rivista anarchica
anno 37 n. 330
novembre 2007


filosofia

Considerazioni disattuali
di Zelinda Carloni

 

A proposito di A proposito di etica, estetica, ecc. Per una nuova visione del mondo (e dell’ecologia).


Elasticità linguistiche

Perché quando siamo in presenza di un’azione deprecabile diciamo che è una “brutta” azione, ovvero se l’azione è stimabile e lodabile diciamo che è una “bella” azione? Perché ci esprimiamo nei confronti di un individuo apprezzabile ed ammirabile definendolo una “bella” persona? Perché parliamo di un “bel gesto” approvando un comportamento? Perché diciamo “ha preso una brutta strada” per indicare una conduzione erronea e pericolosa?
Le interferenze di aggettivazioni che riguardano l’ambito dell’estetica all’interno dei territori dell’etica sono frequenti, ma forse sono qualcosa di più che delle elasticità linguistiche. Appaiono invece come un suggerimento, che parte dal dato incontrovertibile che nell’uso della lingua si riflettono giacenze di significati profondi che contengono assai più che la logica della grammatica.

Interferenze rivelatrici

In realtà queste interferenze sono segni leggibili di un’attitudine del giudizio, in cui etica ed estetica si connettono e diventano omogenee l’una all’altra. Ma questa operazione, altrimenti impossibile, può essere consentita solo da una reale omogeneità di fondo, e non solo accidentale, fra i due ambiti del giudizio.
Uno dei problemi dell’etica è da sempre stato quello di assicurarle valore universale, mentre l’estetica, svincolata da necessità morali, ha sempre operato con maggior respiro e libertà di movimento. Tanto che si è potuta spingere a trattare della natura nei suoi vari aspetti di relazione con l’uomo e l’universo dei suoi sensi.
Facciamo un’ipotesi: l’etica troverà il suo universale se ricondotta all’estetica, e l’estetica sarà la garanzia stessa dell’universalità dell’etica.

Naturalità del giudizio sul bello

Andiamo in dettaglio.
È molto semplice trovare concordi i giudizi su una cosa bella, assai più che su una cosa buona. Se il giudizio richiesto su una cosa non fosse relativo alla sua “bontà” ma relativo alla sua “bellezza”, troveremmo il cammino spianato ad un giudizio concorde. Perché nell’uomo, mentre relativamente al “buono” si sono sovrapposte per millenni stratificazioni di codici diversi e spesso contrapposti, il giudizio sul bello è restato più “naturale” e meno soggetto alla pressione culturale. Gli uomini sentono ancora per istinto i criteri del bello, mentre quelli del buono sono ammatassati e imbossolati da un’enorme mole prodottasi nel tempo di dettami congiunti di altri e diversi soggetti.

Il giudizio morale

Andiamo in dettaglio.
Se vediamo un energumeno prendere a calci e bastonate un bambino, quello che noi percepiamo universalmente (a parte casi patologici), prima ancora di elaborare un giudizio, è una sensazione di disagio profondo, come se si guastasse l’armonia della nostra essenza, come se venisse alterato il nostro equilibrio con le cose, come se fossimo in presenza di una “distorsione”, una “stonatura” nell’armonia di una musica. Questo disagio, che parte da una percezione estetica delle cose, lo riconduciamo ad un giudizio morale: quella è una “brutta” azione. Ma più veritiera del giudizio è stata la sensazione che lo ha determinato, perché immediata, spontanea, irriducibile, incondizionata. Il giudizio morale è la traduzione di una percezione estetica.
Non si tratta di ricostruire un’etica a partire dall’estetica, ché questa “traduzione” non farebbe che codificare le istanze estetiche riproducendo quell’irrigidimento che è causa dell’inadeguatezza dell’etica. Bensì di riconoscere al giudizio estetico valore morale.

Il giudizio naturale

Andiamo nel dettaglio.
L’etica è una forma di razionalizzazione e codificazione del giudizio naturale.
Tutte le forme codificate in campo etico (religione, legislazione, politica) hanno a fondamento il giudizio “naturale” che l’uomo emette sull’ordine delle cose, e prevedono il suo irrigidimento in norme, regole che definiscono ciò che è giusto da ciò che non lo è secondo una scelta di criteri che si sovrappongono a quello che chiamo “giudizio naturale”, sostituendosi ad esso.
Questo ispessimento della coscienza morale dell’uomo, dovuto al sovrapporsi di codici diversi e a lui esterni, fa’ sì che risulti sempre più difficile per lui percepire il giudizio naturale, che sta alla base di ogni forma di giudizio, e che è un giudizio di tipo estetico. Alla base di ogni giudizio estetico c’è il criterio di “piacere” e di “dispiacere”, che porta inevitabilmente a cercare il senso dell’armonia tra noi e le cose. È evidente infatti che l’uomo cerca il piacere e rifugge il dispiacere, e il piacere ci è dato da qualcosa di armonico con noi stessi, che procuri consonanza.
Questo senso armonico noi lo possediamo per natura, ci è dato dall’appartenere alla natura stessa e lo condividiamo con tutte le forme che la natura assume. Il senso dell’armonia è imprescindibilmente legato all’essere stesso della natura, senza il quale non esisterebbe. L’armonia intrinseca nella natura è la sua stessa garanzia di esistenza, ed è la sua forma profonda.


L’armonia

L’armonia è una forma di espressione creativa della natura. La si riconosce nel fluire delle cose e nel loro intendersi omogenee le une alle altre. Le cose si “riconoscono” le une con le altre per effetto di questa armonia. L’omogeneità delle cose, che la natura garantisce, è il presupposto dell’armonia. È ovvio che, all’interno di questo fluire, e proprio come nell’arte, lo spettro di colorazione che può assumere l’armonia è ennesimo, e fatto di tutte le gamme possibili ai nostri sensi: l’orrore e la dolcezza, la serenità e lo strazio, l’incanto e la tragedia sono parti intrinseche dell’esprimersi della natura così come noi la percepiamo.
E dunque, non dimenticando che l’uomo è esso stesso parte della natura, è ovvio che egli disponga di tutti gli elementi necessari per intendere questa armonia, a lui omogenea e quindi nota e conoscibile.
L’arte, l’espressione creativa umana, non è che una forma di imitazione, di riproduzione dell’armonia naturale.
Ma l’arte stessa ci insegna che la perfetta staticità, la perfetta simmetria richiesta dall’etica codificata, non produce armonia. Le piramidi, ad esempio, possono essere e sono maestose, imponenti, grandiose ma non sono “belle”, perché non possono produrre armonia. La loro è una forma statica, e perciò stesso né armonica né disarmonica. In natura, per esempio, la perfetta simmetria è solo una stranezza, un evento particolare ed eccezionale. Essa si esprime invece attraverso diversità e conflitti (di linee, di colori, di suoni, di moti, di eventi, di fenomeni), che creano la dinamica indispensabile all’armonia. Gli uomini sono perfettamente omogenei a questa dinamica, infatti la intendono e la posseggono intimamente.

Geometria dell’etica perversa

Andiamo nel dettaglio.
Norme, regole, diritto, giustizia, ma anche rettitudine, ecc.: sono i termini prìncipi dell’etica applicata. Notiamone una particolarità: benché finalizzati alla sfera dell’etica, tutti questi termini derivano direttamente dalla geometria. Elenchiamo:
norma: ha come etimo “squadra”, che rimanda direttamente all’ortogonalità;
regola: come sopra, ha a che vedere, esplicitamente, con il “regolo”, anch’esso relativo all’ortogonalità;
giustizia: da “jure”, che sta per “diritto”, ma diritto è :tracciato in linea retta;
rettitudine: ciò che è retto, ortogonale.
Appare evidente che le forme codificate dell’etica intendono definirla relativamente ad un criterio estetico (geometrico) razionalizzato. Della geometria vengono prelevate le forme più rigide e prive di interferenze. Ma l’armonia è data proprio dalle “interferenze”, senza le quali c’è una staticità di sensazione che non riesce a condurre al giudizio. Infatti le norme si sostituiscono al giudizio naturale con la propria estetica staticità, bloccandone il processo.
Infatti l’armonia non può essere data dall’ortogonalità, né tanto meno da una linea retta (è impossibile affermare che due rette ortogonali siano “belle”, perché è impossibile formulare un giudizio estetico su una perfetta staticità). Quindi l’applicazione di norme e regole parte, per assunzione dichiarata, in assenza di armonia.

L’armonia dinamica

L’armonia è data dall’ineffabile incontro di forze, eventi, moti diversi, anche divergenti e contrastanti. Certo è che l’armonia ha a che fare con la dinamica e non con la statica. Quindi un criterio di giudizio che abbia come presupposto la staticità è in partenza privo di armonia. Ed essendo tutta l’etica applicata mossa da queste caratteristiche, è palmare la sua intrinseca assenza di armonia relativamente al sentimento umano: non procura e non può procurare sentimenti di “bello”, e quindi di “buono”, ma produce invece delle distorsioni faticose e infelici nel giudizio, e, aggiungo, un laborioso e selvaggio cercare di riconnettere queste distorsioni al proprio “giudizio naturale”, ove sia possibile.
Perché è evidente che l’attitudine al giudizio è innata nell’uomo e spontanea, e dunque una sua forzatura in senso razionale e rigido non può che procurare disagio e alterazione.

Un individuo capace di giudizio

Sappiamo dalla paleoantropologia che in origine l’uomo ha vissuto per centinaia di migliaia di anni in assenza di “norme”, ma non è verisimile credere che egli abbia vissuto anche in assenza di giudizio. Sicché dobbiamo presupporre che egli applicasse il suo giudizio secondo criteri non dettati da regole esterne, bensì da qualcos’altro. Ed è lampante l’ipotesi che egli abbia “regolato” il suo giudizio su una sensazione immediata di piacere e dispiacere (criteri che sono ovviamente precedenti e più assoluti di altri e ulteriori, successivi a questo: per esempio l’utile o il dannoso). Questo giudizio è incontestabilmente un giudizio estetico, e gli era possibile e naturale in quanto possedeva tutti i connotati di conoscenza delle cose e l’omogeneità con esse che glielo consentivano.
Ma un individuo capace di giudizio è un individuo etico; l’uomo quindi possedeva per natura la possibilità di elaborare la sua etica attraverso il giudizio estetico. Ma dal momento in cui egli è divenuto, da individuo naturale, individuo culturale, ha sovrapposto a questa facoltà diretta del giudicare una struttura rigida edificata su norme, regole, leggi.

Staticità degli istituti etici

Guardiamo nel dettaglio quali sono gli ambiti in cui funzionano questi nuovi criteri, e chiediamoci cosa li ha fatti scaturire. Il primo ambito è incontestabilmente la religione: essa è la forma più antica di legiferazione in campo etico. Ma perché è nata la religione, parassita culturale della religiosità? È evidente, in campo antropologico, che il “possesso” di regole e norme di così spiccata importanza, come quelle che amministrano il rapporto dell’uomo con ciò che egli percepisce come sacro, rappresenta di per se stesso un potere straordinario sugli altri uomini. La tentazione, da parte di alcuni, di farsi portatori delle “chiavi di lettura” delle relazioni con il sacro è stata invincibile. Costoro si sono appropriati di questa relazione e si sono istituiti a codice e tramite.
Ma cosa è cambiato per gli altri uomini dal momento in cui questo rapporto è divenuto, da “diretto”, “mediato”? È evidente infatti che prima della religione c’era la religiosità, che consentiva a ciascuno la relazione diretta con il sacro, e su questo permetteva un giudizio immediato. È del tutto verisimile che questa relazione con il sacro fosse legata alla natura stessa, alle sue dinamiche che includevano e coinvolgevano l’uomo. E che per l’uomo fosse sacra l’acqua, la terra, il sole ecc. è intuitivo, e il suo esistere in simbiosi con tutto questo produceva un rispetto religioso connaturato, dettato in primis dalla spinta alla sopravvivenza. Un comportamento “sbagliato” era un comportamento che si percepiva “distorto” rispetto all’armonia suggerita dalla natura stessa. Banalizzando possiamo, per esempio, dire che egli non avrebbe mai contaminato di sterco una polla d’acqua dalla quale si dissetava.
Il successivo proporsi di un sistema di norme che regolasse questa relazione ha sottratto all’individuo la possibilità di orientarsi col proprio giudizio, e questo stesso giudizio è stato affidato ad un “istituto”, cioè ad un individuo costituitosi depositario del giudizio. Da quel momento la capacità di giudizio dell’individuo si è dovuta affaticare a confrontarsi con la norma, si è trovata aggravata da un processo innaturale ma che si presentava come “necessario”, si è indebolita a favore di un individuo (istituto) che si è rafforzato, diventando “necessario” e quindi potente. È, in sintesi, una questione di potere.
Ma di fatto, il giudizio etico che l’uomo prima applicava dettato dall’armonia, dopo di ciò divenne imposto dal rigore (rigidezza, staticità). Dall’estetica (etica) dinamica all’estetica (etica) statica.

Giudizio naturale e giudizio etico

A questo primo istituto di norme relative alla religione è succeduta, quasi come logica conseguenza, l’estensione di queste alla regolazione della vita civile. La partenza è stata un’amplificazione delle norme religiose che andasse ad interessare le relazioni tra gli individui. Nel passato, ma anche nel presente, moltissime norme religiose sono esplicitamente orientate a dettare regole civili. Pur nella evidente arbitrarietà della pretesa, è accaduto che, una volta devoluta, da parte dell’uomo, la propria capacità di giudizio ad una “norma”, se ne accettasse senza riserve l’estensione della legittimità (cedere un po’ vuol dire capitolare) Da quel momento, quello che ho chiamato “giudizio naturale” degli uomini è stato sostituito dal “giudizio etico”, che non ha più conosciuto limiti alla sua pretesa di legiferare. Con il risultato di imporre all’uomo un’etica statica, priva di armonia e quindi di piacere, sopprimendo il “piacere” e il “bello” dal suo giudizio.
Ma finché l’uomo sarà tale, ciò che gli è dato per natura non potrà essere cancellato, e ciascuno di noi possiede sempre e comunque un invincibile “giudizio naturale” che ci fa chiamare “brutta” un’azione e “bello” un individuo, e che quindi rivendica il proprio diritto ostinatamente.

Un’applicazione alla contemporaneità

Questa lettura ci consente, tra l’altro, di capire un apparente paradosso, paradosso al quale ci troviamo di fronte quando notiamo la stortura di dover “prescrivere” all’uomo contemporaneo occidentale, i comportamenti “consoni” (con-sono: armonico) alla sua relazione con la natura. Tutto l’ecologismo contemporaneo sottolinea, ed è esso stesso, una mostruosità, perché evidenzia la necessità di condurre gli individui al rispetto della natura, e la mostruosità consiste, ovviamente, nell’implicita presa d’atto che l’uomo non conosce i criteri della sua relazione con la natura.
Una cosa del genere sarebbe normale se noi fossimo alieni, provenienti da altri pianeti; invece pare si accetti come condizione normale che sia necessario insegnare (in-segno: condurre su una linea, una retta) agli uomini le regole di relazione con la natura. L’ecologismo è una mostruosità che siamo costretti ad accettare perché siamo stati privati del nostro “giudizio naturale”. Per fortuna, però, non della facoltà che lo determina. E al ripristino di questa facoltà in tutta la sua interezza dovremmo tendere, sfuggendo alla tentazione di creare decaloghi comportamentali, ricongiungendoci invece a quel naturale “sentire estetico” di cui siamo portatori.

Zelinda Carloni