rivista anarchica
anno 37 n. 327
giugno 2007


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Tre vicende
dell’autorità musicale

 

Meriterebbe tutta la nostra indignazione la notizia del suonatore di tamburi afghano che, nell’aprile scorso, è stato massacrato a colpi di pietra dai solerti custodi della verità islamica. A quanto sembra, la sua colpa stava per l’appunto nel tamburo, il “dohl”, strumento da cui, a quanto sembra (ancora), otteneva musica “impura”, musica non prevista da un’interpretazione fondamentalista del Corano. Cose che capitano nei dintorni di Kabul, nel 2007, e che dovrebbero far riflettere sulle rappresentazioni della storia umana: su chi è più avanti, più indietro, sul fatto che indietro non si tornerebbe e su altre penose finzioni del genere – nella storia degli esseri umani l’avanti e l’indietro lo decide chi sta parlando e, se questo ha più potere degli altri, la ragione è tutta sua.
Che la critica d’arte – perché di critica d’arte si tratta, poche balle – possa esercitarsi con la lapidazione è una logica conseguenza dell’aver miscelato incautamente atteggiamento religioso e atteggiamento estetico, ma chi si macchia di tale peccato contro l’umanità è in buona compagnia.
La cosmogonia di Anassimandro prevedeva una Terra a forma di cilindro sospeso nello spazio e circondato da sfere. Pitagora accetta lo schema e lo arricchisce di un particolare: le sfere celesti producono un suono, e non un suono qualsiasi, ma un’armonia, che, tuttavia, alle limitate orecchie umane risulta inudibile – forse, un po’ meno alle acutissime sue, che, nel porre rapporti tra numeri e suoni e tra numeri e checchessia disegna le leggi del creato. Tanto è vero che, nonostante di scale se ne sian fatte altre e più ricche (come quella di Tolomeo, già disponibile dal II secolo d. C.), la scala pitagorica viene adottata dalla Chiesa Cattolica e difesa a spada tratta. Come ben racconta Silvia Bencivelli in Perché ci piace la musica (Sironi, Milano 2007), i papi imposero la scala pitagorica nella musica liturgica e nel canto gregoriano. Nel 1324, Giovanni XXII emanò un editto in cui – proprio al fine di salvare la tradizione pitagorica – si prescriveva l’impiego dei soli intervalli di ottava, quarta e quinta.
Questa volontà normativa dei cattolici in fatto di gusti musicali non è cosa del passato remoto. Quando Ratzinger non era ancora papa ma zelante prefetto della versione attuale del Santo Uffizio, disse che “il rock deve essere purificato dei suoi messaggi diabolici” e che “si oppone al culto cristiano”, mentre un suo dipendente – monsignor Frisina, direttore del Centro Liturgico del Vicariato di Roma e della Cappella Lateranense –, ai nostri attualissimi giorni, ribadisce che il rock “è l’espressione del male”. Vi si scorgerebbe, in questo tipo di musica, la capacità di “liberare l’uomo da se stesso nell’evento di massa e nello sconvolgimento mediante il ritmo, il rumore e gli effetti luminosi, facendo precipitare chi vi partecipa nel potere primitivo del Tutto”.
Tuttavia, le due tesi alla radice di questi comportamenti criminosamente dediti al sopruso sulla persona umana, nonostante la loro affinità evidente, sono caratterizzate da una differenza rilevante: mentre i fondamentalisti islamici attingono direttamente alla volontà divina, la Chiesa Cattolica non disdegna il trucco scientifico, ovvero una teoria della natura da cui far discendere la proibizione. Dal processo a Galileo in avanti – fino ai comitati di “bioetica” attualmente insediati –, alla Chiesa Cattolica un pizzico di scienza non spiace, purché non si arroghi troppi diritti e se ne stia buona buona nel cantuccio dell’ipotesi.
La compagnia dei repressori – in musica come nelle arti in genere – è numerosa, molto più numerosa e più variamente distribuita nel pianeta di quanto si suppone di consueto. Molto più stimata nei salotti intellettuali di quanto non lo siano talebani e tradizionalisti cattolici. Raramente i grandi artisti hanno resistito all’idea di ridurre a norma per gli altri quel che piaceva a loro. Racconta Walter Pater di essere andato a trovare, un giorno, il “grande musicista” Gustav Mahler ritirato in solitudine per meglio comporre i suoi capolavori. Mahler lo accoglie alla stazione e poi, pian piano, se ne vanno verso casa, ma Pater indugia sulla via. È affascinato dall’ambiente naturale. È un posto stupendo quello che si è scovato il suo amico: montagne possenti e paesaggi meravigliosi, un incanto. Ma Mahler lo richiama subito all’ordine: “Andiamo andiamo”, gli dice, “Lascia perdere: ho già messo in musica tutto io”.

Felice Accame

P.s.: Mentre talebani, Ratzinger e i tipi à la Gustav Mahler se la caverebbero alla svelta dicendo che, fatta salva la loro, certa musica ci piace perché solletica il peggio dell’essere umano, la Bencivelli si dà parecchio da fare passando in rassegna tutte le teorie formulate a proposito della musica tutta. Ha una funzione adattiva? Non serve a nulla? Mah. Che cos’è? Da dove salta fuori? È antecedente o successiva al linguaggio? Oppure nasce con il linguaggio? Tutte domande che necessitano di una definizione univoca dei termini che le costituiscono. A volte, la riposta è resa impossibile dalla formulazione stessa della domanda. Per esempio: e se al posto di chiedermi “cosa è la musica?” mi chiedessi “come opero mentalmente per costituirmela?”.