telecom qualcosa di poco chiaro avveniva, senza che a tali sospetti corrispondesse un opportuno intervento delle istituzioni. Anche questa è una storia incredibile, ma viene contrabbandata come emblematica del bene che trionfa sul male: si manderanno in galera per qualche settimana i personaggi che si sono sporcate le mani e saranno preservati gli interessi e la dignità di coloro per conto dei quali quelle mani si sporcarono.
Intanto, ancora una volta, il SISMI risulta implicato in affari poco chiari, per non dire sporchi.
Un popolo vigile avrebbe da tempo dovuto chiedersi come mai non siano saltati, da tempo, i vertici di un servizio che si è scoperto agire persino per conto di paesi stranieri (come nella vicenda del rapimento di Abu Omar). Quali poteri di ricatto possiedono i Pollari, i Mancini nei riguardi di tutto lo schieramento politico ed economico del Paese per rimanere al loro posto malgrado tutto?