rivista anarchica
anno 37 n. 324
marzo 2007


 

Miniera
di senso

Elèuthera ha pubblicato, lo scorso ottobre, il libro di Raul Pantaleo, Un Pisolo in giardino. Segni, sogni, simboli alla periferia dell’abitare, pp. 112, euro 10,00. All’autore abbiamo chiesto una presentazione del suo libro.

Crediamo che l’abbandono culturale del territorio in cui viviamo, la mancanza di partecipazione e di critica verso situazioni abitative insostenibili, la perdita di senso della tradizione e del gusto siano le espressioni più conformi al sentire con un senso di mancato appagamento la dissociazione tra realtà sognata e realtà vissuta.
Come si spiegherebbe altrimenti l’accettazione incondizionata dello stato di fatto da parte di chi vive quotidianamente le zone artigianali, fatte da anonimi cubi di cemento, oppure le ormai sterminate periferie di casette a schiera.
Viviamo un territorio in continua mutazione governato quasi esclusivamente da un variopinto universo mercantile. Una realtà dove le mode abitative prevalgono sul senso dell’abitare e non producono né oggetti né fatti, ma soltanto segni fugaci, fittizi punti di riferimento. Nel vivere, nel vestire, ma anche nell’abitare molte persone inseguono modelli e stereotipi che non gli appartengono, identificandosi in bisogni indotti da una cultura che impone modelli pensati e costruiti per essere consumati e subito rimpiazzati. Perché questo è quanto impongono le regole di mercato! Così si è passati dalla “villetta del geometra” (imperfetta copia della villa hollywoodiana), alla casetta in presunto stile tradizionale (il “Mulino Bianco” dei biscotti), passando per “copie autentiche” di case di campagna con porticato, fienile ed archetti (un po’ schiacciate o allungate ma questo poco importa) che non hanno nulla a che vedere con le sobrie proporzioni della tradizione.
In questa volatilità culturale nelle campagne o nelle periferie urbane si sta imponendo un “non-modello”, il cui unico ancoraggio estetico è il ritorno ad un “mitico ” passato di cui si sono perse le radici ed il senso e di cui si ha un vago ricordo, una risonanza, un “sentito dire ”.
In questo vuoto il progressivo affinarsi stilistico dell’architettura accademica e la completa autonomia disciplinare, hanno inoltre reso qualunque esempio architettonico “alto” appannaggio esclusivo di un pubblico raffinato e particolarmente colto.
È impossibile prendere coscienza dell’abisso che si è venuto a formare tra quella che viene definita come “cultura bassa” e la “cultura alta”; due universi incompatibili dove da un lato si trovano quelle forme di sottocultura imposte dai mass-media, dalla manipolazione commerciale e da una cultura “fai da te” e dall’altra eterei ed incomprensibili virtuosismi mentali distanti da qualunque tipo di realtà.
La “cultura bassa” nell’indecisione si rifugia nei miti del consumo o in un ossessivo ritorno alla tradizione interpretata in maniera grottesca e deforme, come puro attaccamento a valori solidi e permanenti.
Dovremmo però riflettere prima di emettere il solito giudizio di condanna; è proprio in questa cultura che si rispecchia effettivamente il pubblico; nei modelli televisivi, nei nanetti, piuttosto che nelle solide riletture di un “mitico passato”. Mentre da un lato si costruisce una falsa identità sociale dall’altro la miopia del sapere crea barriere insormontabili. Non è pensabile continuare a guardare i fenomeni dell’abitare di massa come a fenomeni di marginale imbarbarimento, perché essi si stanno imponendo come “cultura dominante”; non si può liquidare, snobbando, il reale significato di “senso comune” in quanto esso è portatore, anche se deforme di un bisogno, del desiderio dell'individuo di ricercare valori e significato alla propria esistenza. Nostro compito è cercare di comprendere e trasmettere il significato profondo della realtà, infrangendo le barriere tra “cultura alta” e “cultura bassa”. È necessario lavorare alla costruzione di una “cultura dei bisogni”, in cui le cose e le case riacquistino significato e tornino ad essere “nominate” e “nominabili”.

Possiamo ancora ritrovare nell’abitare quotidiano i segni di un universo simbolico?
Che significato hanno questi segni per l’uomo contemporaneo?
È ancora pensabile un linguaggio che possa riecheggiare un universo simbolico?


Queste sono le domande a cui tenteremo di dare una risposta nel libro.
Cercheremo questi simboli nei segni della realtà, partendo proprio dalla quotidianità più “qualunque”. Sarà un percorso tortuoso a partire dalla periferia disabitata dei segni per ritornare al significato profondo dei simboli, alla ricerca di quegli oggetti “dispersi” nei giardinetti o nei balconi che possano avere ancora una risonanza simbolica riconoscibile.
Esploreremo questi segni nelle villette di periferia, sulle ringhiere delle palazzine, sui portoni dei condomini, spogliandoci di quell’arroganza culturale che spesso ha liquidato come fenomeni di barbarie architettonica questi manufatti che, a ben guardare, sono l’indizio di un bisogno, del desiderio di ritrovare un legame con un mondo “altro”.
I nanetti, i rapaci, i mostri o le figure geometriche che ritroviamo nelle case “più qualunque” ci fanno pensare all’uomo contemporaneo, così tecnologico ed “evoluto” – che magari possiede l’ultimo ritrovato della tecnologia digitale o l’ultima lucente vettura ultra accessoriata – come immerso in una sorta di primitiva infanzia simbolica, da cui emerge un innocente ed inconsapevole desiderio di relazione con l’ignoto.
Questi segni si potremmo leggere, seguendo Jung, come la presenza manifesta di un inconscio collettivo (1), una forma di desiderio collettivo di esternazione di un universo archetipico attraverso forme simboliche di cui l’individuo non coglie consapevolmente il significato ma di cui sente fortemente il bisogno.
Questi oggetti o figure che ricorrono costantemente sono, forse, l’indice dell’esistenza di elementi simbolici determinati e costanti che si manifestano in forme variegate e che sembrano essere presenti in luoghi ed in tempi diversi.
Tutto questo rappresenta una soglia, un passaggio verso un mondo diverso, “altro”, non a caso questi oggetti sono sempre posti nell’interfaccia con il mondo esterno.
Pensiamo sia importante attraverso l’analisi di questi elementi simbolici capire se quello che ad una prima lettura potrebbe essere interpretato come il desiderio di auto rappresentazione o di emulazione della tradizione, rappresenti un bisogno inconscio di esorcizzare una realtà vissuta con infinite zone d’ombra.
L’ornamento e la decorazione, per quanto superficiale od effimero possa sembrare, si propone dunque come un elemento sostanziale e permanente della cultura dell’uomo.
Vogliamo dimostrare che attraverso questo balbettare, forse inconsapevole, l’individuo riporta a galla quei segni che per secoli si sono trasmessi come sistema di relazione, come patrimonio collettivo tramandabile e codificato.
È nostro intento svelare e scoprire questi segni per ricostruire un rapporto empatico con il mondo fatto, non solo d’elementi determinati, ma anche dell’evanescenza dei sogni, dell’immaginazione, dell’inconscio.
La periferia dell’abitare ha insegnato a guardare, a scoprire che esiste un intero universo celato dietro alle apparenze più insignificanti. La casetta di periferia diventa così una miniera di senso, ci svela i sogni di chi la abita, i suoi desideri consci, ma, come speriamo di aver dimostrato, anche quelli inconsci.

Raul Pantaleo


C. G. JUNG, Opere-9* Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino 1980.


 

 

Molecole
invadenti

Cosa ci fanno strane colture batteriche e apparecchiature biotecnologiche sospette nelle mani di un professore di arte della New York University e di un genetista di Pittsburgh, entrambi di note simpatie libertarie? È quello che si sono chiesti gli agenti dell'Fbi quando, il 30 maggio 2004, hanno perquisito le case di Steve Kurtz e di Robert Ferrell del Critical Art Ensemble. Negli Usa della Guerra al terrore, del Patriot Act e delle buste all’antrace, l’arresto e l’accusa di bioterrorismo erano scontati. Anche se i due hanno dimostrato che l’innocuo Bacillus atrophaeus e gli altri microorganismi trovati dall’Fbi erano solo gli ingredienti delle loro performance artistiche, la loro odissea giudiziaria non è ancora finita (www.caedefensefund.org).
Il Critical Art Ensemble infatti è un collettivo di artisti e scienziati che dal 1987 è «dedito all’esplorazione delle intersezioni tra arte, tecnologia, politica radicale e teoria critica». Le loro performance hanno avuto luogo in diversi festival, esposizioni e spazi pubblici in Europa e negli Stati Uniti. Grazie all’immediatezza della rappresentazione artistica e alla possibilità di provare in prima persona il funzionamento di un laboratorio biotecnologico, il Critical Art Ensemble cerca di mostrare a tutti le intersezioni tra scienza, società, immaginari collettivi. Per esempio, permettendo al pubblico di produrre un batterio transgenico e deciderne il rilascio nell’ambiente. Oppure testando in un piccolo laboratorio portatile la presenza di organismi geneticamente modificati nel cibo portato da chiunque. Il sito web www.critical-art.net è pieno di esempi e di materiali sull’attività artistica e politica dell’Ensemble.

Il loro libro, Critical Art Ensemble, L’invasione molecolare, (Elèuthera, 120 pagine, 10,00 euro), scritto collettivamente e liberamente scaricabile dal sito www.eleuthera.it, fa parte del tentativo di aprire la «scatola nera» della scienza per mostrarne il funzionamento. Perché «il processo scientifico non appare mai pubblicamente, appaiono solo i suoi miracolosi prodotti. Vogliamo portare i routinari processi della scienza al pubblico. Farglieli vedere e toccare». Non è un pamphlet anti-biotech e nemmeno un libro nostalgico di una natura pura e incontaminata, ma uno strumento per criticare la figura dell’esperto e le sue verità assolute. Il Critical Art Ensemble propone radicalmente di dare a tutti la possibilità democratica di prendere la parola. O, ancora meglio, di riappropriarsi delle tecnologie e usarle liberamente, in puro spirito hacker. Del resto la loro disavventura dimostra che del lavoro dell’Ensemble c'è davvero bisogno, per evitare che le biotecnologie e i processi decisionali che le riguardano restino chiusi tra le mura dei laboratori militari e delle multinazionali.
E se l’opinione tecnica dell’esperto non basta più per prendere decisioni in un mondo nel quale le corporation del biotech procedono a grandi falcate verso la colonizzazione dei genomi brevettati e nel quale economie, salute, lavoro di milioni di persone sono in gioco, allora dovremo essere tutti esperti. Dovremo dotarci degli strumenti scientifici e politici che ci permettano di realizzare una «biologia contestativa», fatta di metodi intelligenti e nonviolenti. Non diventeremo tutti biotecnologi ma dovremo imparare a riconoscere un organismo transgenico, farci un test del DNA autogestito o sabotare un’invasione di granoturco geneticamente modificato producendo un composto che colpisce proprio la caratteristica mutata dagli ingegneri genetici. È il reverse engineering: smontare le tecnologie e riadattarle a scopi diversi da quelli canonici, a scopi decisi autonomamente dalla fantasia e dalle necessità del momento. Anche liberare qualche migliaio di moscerini mutanti nella mensa di un laboratorio biotech potrebbe servire allo scopo… che la guerriglia molecolare abbia inizio.

Alessandro Delfanti