rivista anarchica
anno 37 n. 331
dicembre 2007 - gennaio 2008


Dossier Disabilità e Vita Indipendente

Vita Indipendente

Dall’esclusione al diritto alla vita indipendente: un percorso possibile

di Roberto Tarditi

Je me révolte, donc je suis. Albert Camus

Sono un cittadino di 62 anni, dalla nascita affetto da tetraparesi spastica, rinchiuso all’età di due anni al Cottolengo di Torino, una struttura deputata a fornire una residenza a categorie diverse di persone socialmente indesiderate. Luogo sul quale in passato sono stati sparsi (e tuttora) fiumi d’inchiostro; riguardo al ruolo del Cottolengo, molti giornalisti hanno scritto sempre però da un punto di vista pietistico e tendente a ribaltare il reale rapporto tra cause ed effetti. Tutti ponevano l’accento sul fatto che fosse un luogo di sofferenza non già per l’alienante organizzazione dell’esistenza all’interno di un istituto, ma per le condizioni fisiche e mentali dei ricoverati. Ricoverati che, non per mancanza di stimoli ed attenzione, ma sempre per la loro menomazione, avevano lo sguardo vuoto e fisso, si lasciavano vegetare. Così negli anni è nato il mito della Piccola Casa dove mostri innocenti, il cui unico ruolo era di espiare i peccati del mondo con la loro sventura, erano accolti e protetti dalla misericordia di preti, suore e volontari.

Io che al Cottolengo ho passato non qualche ora da volontario, ma ben 35 anni da recluso, posso dire che i “mostri” e i “predestinati alla sofferenza” non esistono. Esistono solo persone con delle loro specificità. Persone che non chiedono pietà, ma solo l’affermazione dei loro diritti, diritti che non devono essere il prodotto di un atto caritatevole ma di un elementare riconoscimento di dignità.

Il Csa (Coordinamento sanità e assistenza tra movimenti di base), che opera nel campo del volontariato dei diritti dal 1970, ha alle spalle un lungo e intenso percorso di rivendicazioni in difesa dei diritti delle persone svantaggiate. Tra le numerose iniziative, ha contribuito a realizzare il nostro sogno. Fu, infatti, il primo ad avviare la deistituzionalizzazione delle persone con handicap. Al fine di realizzare questo obiettivo, propose ed ottenne dall’Assessore alla casa del Comune di Torino l’assegnazione di alloggi dell’edilizia popolare per la coabitazione di persone con handicap che intendevano uscire dagli istituti o non volevano essere ricoverati, stabilendo che i loro punteggi personali potevano essere sommati. La proposta ha consentito a molte persone con handicap anche grave di vivere insieme agli altri cittadini.
Grazie a questa conquista, nel settembre 1981, finalmente il Comune di Torino ha assegnato a me e al mio amico Piero (focomelico sia negli arti superiori che inferiori) un alloggio di edilizia residenziale pubblica. Con l’aiuto dei nostri amici siamo riusciti ad arredarlo alla meglio. All’inizio il problema fondamentale è stato quello di ricominciare una vita, trasformarsi in altre parole da persone passive e assistite a persone attive che devono organizzare, in due, il loro quotidiano. È chiaro che nei primi tempi la mancanza di una struttura protettiva si faceva sentire e, quindi, le paure e le incertezze erano all’ordine del giorno.

Sono già trascorsi quasi 26 anni dalla conquista dell’indipendenza, da quando il cancello della Piccola Casa della Divina Provvidenza – il Cottolengo – si è spalancato per lasciarci finalmente libera la strada verso casa nostra. Ricordo come questa scelta nacque a mo’ di scommessa e come fu vista con scetticismo anche da molti conoscenti; solo pochi amici colsero l’importanza della sfida e ci aiutarono concretamente a superare le difficoltà morali e materiali che si sarebbero presentate quotidianamente alle prime due persone affette da un handicap fisico grave in Torino e che fortemente rivendicavano e lottavano per ottenere la propria individualità, la propria vita e la propria casa.

È traendo spunto dalla nostra esperienza positiva che nel 2000, contestualmente alla pubblicazione del libro “Anni senza vita al Cottolengo” (1) in cui viene raccontata la nostra vicenda, ho costituito insieme ad altre persone l’Associazione “Mai più istituti d’assistenza”.

L’Associazione raccoglie le esperienze e le testimonianze di persone che, sotto diversi punti di vista e modalità, si sono confrontate con la realtà del ricovero in istituti d’assistenza, ricovero nato dalla diversità e dalla debolezza, sia questa dipendente da un handicap che semplicemente legata alla minore età, a situazioni di trascuratezza o abbandono.

Il 1977 fu un anno fondamentale sotto molti aspetti. Forse si potrebbe dire che si trattò del prosieguo più ragionato e meno viscerale del ‘68. Al di là degli innumerevoli cambiamenti che mutarono la società di quel periodo, soprattutto ispirati, ma non solo, all’antipsichiatria di Basaglia e ai movimenti femministi, anche nell’ambito della tutela delle persone disabili stava per avvenire una piccola rivoluzione copernicana.

Prima di allora le varie associazioni erano presiedute da persone che disabili non erano. Era questo l’indicatore più eclatante dell’impossibilità della persona disabile d’immaginarsi come soggetto politico capace di scelte consapevoli. Prima di combattere il pregiudizio negli altri c’era la necessità di rimuovere gli ostacoli che in ognuno di noi disabili si frapponevano tra le nostre esigenze di persone e il nostro riconoscerci come soggetti di un cambiamento che doveva vederci come protagonisti e non solo come fruitori.

Nel ’70 videro la luce i primi gruppi di coordinamento e comitati spontanei in tutta Italia di persone disabili che volevano combattere in prima persona per i propri diritti. Tra questi, a titolo di esempio e anche perché vi feci parte, a Torino il C.A.H. (Coordinamento Autogestione Handicappati) di cui riporto una parte dell’articolo che potrebbe essere considerato il manifesto:

Le persone di cui questo giornale vuole essere espressione, hanno scelto di definirsi collettivamente, “Coordinamento Autogestione Handicappati”, e di lavorare assieme, di lottare assieme perché hanno in comune il problema dell’emarginazione, poiché, in maggioranza, sono colpite da handicap fisico o sensoriale e intellettivo.
Secondo noi gli handicappati, da qualsiasi tipo di minorazione siano colpiti, hanno in comune degli interessi generali che sono identificabili nel diritto alla vita, ed in particolare nel diritto allo studio, al lavoro, al divertimento, all’amore, all’avere un’abitazione accessibile ed economica, al potersi muovere liberamente nella città.
In realtà, molti dei nostri problemi non sono specifici ed esclusivamente nostri (cioè solo degli handicappati) ma sono propri a tutti gli emarginati, a tutti gli sfruttati cioè, a tutti coloro che questo tipo di società in cui viviamo, questo tipo di organizzazione dei rapporti di produzione esclude dalla gestione del potere e tende a privare dello stesso diritto alla vita.
(dal giornale Contro-emarginazione).

Questa conquista è stata fondamentale ai fini della nostra autonomia: molti di noi hanno cominciato a frequentare scuole, a recarsi da soli al lavoro, a partecipare a riunioni, a compiere atti quotidiani come far la spesa, recarsi in visita ad amici, andare al cinema, in pizzeria… a vivere insomma. Per qualcuno questo è stato il presupposto necessario per trovare il coraggio di scegliere una vita fuori da una struttura protettiva: è il caso mio e del mio amico Piero che, dopo una vita intera (35 anni io e 24 lui) trascorsa nel protettivo ma annientante Cottolengo, siamo riusciti ad uscirne fuori faticosamente, passo dopo passo, grazie anche alla decisione di ricominciare a frequentare, come esterni e avvalendoci proprio dell’importantissimo servizio dei buoni taxi, la scuola, l’Istituto Magistrale nello specifico.

Nella nostra scelta d’autonomia non fummo abbastanza supportati dalle istituzioni, che anzi spesso opposero una resistenza frutto della solita cultura incapace di mettere in discussione sclerotizzati pregiudizi. A mo’ d’esempio mi viene in mente un episodio: un giorno bloccammo l’entrata del Municipio come protesta per ottenere attenzione sui nostri diritti esigibili. Il Sindaco di allora uscì dal suo ufficio con una frase infelice ma in perfetta rappresentanza di quella cultura ancora maggioritaria che vedeva le persone con handicap come incapaci di essere attivi e partecipare in prima persona al cambiamento storico della società civile, e che piuttosto dovevano rimanere ancora rinchiusi a proteggersi e soprattutto a non disturbare con gli interrogativi che inevitabilmente avrebbero posto: “se volete miracoli: girate l’angolo, andate alla Consolata o al Cottolengo”.

Nel campo psichiatrico forse qualcosa, seppure in sordina, si muoveva, invece nel campo degli istituti d’assistenza nulla o quasi nulla mutava. A Torino la situazione non differiva molto dal resto dell’Italia: nessun amministratore aveva deciso di prendere in mano competenze e responsabilità che gli spettavano. A quel tempo, da non molto operava il C.S.A – Coordinamento Sanità e Assistenza fra i movimenti di base –, che raggruppava (e raggruppa tuttora) varie organizzazioni. Fu, quell’epoca, il CSA a suggerire di inserire nel nostro programma di rivendicazioni, tra i primi punti, la richiesta per la realizzazione di comunità alloggio per 6/8 persone con handicap grave. L’idea semplice ma rivoluzionaria era d’indurre amministrazioni locali e governo ad investire le risorse non più secondo la vecchia logica di dare i soldi alle megastrutture in cui si ammassavano casi con patologie simili e non persone, per creare invece servizi quali l’aiuto domestico ed economico dove possibile, o altrimenti piccole comunità di non più di 8 persone in cui mantenere la dimensione umana dell’assistenza. All’epoca, devo ammetterlo, per me che ancora vivevo al Cottolengo, quella sembrava una proposta difficilmente realizzabile. Negli anni al contrario si ottenne molto più di quanto non avessi creduto allora, ma meno di quanto avessimo programmato e di quanto sia necessario ancora oggi: la tentazione per le strutture immensamente grandi (e immensamente deleterie) non si è mai del tutto sopita e anzi a volte riemerge perniciosa come sempre.

Abbiamo dunque aperto una strada per quelle persone fisicamente gravi che scelgono di intraprendere una vita indipendente. Eppure le difficoltà non si sono esaurite. Piero ed io, come pionieri, siamo molto preoccupati per il nostro futuro e per quello delle altre persone, come noi, che usufruiscono di alcuni servizi indispensabili e vitali per continuare a vivere in casa propria.

Roberto Tarditi

Nota

  1. Le Autrici del libro, edito da Rosenberg & Sellier, sono Emilia De Rienzo e Claudia De Figueiredo.



A Comiso in carrozzina*

di Gian Lanza e Roberto Tarditi

Alla fine dello stesso anno Roberto e Piero escono dal “Cottolengo” per tentare l’avventura di una vita autonoma in una casa. E le cose sembrano andare bene. Dopo due anni che conducono questa vita decidono di tentare un’altra avventura: fare un viaggio con due loro compagni di scuola “sani”. Si pensa di unire l’utile al dilettevole e si sceglie Comiso. La Sicilia e il nucleare.
Ma non tutto è cambiato come sembrava in questi anni; la mentalità rimane quella di sempre nei confronti di due poveri handicappati. Il viaggio lungo e faticoso; gli sguardi della gente che viaggia insieme a loro sul treno è ancora più faticoso da sopportare. Questo succede soprattutto quando Piero — focomelico — si accende una sigaretta o mangia.
Un passeggero come tanti osserva, medita e partorisce una fulgida idea: “Lo Stato dovrebbe fare un istituto per mettervi insieme tutti quanti, così vi tenete compagnia!”. Piero: “Ma come! Ne siamo usciti appena due anni fa e voi volete di nuovo mandarci?”. Il passeggero meravigliato e tranquillo: “Perché, non si stava bene in istituto?”. Roberto-spastico — non riuscendo più a stare zitto esplode: “Noi siamo persone come voi, che vogliono vivere la vita come tutte le persone di questo mondo e non come bestie dello zoo alle quali voi andate ogni tanto a portare caramelle e noccioline! Perché non andate voi a vivere in istituto? O volete metterci tutti ben chiusi insieme perché vi dà fastidio il nostro essere brutti?”.

Vista la reazione violenta di Roberto, i passeggeri dello scompartimento annuiscono ed approvano con calore, dimostrando in realtà di non avere per nulla colto il significato del discorso. Alle cinque del mattino, dopo almeno altre cento peripezie (visite guidate da vari scompartimenti per vedere i “mostri”, tre cambi di treno con tutto quello che comporta, ecc.) approdano a Comiso ma il campo non è in vista....
A sentire i cittadini sospettosi, il campo dista prima un chilometro, poi tre, poi sette (l’ultima informazione quella esatta). Insomma, a seconda della persona cui si rivolge la domanda, la risposta varia. Il perché non chiaro. Comunque dopo sette faticosissimi chilometri (fatti a piedi, con i due “sani” che allegramente spingono le carrozzelle nonostante i ripetuti inviti ad andarsene ricevuti da qualche benpensante affacciato al finestrino di un’auto in corsa: “Handicappati, tornate a casa vostra!”) i nostri giungono finalmente alla base missilistica. Qui si uniscono agli altri manifestanti venuti da tutto il mondo per protestare contro l’installazione dei missili. Vi rimangono due giorni. Due giorni eterni. Dopodiché, a causa delle difficoltà pratiche incontrate (sabbia, fango, ecc.) non certo favorevoli alle possibilità fisiche delle due persone disabili, decidono di ritornare a Comiso paese.
In questi giorni la temperatura staziona sui 45° e il sole è implacabile. Roberto propone agli altri tre di fermarsi a cercare refrigerio alla fontana che troneggia nella piazza del paese. Anche Piero e Roberto decidono di esporre le loro grazie alla luce del sole e di rimanere in calzoncini corti. Quando giunge per Roby il desiderato momento di essere preso a secchiate di acqua fresca, si sente apostrofare da una matura rappresentante del gentil sesso locale:

“Figghiu miu! Non vedi in che stato sei? Vattinne a casaaaasaaa!”. Subito a lui viene spontaneo ribattere: “Ma fatti i cazzi tua!” (dimostrando una certa padronanza del linguaggio indigeno), offendendo le orecchie oltre che la vista della beghina in nero. A puro scopo informativo si aggiunge che in seguito si viene a sapere che la signora è madre di un handicappato. Forse che il destino di tale figlio, visto che anche lui probabilmente non è presentabile, quello del segregato a vita?
Le cose fino a qui raccontate sono, se vogliamo, solo note di colore sul costume sociale ma crediamo rispecchino profondamente la mentalità comune che non si modificata nel corso del tempo. Se uno è “diverso”, non produttivo, non “presentabile”, in poche parole non secondo la norma, o va rinchiuso, o al massimo gli si può dare un poco di pietà mielosa. Difficile che gli si riconosca il diritto a costruire la propria vita con gli altri.

Con le capacità, tutte, di cui è provvisto.

Concludiamo.

1981 anno dell’handicappato. 1983 dell’anziano. Ogni anno l’anno di qualcuno, a seconda delle preferenze dell’O.N.U. Importante è che sia “diverso”. Uno a cui potere dare, dal di fuori delle sbarre, caramelle e noccioline. Ogni tanto.

Per la pace della propria coscienza.

Gian Lanza e Roberto Tarditi

  1. L’articolo è stato pubblicato sul quindicinale saluzzese “La Pagina”, settembre-ottobre 1983.