rivista anarchica
anno 37 n. 327
giugno 2007


 

“Salvador, 26 anni contro”,
un film

Oltre trent’anni fa, il regime franchista ormai agonizzante, insieme al suo titolare, spezzò con il garrote la vita di un ragazzo di 26 anni che all’anagrafe si chiamava Salvador Puig Antich, “El Metge”, anarchico, militante del MIL, Movimiento Ibérico de Liberación. I giudici, sappiamo, ignorarono gli appelli internazionali e la mobilitazione politica e perfino umanitaria in suo favore. Anche la voce di Paolo VI, il papa ipoteso che qualche giorno prima s’era mostrato in Aula Nervi con un copricapo da pellerossa, restò inascoltata. Salvador Puig Antich sarà infatti garrotato il 2 di marzo del 1974.
Lo seppelliranno in tutta fretta l’indomani nel cimitero di Montjuic, una collina di calcare, dove il rosso dei garofani svanisce sullo sfondo della roccia, davanti al mare, lo stesso luogo dove si trova la tomba vuota di Durruti. Quel giorno, nonostante le cariche dei poliziotti, ugualmente i suoi compagni delle organizzazioni libertarie catalane porteranno in strada le bandiere rosso-nere.
La memoria è un lavoro che dovrebbe spettare a chiunque. Ma ad alcuni preme forse un po’ di più.
Così, nel ricordo di alcuni Salvador Puig Antich resiste immobile in un pianeta ideale, che è poi il pianeta dei coetanei della storia, abitato da coloro che ne hanno condiviso la rivolta, o comunque il sentire, insieme ai vecchi volti della Spagna repubblicana e antifascista. I fotogrammi tarlati della guerra civile, certo, anche i giorni dell’esilio, e poi i volti di coloro che dovettero consegnare le armi varcando il confine dei Pirenei, quando ebbe appunto inizio l’esodo dei vinti.
Nella linea di successione della rivolta libertaria, dopo Buenaventura Durruti e Francisco Sabaté, “El Quico”, alcuni di noi hanno appunto incontrato la storia e il dolore per la morte di Salvador, un ragazzo del ceto medio cittadino, l’anarchismo militante iberico finalmente in jeans, un viso del Sessantotto giunto anche nella Barcellona ancora franchista.
Meglio: hanno riconosciuto la sua fototessera, la stessa che veniva riprodotta sui poveri volantini che in quel 1973 servivano a chiederne la liberazione, la salvezza; non la grazia, sia chiaro, e questo perché ingenuamente molti ritenevano allora che il patibolo spettasse di diritto a Francisco Franco, assassino dal corpo e il passo di pinguino, le mani sudaticce di sangue. In nome dei suoi crimini.
Nella sua fototessera, Salvador Puig Antich era davvero un nostro compagno, un ragazzo che combatteva una dittatura fascista e clericale ormai ridotta all’osso. Era, il suo, se così può dirsi, ribadisco, l’altro Sessantotto, il più segreto, il più duro, e forse ancor più necessario e doveroso di quello che avveniva nei paesi che avevano già abbattuto il fascismo.
Molti anni dopo, visitando l’Ateneo libertario di Barcellona ne ho ritrovato il volto, sì, il viso di Puig Antich, proprio il suo viso di ragazzo in camicia chiara, accanto a un altro scatto dove l’uomo che in clandestinità si faceva chiamare “El Metge”, sta in sella a una moto di grossa cilindrata, il sigaro fra i denti, e così sorride, come un giovane che non puoi fare a meno di immaginare insieme alla sua ragazza sulla spiaggia di Barceloneta; la scena di un puro e semplice tempo di pace sociale, il miracolo di un’estate della vita, non ancora minacciata dal garrote.

Le pagine 3 e 5 di “A” rivista anarchica n. 26 (gennaio-febbraio 1974)
in cui si parlava dell’attentato dell’ETA all’ammiraglio Carrero Blanco
e della vicenda di Salvador Puig Antich, garrrotato nel marzo
successivo. Veniva anche citata la storia di altri due anarchici,
Granado e Delgado, condannati ingiustamente e garrotati nel 1963.
In Spagna si è creato un movimento per la riabilitazione di questi ultimi
(vedere il sito http://www.cgt.es/granadoydelgado)

Nei giorni del liceo, la sua storia mi era giunta invece proprio attraverso la copertina di “A-Rivista anarchica”, distribuita durante i cortei dagli anarchici, lì Salvador figurava accanto a Giuseppe Pinelli. Arriverà poi l’attentato dell’ETA a Carrero Blanco. Andrà a segno, e allora non rimase che festeggiare, nella convinzione che la storia fosse finalmente in cammino per noi, nel verso giusto, lo stesso che aveva ventilato Durruti citato infatti dai situazionisti: le rovine non ci fanno paura, noi erediteremo il mondo.
Sulla Rambla, molti anni dopo, trascinato da questi stessi pensieri, ho acquistato un libro dove Salvador sembrava non averci mai lasciati, nonostante la sua fototessera di sempre figurasse accanto a quelle di altri suoi compagni morti, facce da casellario politico, facce da blouson noir, vinti, certo, eppure mai riconciliati, facce patibolari appunto, facce di rivoluzionari di professione, Salvador no, forse Salvador, chi può dirlo, era soltanto un ragazzo che voleva fare esperienza della vita, ribellione pura, forse, se solo il garrote non lo avesse ucciso, oggi mostrerebbe lo stesso disincanto di coloro che hanno assistito alla fine del movimento libertario di massa laggiù in Catalogna.
Ora però è arrivato il momento di fare ritorno al suo ricordo attraverso un film che ne racconta la storia, “Salvador, 26 anni contro” di Manuel Huerga. C’è la Spagna dei primi anni Settanta. C’è il racconto del Movimiento Ibérico de Liberación, il MIL dove Salvador militava, le rapine realizzate per finanziare l’organizzazione, gli occhi della polizia politica, il poliziotto ucciso il giorno della cattura di Salvador, c’è l’attesa della grazia, una grazia che non sarebbe mai arrivata perché un regime morente, com’era quello di Franco, non può permettersi d’essere neppure clemente. O forse, come sostengono alcuni amici conosciuti a Barcellona, Franco era già morto, ma la consegna era che non lo si venisse a sapere, affinché lo champagne che da quasi quarant’anni i compagni tenevano pronto in frigorifero perdesse ogni sapore.

Fulvio Abbate

 

 

Pensare il
mondo futuro

Forse non spetterebbe al traduttore, come tale, esprimere giudizi sul testo (Michael Albert, Oltre il capitalismo, Elèuthera, Milano 2007) che ha appena finito di volgere in italiano. Ma in questo caso il traduttore è ideologicamente coinvolto e spera che le proprie opinioni possano essere di qualche interesse per il potenziale acquirente, ideologicamente coinvolto o no che sia.
La prima impressione è di qualche perplessità. Fin dall’inizio l’Autore (che si rivolge dichiaratamente a un uditorio libertario) salta a piè pari il problema della transizione alla società definita come “desiderabile”, affrontando subito quello della sua possibile organizzazione. Tuttavia, addentrandosi nella lettura, ci accorgiamo che tale approccio non deriva da una volontà di semplificazione quanto dallo scopo particolare che il libro si prefigge, che è quello di fornire un’immagine il più possibile articolata di una società “altra”, desiderabile non soltanto perché antitetica a quella attuale, ma perchè rappresentazione “pratica”, attuazione, dei nostri desideri. Infatti, il punto di partenza di tutto il discorso è costituito, già nel primo capitolo, dai valori (solidarietà, diversità, equità, autogestione) che nelle società attuali vengono calpestati e che invece noi vorremmo vedere realizzati.
Micheal Albert capovolge il vecchio razionalismo anti-utopia dal quale anche gli anarchici non sempre sono immuni, quando rimandano al “dopo la rivoluzione” i dettagli dell’organizzazione libertaria, e fa propria (pur senza dichiararlo esplicitamente) la più moderna rivalutazione della dimensione utopica come momento propositivo. Ma, direi, va oltre. Quella che ci propone (e man mano che scorrono i capitoli il lettore se ne rende conto) non è la semplice descrizione di una società ideale, ma il panorama appassionatamente variopinto di un modo diverso di decidere e produrre, di lavorare, di stare insieme e, alla fine, di vivere. L’aspetto strettamente economico (organizzazione dei luoghi di produzione, equilibrio tra mansioni direttive ed esecutive, modalità di retribuzione), che pure è importante tanto che da esso deriva il nome (parecon, economia partecipativa) con cui Albert sinteticamente identifica la propria concezione, non è l’unico a essere preso in considerazione. Molte altre manifestazioni della vita associata, a volte anche apparentemente “secondarie” rispetto all’economia (istituzioni politiche, relazioni tra i sessi, cura della prole, criminalità e polizia, informazione giornalistica, sport dilettantistico e professionistico, …) sono oggetto di riflessione alla luce dei valori di riferimento, cioè chiedendosi per ognuna di esse “come dovremmo organizzarla perché, anche in quel caso, i nostri valori-guida siano rispettati?”.
Diciamo subito che non è detto che le argomentazioni di questo libro siano univocamente convincenti e che ogni singola proposta debba necessariamente essere condivisa da tutto il pubblico di orientamento libertario. Personalmente, ad esempio, trovo che il progetto di programmazione economica partecipativa, così come viene descritto, sia un po’ troppo “piramidale” per i miei gusti, nonostante i rapporti dichiaratamente non dirigistici tra i vari livelli decisionali. E sono convinto che alcuni lettori di questa rivista non si troveranno d’accordo di fronte all’odio viscerale nutrito da Albert per il mercato, di cui non è prevista alcuna possibile variante se non quella capitalistica, oppure di fronte al permanere di aperture al marxismo (al quale comunque non sono lesinate critiche). Così come altri, in terra italica, potranno ritenere eccessivamente “americana” l’attenzione tributata alle problematiche della competizione sportiva e allo sport in generale.
Inoltre, è anche giusto notare che alcune importanti soluzioni organizzative (importanti perché stanno alla base delle strutture intorno a cui è costruita la società immaginata da Albert) provengono dalla tradizione strettamente libertaria, ma l’Autore non vi fa cenno né esprime qualche considerazione al riguardo. Consigli operai, autogestione, decisionalità dal basso, mansioni multiple bilanciate (riformulazione, questa, della “rotazione tra incarichi manuali e intellettuali”, di buona memoria) sono proposti al lettore senza una parola che alluda ai vincoli ideologici che legano questi concetti all’anarchismo, all’interno del quale hanno preso forma e consistenza fino a costituirne un indiscutibile fattore caratterizzante.
Non so se questo mancato riconoscimento sia inconsapevole, dovuto a trascuratezza nella documentazione, oppure sia voluto, per mantenere l’argomentazione nei limiti dell’essenzialità. So comunque che si manifesta anche nelle già ricordate critiche al marxismo, di cui è più volte sottolineato il ruolo ideologicamente funzionale all’ascesa della nuova classe dirigente che sostituisce (o ha sostituito) il capitalismo nel controllo della produzione, ai danni della classe operaia. Nuova classe per la quale Albert conia il neologismo di “classe dei coordinatori”, dilungandosi a spiegarne le caratteristiche, dimenticando però (o fingendo di dimenticare) che essa, col nome di tecnoburocrazia, è da tempo ampiamente identificata, descritta e combattuta, nell’ambito dell’anarchismo e in (prestigiosi) ambienti intellettuali ad esso prossimi. Sicché l’accorato richiamo, rivolto ai militanti anticapitalisti, a fare attenzione nella scelta dei “compagni di strada”, per non contribuire a rimpiazzare una dominazione con un’altra, risulta alquanto appannato nella sua pretesa di originalità.
Tuttavia, il senso del libro non sta nei suoi particolari. Ogni lettore potrà sostituire la propria idea a questa o quella proposta non condivisa ed eventualmente anche arricchire il panorama complessivo di qualche aspetto trascurato e considerato invece importante. Il senso del libro sta proprio nell’implicito invito a partecipare a tale operazione, nella volontà di discutere, approfondire, definire e portare alla luce tutto ciò che è potenzialmente contenuto nei valori di partenza. Non un modello organizzativo cui attenersi per il futuro, ma una “visione” (secondo la terminologia di Albert), cioè un ideale ricco e denso di contenuti, nel quale riconoscersi oggi e per il quale valga la pena di impegnarsi oggi. Un ideale in grado di accogliere tutti i temi e le problematiche provenienti da quella parte della sinistra che, al di là delle differenze, si sente accomunata dai valori di solidarietà, diversità, equità e autogestione.
In altri termini, quella che Albert lancia è una specie di sfida alla capacità immaginativa della sinistra libertaria. Non dobbiamo aver paura, egli dice, di immaginare la società che vorremmo costruire. Al contrario, dobbiamo sforzarci il più possibile di descriverla in tutti i suoi aspetti possibili, senza sentirci condizionati da timori di inadeguatezza, ingenuità, irrealizzabilità. Più dettagliata, articolata e precisa è l’immagine che riusciamo a costruire, più forza diamo alla nostra volontà di cambiamento. Se non ci sforziamo di pensare il mondo come vorremmo fosse, finiamo per accettare il mondo come è.

Roberto Ambrosoli

C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel capitalismo. Ma, dopo il fallimento del socialismo di Stato, c’è un’alternativa? E quale? Da anni Michael Albert risponde: l’economia partecipativa. Cioè un sistema economico che, anziché su una competitività asociale, sull’egoismo individuale, sull’omogeneizzazione delle merci e sulla gerarchia aziendale, si fonda sulla solidarietà, l’equità, la diversità e l’autogestione.
In questo suo ultimo libro, l’autore va oltre gli aspetti strettamente economici e delinea i tratti essenziali di una “utopia realistica”, di una società possibile e auspicabile in cui abbiano un ruolo centrale le persone anziché il profitto. E suggerisce come ne verrebbero radicalmente trasformati il modo di lavorare, il rapporto con la natura, la scienza, la tecnologia, la famiglia, la cultura, l’arte, lo sport, l’educazione…

Michael Albert (1947), una delle voci più autorevoli della sinistra radicale americana e del movimento no-global, è co-fondatore della casa editrice South End Press e della rivista online “Z Magazine”.