rivista anarchica
anno 38 n. 332
febbraio 2008


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Higelin:
i padri, i figli, la gioia e il delirio

Siamo a Sanremo a una delle conferenze stampa del Premio Tenco 2007.
In cattedra c’è un pazzo scatenato che urla, si agita, fa per versarsi un bicchiere d’acqua e lo rovescia, si bagna, bagna tutt’attorno, inveisce, si commuove, manda di lontano baci a una donna (la sua?) che ride in un angolo, si sposta in continuazione i ciuffi di capelli grigi sulla fronte, si alza, si risiede, prende in giro l’attuale presidente della repubblica francese, inscena un grottesco balletto per celebrare la moglie del suddetto presidente che ha avuto l’ottima idea di divorziare: “La, la, la, la (canta) per Cecilia che ha mollato Sarkozy: io detesto personalmente Sarkozy perché è come Berlusconi, è un bugiardo.” E invia al suo presidente un eloquente dito medio, mentre crepitano le macchine fotografiche dei giornalisti italiani... praticamente un traditore della patria ’sto tizio! “Sarkozy vuole mangiarsi il mondo. Vuol essere dappertutto, onnipresente, perché non sopporta che ci sia gente senza governo. Quell’uomo non si ama affatto... si adora e non è proprio la stessa cosa. È un malato, un malsano che ha un problema enorme, non può amare gli altri e rispettarli. Dunque io non lo rispetto”.

Dolce e ribelle

Il pubblico ride, ma probabilmente pochi sanno di non avere a che fare con un mattoide qualunque, con un eccentrico, bensì con “il provocatore” per antonomasia, l’iconoclasta dolce e ribelle, il rocker che ha rivoluzionato la canzone francofona: Jacques Higelin. È una figura straordinaria e unica, un ricercatore di strade nuove che conosce a usa i meccanismi della canzone classica.
È un personaggio indispensabile alla storia della musica francese, quando Higelin irrompe sulla scena, sul finire degli anni ’60, la gloriosa vicenda della chanson à texte, la canzone poetica, si trova a una impasse: il dilagare del rock, nella versione autarchica dello ye-ye di Johnny Halliday, ha costretto nella nicchia i cantautori che non siano già assurti al ruolo di classici.
Higelin, spirito inquieto di attore e di musicista è l’uomo giusto al momento giusto: indiscutibilmente lontano dagli stilemi incravattati dei suoi predecessori, in un eclettismo musicale che non disdegna la ricerca più rigorosa come il più bruciante e apocalittico hard-rock, porta un talento poetico, una fame di sensazioni, una rabbia allegra che gli fanno produrre testi sempre in bilico fra il realistico e il visionario.
Viene scoperto dal più importante talent scout della musica d’oltralpe, Jacques Canetti, che lo fa esordire con canzoni inedite di Boris Vian, poi diventa l’artista feticcio della musica indipendente dei primi anni ’70. Nel ’74 firma con la EMI e si converte al ruolo di rocker su un intreccio di blues acustico e chitarre violente. È il giro di boa: Higelin diventa l’artista del momento. I suoi dischi, prodotti a una cadenza impressionante nel decennio 75/85, saranno sempre più vari, e pur continuando a strizzare l’occhio all’hard-rock, vi si trovano intrecci progressivi e cavalcate meticce fra il cajun e la musette. I testi intensi, dilanianti, grotteschi alternano momenti di pura gioia, canzonette surreali da fischiettarsi per strada e truculente danze di guerra.
Il successo appare culminante negli spettacoli che Higelin tiene nei palazzetti, portandoci, da vero idolo delle folle, un istrionismo clownesco, la sua voce catramosa, le lunghe improvvisazioni sonore e infiniti monologhi di puro delirio, testimoniati nei dischi live di cui Higelin a Mogador, con le sue sei facciate, è la testimonianza più straripante. Il personaggio, musicalmente, poeticamente e scenicamente è un eccessivo, ma il suo talento è indiscutibile. Dalla metà degli anni ’80 qualche album meno ispirato sembra segnare il tramonto di Higelin, che ritrova puntualmente un pubblico affezionato nelle piccole sale, ma che non ripete più i bagni di folla di un tempo… e forse nemmeno li cerca.
Intanto la canzone d’autore francese è stata traghettata verso un rock maturo e pregno di poesia, i cui massimi rappresentanti, nelle loro diversissime attitudini – da Alain Bashung ad Arno, da Les Rita Mitsouko ai Tetes Raides, dai Negresses vertes ai Noir desir – sono tutti debitori di Jacques Higelin.

Jacques Higelin

Gli amici dei primi anni...

L’ultima trasformazione di questo artista lo vede tornare sulla primitiva passione per la ricerca assolutamente slegata da criteri commerciali. Il prestigioso riconoscimento del Premio Tenco lo porta in Italia e mi da l’occasione di fare due chiacchiere con lui.

Alessio LegaHo l’impressione che tu abbia iniziato la tua carriera facendo ricerca e fottendotene delle finalità commerciali, poi dalla metà degli anni 70, senza rinunciare alla qualità, hai fatto opere più popolari...

Jacques Higelin – Il periodo delle grandi folle non è stato necessariamente il mio migliore, perché si può diventare prigionieri della notorietà... è faticoso, è una trappola. Ed è strano perché non tutto te stesso è d’accordo nel voler cadere in questa trappola, io lo capivo mentre mi ci cacciavo, non ero un ragazzino, all’apice del mio successo avevo già 38, 40 anni.

Secondo me è un bel periodo del tuo lavoro, perchè le grandi folle ti hanno permesso di avere un atteggiamento più di provocatore che di divo, ed è in quel periodo che tu hai fecondato il rock francese con la poesia della canzone.

Beh non ero proprio il solo a farlo.

Gli altri son venuti dopo, penso a Thiéfaine o ad Alain Bashung, che io reputo il genio musicale più innovativo in circolazione.

I miei fratellini che sono diventati grandi! Beh, c’è stato uno scambio: artisti come loro hanno forse preso qualcosa da me, ma mettendomi di fronte la loro costante ricerca oggi m’impediscono di ripetermi.

La ricerca del successo non ti ha distolto dalla purezza musicale dei tuoi inizi?

No. Quando parlavo delle trappole non mi riferivo esattamente a questo, perchè ti trovi sempre necessariamente solo davanti a te stesso per scrivere.
Gli amici dei primi anni, che hanno sempre continuato a fare ricerca senza cercare il pubblico, li rispetto perché è la loro natura e bisogna rispettarla: c’è gente timida, gente riservata, gente che ha paura di prendere la macchina, di traversare la strada, salire in ascensore... A me però il mestiere del teatro, che faccio sin da ragazzo, ha dato il talento di prendermi la scena, prendermi la sala, parlare liberamente in pubblico...

E dolcemente delirare, che è una delle tue caratteristiche più evidenti.

Ma è bello il delirio! Svela lati della vita che altrimenti non si possono cogliere. È parte della verità. È la libertà che ti permette di dire cose non ferme, non chiuse. È come Artaud che aveva sempre l’aria di delirare, ma diceva cose assai vere, tanto vere che nessuno aveva voglia di sentirle.

Tu non hai mai avuto paura che la tua follia prendesse il sopravvento?

No, non ho mai avuto paura delle mia follia e nemmeno di quella dei pazzi. Ne ho incontrati, anche di molto violenti: una volta c’era un tizio che mi aveva afferrato, mi teneva la testa e voleva sgozzarmi... l’ho guardato e con lo sguardo è passato qualcosa di più forte, non mi ha ucciso.
È di un’altra violenza che ho paura. L’11 settembre del 2001 mi ha dato uno choc, ho immediatamente intuito che si correva verso una guerra totale. Io sono nato nel ’40, poi a vent’anni sono partito soldato in Algeria, ho il più profondo orrore e terrore della guerra che scatena ciò che c’è di peggio in noi, dunque non bisogna in nessun caso scatenare la guerra, perchè dopo è come un mostro, nessuno più può fermarla.
La guerra… quella cosa sporca che comincia fra l’uomo e la donna, ed è sempre un problema di potere. Scatena la violenza dei violentatori. Per me quando un uomo picchia una donna è già la guerra. Quando qualcuno approfitta della propria forza per colpire qualcun’altro, anche dietro la maschera dell’amore, è sempre l’inizio della guerra. Il possesso è già guerra. La gelosia che è possesso è già guerra, è già violenza. Nessuno ci appartiene.

In una grande manifestazione

Il possesso è una parola molto vicina a un’altra che noi anarchici detestiamo: il potere...

H: Il potere è la vera roba da fottere in aria... l’unico potere rispettabile è quello su sé stessi. Tutti gli altri poteri non funzionano, nemmeno come sistemi di controllo, perchè obbligano gli altri ad essere dei cortigiani, e nelle coppie obbligano ad esser schiavi l’uno dell’altra, a volte senza accorgersene. L’amore è liberazione, se si ama qualcuno bisogna assolutamente passare attraverso l’amore si sé stessi. Io ho sempre desiderato di essere qualcun’altro... ma ciò non è possibile, dunque tocca amarsi e così si finirà per amare. E se si ha voglia di uscire, da una casa o da una storia, bisogna farlo altrimenti si comincia a mentire. La fiducia muore.

Mi pare che il tuo discorso contro il potere coincida per larga parte con ciò che dici anche nelle canzoni d’amore.

Si parla sempre d’amore. Non ho mai visto un poeta parlare d’altro... sempre l’amore, la rivolta e la ribellione.

Ed è questo che mi piace del tuo lavoro, che anche laddove c’è un grido di rabbia non è mai rancoroso, anche in Allertez les bebes che è la tua canzone forse più rivoltosa c’è una grande vitalità.

È la celebrazione di qualcosa che ho visto un giorno… e li ho proprio visti (e comincia a cantare, solo per me, lì sul balcone del teatro Ariston dove facciamo la nostra chiacchierata):

Centomila ragazzi
Serrare nei pugni chiusi
I brandelli dell’amore in rivolta

Sono versi positivi, io ho visto quei centomila, li ho visti in una grande manifestazione.

La lotta, in canzoni come queste, non appare un atto minaccioso ma creativo.

Un atto gioioso, la gioia di lottare e poi lottare ancora. Senza lotta c’è la rassegnazione: ti pieghi e inevitabilmente cadi...

Inciampa, andandosene verso il palco, e forse cade anche spesso Higelin distratto com’è, ma non si piega mai, non rinuncia alla memoria che lega i padri e i figli e che gli fa rispondere a una domanda di Enrico de Angeli sul rapporto che lo lega ai mostri sacri della canzone che lo hanno preceduto.

C’è sempre una filiazione da Brel, Brassens, Ferré, Barbara, Nougaro... i nostri fratelli maggiori, e Trenet soprattutto, il padre che ha aperto la porta al ritmo. È sempre compito di un poeta aprire la porta e dare aria da respirare. Questi poeti sono l’eterna giovinezza del mondo: Rimbaud è sempre là. Chi ci ha preceduto non è mai morto, è là in permanenza, è un seminatore di grani. Gli artisti sono persone abitate dalla grazia – spesso giovani, come Mozart – ed esistono per controbilanciare gli orrori del potere, della guerra, della vendetta e di tutte le cose che sono brutte e rendono cattivi e brutti.
Ma mica solo gli artisti! In ogni concerto io so che ogni persona, artista o spettatore, è indispensabile e anche se non è dotata per il canto: ci sarà chi cucina in maniera divina... chi fa qualche altra cosa... e anche chi non sa fare niente, ma sa essere felice che è già una cosa enorme. È quello che chiamiamo pubblico e che viene a sostenerci.
E se un giorno nessun pubblico sarà più lì per sostenere me, allora finirò nella spazzatura... ma in fondo anche la spazzatura mi piace, mi piace molto!

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it