rivista anarchica
anno 37 n. 325
aprile 2007


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Anni ’70, canzoni contro le istituzioni
E ti chiamaron matta di Gianni Nebbiosi

Era un periodo di salutare follia e di felicità, era un periodo creativo, era un periodo ubriaco, popolato di genti barocche e di idee accavallate.
È un periodo che non ho vissuto, ma in cui sono nato, e molte delle cose che canto e che scrivo vengono certo da più lontano, ma sono passate tutte da lì.
Una volta un mio detrattore ha scritto “Alessio Lega è fermo agli anni ’70”, ora, essendo nato nel settembre del ’72, ho vissuto gli anni ’70 fra gli zero e gli otto anni… per fare una media diciamo che sono rimasto fermo ai miei cinque anni… non è male! Da un altro punto di vista un bell’ossimoro per uno fermo agli anni ’70 potrebbe riassumere il mio atteggiamento: “Fermo al movimento”. Ecco questo mi piace, sono fermo al movimento.
Con questo genere di rimbrotti sul muso, al di là dei giochi di parole, è giocoforza andare a guardare di persona cosa siano stati questi anni, e non certo solo sulla scorta di racconti dei simpatici “reduci” che s’incontrano ancora per la strada (primi fra tutti papà e mamma), ma proprio dalle testimonianze dirette di chi quegli anni li trascriveva in diretta, li filtrava nel piombo tipografico (il piombo più simpatico, di certo) e nel vinile dei dischi.
Per la fortuna dei curiosi come me quella è stata una generazione preda di una particolare ansia di autorappresentazione, lo aveva detto molto bene Gianfranco Manfredi:

La mia generazione che svuota la sua testa
E vuol vedere i pezzi e non li vuole vedere
Vuol leggersi sui corpi, ma anche sul giornale.


Gli anni che vanno dalla fine dei sessanta alla fine dei settanta hanno prodotto una mole di canzoni straordinaria, una vera contro/storia cantata, un altro punto di vista molteplice e sfaccettato. Un diario in pubblico – individuale e collettivo – dove, quello che non dicono le parole, gli slogan, le rime affannose e affrettate, lo sa dire in trasparenza la musica, le voci, il fondo scuro ma denso di passioni.
Mentre fiammeggiava questa creatività la reazione si chiudeva a riccio, le città prendevano la strada su cui ancor oggi paiono lanciate: lividi ammassi di cemento, tutt’un immensa periferia invasa dall’eroina, con l’impotenza che si sfoga in violenza ridotta a fatto personale: autopromozione all’escalation della follia; un conflitto generalizzato.
Alcune delle parti più sane e più creative del movimento culturale e del pensiero critico però reagivano e avviavano una riflessione sulle istituzioni rimaste fondamentalmente repressive e fasciste, anche sotto le spoglie democratiche. Penso con gratitudine al lavoro di Franco Basaglia sulla percezione del concetto di follia nella nostra società, e alla conseguente legge nota appunto col suo nome.

A questo grande tema si lega un piccolo grande disco uscito nello stesso anno in cui sono nato (il 1972, dicevo) “E ti chiamaron matta” di Gianni Nebbiosi.
È un disco rarissimo, quasi arcano. Si tratta peraltro di un EP, ovvero di un disco che va a 33 giri ma grande come un 45, dunque una via di mezzo fra l’LP e il singolo; questo formato, che non ha mai preso particolarmente piede in Italia, i Dischi del Sole lo usarono per una serie sperimentale che ahinoi non ha mai trovato particolare diffusione né ristampe.
Me ne parlò per primo ai tempi di Lecce (fine anni ’80) il caro amico e grande collezionista Francesco Fortunato, che però ne possedeva solo la copertina (!) coi testi e una sola canzone incisa su una cassettina cantata da Giovanna Marini. Durante una gita in quel di Roma – ero un simpatico ragazzino di 16 anni con strane ossessioni! – cercai e trovai sulla guida il numero di telefono dell’autore, che però molto gentilmente mi disse anche di non possedere più alcuna copia del dischetto. Tre anni più tardi – trasferitomi a Milano – entrai rocambolescamente in possesso dell’ambita lacca attraverso Franco Coggiola, che me la regalò con una sua dedica, sottraendola direttamente dal magazzino dell’Istituto De Martino, al tempo ancora sito a Milano. Qualche anno dopo Coggiola è morto senza che riuscissi mai a ringraziarlo, per questo io, che sono tutt’il contrario di un collezionista, porto a quel disco e alla mia copia in particolare una specie di venerazione.

Di Gianni Nebbiosi so pochissimo, che è romano, che è psichiatra, che è stato vicino a Franco Basaglia e che da queste sue esperienze derivano i testi del disco di cui sopra, che ha inciso anche un secondo disco molto bello – e anch’esso mai ristampato –, che come clarinettista ha preso parte al progetto del Canzoniere del Lazio; dopo gli anni ’70 non mi risulta che si sia più dedicato alla musica.
Ogni tanto le sue canzoni – in particolare queste sulla follia – saltano fuori nei progetti e nelle situazioni più disparate, ad esempio l’amico Davide Giromini ha inserito nel suo secondo disco “Delirio e castigo”, questo pezzo meraviglioso e terribile tratto dal lavoro di Nebbiosi:

Fu l’idea di vedere i tuoi occhi di abbracciare la nostra creatura
Che mi diede la forza e il coraggio di andar contro la natura
Di sorridere agli infermieri di pesare ogni parola
E alla notte ogni grido che usciva ricacciarmelo dentro in gola.
E qualcuno poi disse
“Guarda lì l’agitato:
Son passati otto mesi,
Sembra un po’ migliorato”.

Fu l’idea di vedere i tuoi occhi di giocare con la bambina
Che mi fece ingoiare in silenzio ogni loro medicina
E mi diede la forza e il coraggio di rispondere senza urlare
Al dottore che aveva schedato la mia malattia mentale.
E un bel giorno venisti
Col tuo abito a fiori
Mi prendesti la mano
Mi portasti di fuori.

Ma di fuori la voglia di uscire si trasforma in voglia di pane
Ma il discorso era sempre lo stesso: « Torni fra due settimane »
Imparai a riconoscere presto dietro a quello strano impaccio
Una legge senza parole fredda e dura come il ghiaccio.
Quella sera, ricordo,
Tu dormivi al mio fianco
Ma la stanza girava
E di colpo fui stanco.

Furon sempre le stesse facce a legare questo mio male
E la stessa iniezione nel braccio a condurmi all’ospedale
Con lo stesso soffitto imbiancato con gli stessi scarabocchi
Dove ormai le paure e il silenzio nascondevano i tuoi occhi.
E qualcuno poi disse:
“Guarda lì l’agitato
Son passati otto giorni
E c’è già ricascato”.


Il dischetto originale nella sua brevità è densissimo: su sei canzoni almeno quattro sono capolavori… è davvero stupefacente che, visto il suo talento, Nebbiosi (anche tenuto conto del suo altro LP) abbia dedicato una produzione così esigua al pubblico, ma forse questo si sentiva di voler dire e questo ha detto.

“Il numero d’appello” la canzone adorata e interpretata spesso da Giovanna Marini lega in maniera esplicita ed insolubile la catena di montaggio coi suoi ritmi alienanti all’insorgere della psicosi, con un incipit agghiacciante per semplicità e verità:

Quando, nel cercare di farsi capire / vide la gente voltarsi
Come se non dovesse capirlo più.
Quando lo legarono alla barella / ch’era caduto in catena
Gridando “Basta, basta, per carità!”.
Lui s’accorse, tutt’a un tratto, / D’esser diventato matto,
Che una porta gli si apriva / E la mente gli fuggiva.

Quando vide le facce dei dottori / chinate a fargli domande
Ch’eran parole vuote d’un’altra realtà;
Quando lo calmarono con le scosse / perché gridava e piangeva:
“Rivoglio i miei vestiti, la libertà” (…)


La traccia che dà il titolo all’album spinge l’attenzione dell’autore al di là e al di qua delle sbarre del manicomio e di quelle della società, nella storia stessa della sopraffazione maschile nei confronti della donna. In pochi versi viene tratteggiato il ritratto di un eterno femminino, di un personaggio madre/amante/figlia, in comunicazione con la profondità generatrice e magica della terra stessa, e, proprio perciò repressa, calunniata e distrutta. È un brano che innalza un grido, che è importante raccogliere ancor oggi:

Ti ricordi Nina / Il vecchio girotondo / Nella campagna chiara / Di mezza primavera /
Per far crescere il grano / Pregavi un dio lontano / Un dio che non si paga /
E ti chiamaron maga.(…)
Ti ricordi Nina / La luce dell’inverno / Le case erano tane / Per spartirsi la fame /
Tu stavi in mezzo al gelo / E bestemmiavi il cielo / Con gli occhi di chi prega /
E ti chiamaron strega.
Ti ricordi Nina / Il medico in paese / Venuto da lontano / Col suo camice bianco /
Ed un sorriso stanco / Inutile e tagliente / Come la vecchia latta /
E ti chiamaron matta.


Il disco si chiude su un’elegia alla ribellione, che contrappone un’insopprimibile vitalità alle istituzioni totalitarie, quale il manicomio era (e forse in certi casi è ancora). L’incontro fra due mondi emarginati, quello del lavoro e quello cultura (un riferimento all’unione sessantottina di movimento studentesco e operaio?), possono generare un empito di libertà che, anche quand’è votato al fallimento, resta l’unico gesto con cui la vita si afferma contro la morte, in una parola: la resistenza.

Emigrato su in Germania / Sento il cuore che mi smania / Sento estranee cose e gente
E alla fine anche la mente.
E finito in ospedale / Per ‘sta malattia mentale / Ci ho trovato, con stupore,
Un che parla da signore.
E racconta certi fatti / Di romanzi e di ritratti / Di poeti e di persone
Di cui non conosco il nome.
Io gli parlo di cantieri/ E dei miei troppi mestieri / Di sudore e di fatica
Cose che non le sa mica.
Ma ci stiamo ad ascoltare / E ci sembra di imparare / Il perché siam stati esclusi
Il perché ci hanno rinchiusi.
E così l’altra mattina / Quando han fatto la strozzina / E picchiato a più non posso
Un che s’è pisciato addosso
Noi ci siam guardati in viso / E poi dopo all’improvviso / Non più servi né stranieri
Fummo addosso agli infermieri.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it