rivista anarchica
anno 38 n. 332
febbraio 2008


Mapuche

La lingua della Terra
di Leslie Ray

 

Un popolo dimenticato e oppresso tra Argentina e Cile, in lotta per la propria dignità e contro gli interessi delle multinazionali (anche italiane).

Bio Bio chiama sorelle le nubi, e parla loro del suo corpo svuotato, prigioniero della diga. Pewen Nuke e Pewen Wentru, gli alberi araucaria araucana, chiamano sorelle le nubi e parlano loro dei loro corpi abbattuti da macchine moderne. Mawida, la montagna, chiama sorelle le nubi e parla loro del saccheggio dei suoi visceri. Mapu Nuke, la Madre Terra, ferita e ammalata, sente il dolore dei suoi figli e figlie le cui vite sono state rubate.
Leslie Ray è scrittore e traduttore. Vive a Cambridge, in Inghilterra,
e visita l’Argentina regolarmente dagli anni ottanta.
Il risultato di sei anni di ricerca, “Language of the Land”,
è il primo libro di ampio respiro sul popolo mapuche pubblicato
in lingua inglese, di cui pubblichiamo qui l’introduzione

Questo libro parla di un popolo fiero e della sua lotta a oltranza per l’identità e la dignità nelle sue relazioni con i due stati dell’angolo più a sud del Sud America, l’Argentina e il Cile. Della sua lotta per parlare la propria lingua, la lingua della terra.
I Mapuche sono un popolo orgoglioso, che ha resistito agli invasori spagnoli per più di tre secoli fino a che, negli ultimi decenni del 19° secolo, capitolò di fronte a un attacco a tenaglia da parte degli eserciti delle due nuove nazioni.
Dalla capitolazione in poi hanno subito un ridimensionamento; una letterale “riduzione”, inizialmente, visto che le riserve in cui furono deportati dopo la conquista erano note come reducciones. E in effetti sono stati ridotti in molti sensi e modi: ridotti alla lotta per la sopravvivenza nelle loro comunità rurali, minacciati da proprietari terrieri e da multinazionali senza scrupoli, o ridotti a guadagnarsi da vivere ai margini delle città come braccianti o domestici.
Insieme all’orgoglio, un altro aspetto del carattere Mapuche è la sfiducia nei winka (i non Mapuche), per motivi che saranno chiariti nel corso di questo libro. Scrivendolo da winka, mi sento privilegiato per il fatto che molti Mapuche hanno avuto in me la fiducia sufficiente per offrirmi i loro pensieri e punti di vista, le loro speranze e paure, perché fossero inserite in questo libro.

Proteste contro la Repsol/YPF

Perché dovremmo imparare la lingua della Terra?

“Lingua della Terra” è la traduzione di Mapudungun, il nome che i Mapuche danno alla propria lingua. La parola Mapuche stessa significa “popolo della terra” (mapu= terra, che= popolo).
Cosa strana per noi, sempre alle prese con il dilemma di quale classificazione ci si adatti meglio. Le nostre idee su quali etichette appiccicarci addosso – etichette razziali, culturali, religiose, geografiche o ideologiche – sono quasi tante quanti siamo noi. Per i Mapuche la questione è molto semplice: loro sono la gente, la gente della terra, alla terra inestricabilmente legati, e la loro lingua sgorga dalla loro connessione con la terra. Non la terra intesa puramente come suolo ma, in senso esteso, il territorio con tutto ciò che era, è e sarà associato ad esso.
Philip Wearne lo spiega bene nel suo libro “Return of the Indian”:

“I popoli indigeni del continente americano definiscono se stessi essenzialmente mediante la loro relazione con la terra. Mentre i nomi che danno a se stessi – Inuit, Kayapò, Runa (Quechua) – spesso significano semplicemente “gente”, i nomi che danno ai loro territori per lo più denotano il concetto di “terra”. Le due cose sono inseparabili. Come rimarcò nel 1985 il World Council of Indigenous People (Concilio Mondiale dei Popoli Indigeni), una federazione globale che ha sede in Canada: “ Il modo più sicuro per uccidere i popoli indigeni, oltre allo spararci, è di separarci dalla nostra porzione di terra.”

“La terra è identità – passato, presente e futuro. La terra è, in senso sia letterale che figurato, la casa degli antenati, della gente che ha dato la vita alla generazione attuale e che chiede venerazione secondo i riti e i costumi tradizionali. La terra rappresenta, secondo le parole di un attivista indigeno, ‘le pagine viventi della nostra storia non scritta.’”

L’identità dei Mapuche risiede nella terra, con la quale hanno una relazione profonda. Noi, dall’altra parte, siamo moderni e sofisticati cittadini del mondo. Cosa ha a che fare la loro lotta con noi? Noi ci spostiamo in scatole metalliche fra ambienti ad aria condizionata, guardiamo il mondo attraverso dei vetri e il cemento ci protegge da quel mondo. Rischiamo di vivere la maggior parte della vita senza il contatto con quella terra dalla quale veniamo e alla quale inevitabilmente torneremo.
In questo preciso momento, dall’altra parte del pianeta, i Mapuche stanno combattendo per riconquistare la loro terra, terra che gli è stata tolta un secolo fa, un decennio fa, oppure mesi, settimane o giorni fa.
Così come stiamo perdendo contatto con la terra, stiamo perdendo anche contatto con i suoi ritmi. La ciclicità del tempo dall’alba al crepuscolo e poi di nuovo all’alba, e i sottili cambiamenti delle stagioni, sono del tutto perduti per noi; ci siamo spostati dai tempi del canto del gallo, attraverso i rintocchi dell’orologio della fabbrica, fino alle cifre digitali sullo schermo del PC.
Insegnando ai bambini Mapuche nel Centro Mapuche di Bariloche

In contrasto con il tempo ciclico della natura, con la sua intrinseca attesa di un rinnovamento e di un ritorno, la moderna freccia del tempo non si muove in cerchio ma inesorabilmente in avanti, cosa che noi chiamiamo progresso. Con l’orologio digitale sono sparite anche le lancette con il loro girare. Ora il tempo è un numero che cresce sempre.
I Mapuche fanno parte degli “eretici” che rifiutano simili concezioni di un tempo piatto e lineare. La loro celebrazione dell’Anno Nuovo, che si tiene il 24 giugno, è chiamata Winoy Tripantu, “il ritorno dell’anno”, quando il ciclo ricomincia.
Viene naturale concludere che noi, nel mondo “sviluppato”, abbiamo perso il senso di connessione con la terra e il senso del tempo ciclico che è dato dal legame con la terra, e con esso abbiamo perso anche il senso del nostro posto nel tempo, e della nostra storia. Forse questo non significa niente per voi, se siete abbagliati da un mercato ricco di possibilità di acquisto, da tutte le informazioni a disposizione ventiquattr’ore su ventiquattro, o dal ronzio della comunicazione istantanea globale. Ma se sentite che il cosiddetto “progresso” procura una perdita per ogni guadagno, allora potreste volermi accompagnare per fare insieme ai Mapuche il loro viaggio di riscatto.
In alcuni periodi, in Argentina e in Cile, gli insegnamenti di storia sono stati impartiti con grande fervore, e la glorificazione dello stato promossa con zelo. Nel momento in cui stavo rimuginando sull’idea di scrivere un libro sui Mapuche, trovai per caso un testo di storia su una bancarella di libri usati a Buenos Aires; questa scoperta senza dubbio contribuì a spingermi a mettere le mani sulla tastiera. Sfogliando le pagine che trattavano della “necessità” della Campagna del Deserto (nome dato al ruolo dell’Argentina nell’azione a tenaglia anti-Mapuche), lessi queste parole:

“Eravamo praticamente senza possesso di gran parte del nostro paese. I reparti di frontiera avevano penosamente fallito nella loro missione di contenere il selvaggio che occupava una vasta area del territorio argentino e che costituiva una minaccia e una vergogna nazionale.”

Un tale libro, e tali sentimenti, non sono affatto insoliti in Argentina e in Cile anche oggi; coloro che erano considerati selvaggi sono ancora visti da molti come una “vergogna nazionale”.
Simili libri “di storia”, e i pregiudizi di chi li ha scritti, non volevano lasciare alcuno spazio per un punto di vista alternativo. In un certo senso, questo libro è un tentativo di rivendicare quello spazio.
I Mapuches contro i «milicos» (polizia militare)

Siamo ancora vivi!

“Muriò la ultima ona!” (“È morta l’ultima ona!”) è il titolo di un articolo apparso su Clarín, il principale quotidiano argentino, nel 1999. L’articolo annunciava la morte di Virginia Choinquitel, di 56 anni, verosimilmente l’ultima sopravvissuta degli Ona, o Selknam, le cui origini nella Terra del Fuoco risalgono a 9000 anni fa. “Virginia era l’ultima indiana pura. Non parlava una parola di Ona, ma era fiera della sua razza. Conosceva la storia del suo popolo e la sua cultura meglio di chiunque altro”; queste le parole attribuite a Padre José Zink, prete cattolico e amico di Virginia.
Diversamente dagli Ona, i Mapuche sono ancora decisamente vivi.
Nel luglio 1999 ero a Buenos Aires e fui invitato da alcuni amici, che sapevano del mio interesse per i diritti della terra, a una conferenza di alcuni Mapuche arrivati da Esquel, nella provincia di Chubut in Patagonia.
La piccola sala riunioni del sindacato era gremita. Era una serata fredda – a luglio è pieno inverno in Argentina – e molti studenti e attivisti del pubblico arrivarono sfoggiando kefiah bianche e nere, così come uno dei relatori. Erroneamente supposi che fosse per manifestare solidarietà con la causa palestinese, fino a quando qualcuno mi spiegò che ne erano arrivate in gran quantità e che venivano vendute a poco prezzo in tutta la città.
Salirono sul podio i tre relatori, tutte donne Mapuche: Evis e Graciela, dell’“Organizzazione 11 ottobre delle comunità Mapuche-Tehuelche”, ambedue sui vent’anni, e Maria Luisa, un’anziana signora della comunità Gualjaina, stanziata a circa 70 km da Esquel. Evis e Graciela erano werken (portavoce; letteralmente “messaggeri” in Mapudungun) dell’organizzazione 11 Ottobre, e mi fu fatto capire che Maria Luisa era una machi (leader spirituale). Le machi sono particolarmente diffamate e spesso prese di mira dai winka, poiché la loro centralità nelle cerimonie religiose Mapuche e le loro arcane conoscenze fanno sì che ancora oggi siano sospettate e accusate di stregoneria. Da ciò i toni sommessi con cui era pronunciata la parola machi.
Le tre donne avevano viaggiato per 1200 km da Esquel alla capitale. Anche se in termini di mera distanza io ero partito da molto più lontano, il loro viaggio era stato ben più grande per due importanti fattori: primo, tre biglietti di andata e ritorno per il pullman fino alla capitale erano un vero sforzo per un’organizzazione con una grande dedizione ma con un limitato capitale; in secondo luogo, era necessario un enorme salto mentale per colmare la distanza fra Esquel, piccola città di provincia con meno di 30.000 abitanti, in larga maggioranza Mapuche, e Buenos Aires, moderna e tentacolare capitale cosmopolita con lo sguardo costantemente rivolto all’Europa e agli USA; questo richiedeva loro un aggiustamento di prospettiva molto maggiore di quello che veniva richiesto a me. Erano venute nella capitale per gestire un laboratorio sulla ceramica Mapuche e per parlare delle lotte del loro popolo per il riconoscimento e il rispetto. Può sembrare a prima vista che le due attività abbiano poco in comune, ma non era questo il caso, come stavo per scoprire.

Protesta contro Benetton davanti al Museo Benetton a Leleque

L’Ultimo Giorno di Libertà

Fu nel 1992, e in mezzo agli eventi connessi con la commemorazione dei 500 anni dal 12 ottobre 1492 – la data più luttuosa per i Popoli Nativi Americani – che molti Mapuche in Argentina cominciarono a trovare la forza interiore che nasce dall’essere parte di una causa comune, e a farsi coinvolgere nel risorgimento del popolo Mapuche.
Evis aprì l’incontro di Buenos Aires raccontando come la loro organizzazione si era formata nel 1992:

“Non era né organizzato né pianificato; successe spontaneamente. Le celebrazioni ufficiali per il Cinquecentenario si avvicinavano e non si parlava di tenere un contro-evento, non era venuto in mente a nessuno. Eppure, non potevamo permettere che tale opportunità venisse sprecata; dovevamo fare qualcosa. Così quattro di noi formarono un comitato per organizzare un festival. Ci denominammo Comitato 11 Ottobre, per commemorare la data dell’ultimo giorno di libertà in America. All’evento parteciparono 500 persone; un numero enorme, se si considerano le dimensioni di Esquel.
Furono coinvolti fratelli e sorelle delle comunità circostanti, e l’evento cambiò da una pura commemorazione dell’Ultimo giorno di Libertà a uno spazio per denunciare le ingiustizie e per partecipare a varie attività. Montammo un palco in piazza, e la gente vi saliva per spiegare le ragioni per cui aveva deciso di unirsi a noi, e per dire che cosa stava succedendo nelle loro comunità sparse intorno a Esquel. E non solo: fecero sì che i presenti si impegnassero a dare il loro appoggio e a cercare un modo per organizzare la lotta.”

Il processo di denuncia delle ingiustizie salì a un livello superiore quando, dalle tre donne, il pubblico di Buenos Aires venne a sapere di Futa Huau, dove la scuola della comunità era stata espropriata da un latifondista locale, che aveva recintato quella terra e la usava come pascolo. Conoscemmo anche la vicenda della comunità di Prane, espulsa dalla sua terra già nel 1938, che, da quando era tornata a reclamare il proprio territorio, era stata minacciata dall’esercito il quale voleva usare quella terra per le esercitazioni militari. In un’occasione, dei prepotenti avevano inscenato un finto plotone d’esecuzione per spaventare i membri della comunità e farli smettere di protestare.
E poi ci sono i Benetton, questi sedicenti campioni di armonia interrazziale, che hanno deviato il corso d’acqua della comunità Vuelta del Rio, privandola dell’accesso al fiume e causando così siccità e moria di animali. Hanno anche sfrattato delle famiglie Mapuche dalle loro case.
Sia le comunità che i gruppi che le sostengono hanno tentato in infiniti modi di attirare l’attenzione delle autorità sugli abusi da loro subiti. Le esperienze dei loro rappresentanti tendevano a essere curiosamente simili. Politici e organi di governo hanno rifiutato di incontrarli, oppure hanno promesso di occuparsi della cosa ma poi non l’hanno fatto, o ancora – e forse questo è ancora più umiliante – li hanno lasciati nei corridoi ad aspettare per incontrare dei funzionari che poi non si sarebbero fatti vedere affatto, costringendoli a tornare a casa a mani vuote.
Evis spiegò che l’articolo circa la morte dell’ultima Ona era emblematico di un modo di pensare tipico dello stato argentino, e della sua élite metropolitana, a riguardo dei popoli originari dell’Argentina: considerarli un problema bell’e risolto, dato che quelli di sangue misto non sono puri, e quelli purosangue verosimilmente si estingueranno presto.
Per contrastare questo modo di pensare, l’organizzazione 11 Ottobre si stava imbarcando in un progetto chiamato Petù Mogelein (siamo ancora vivi). Scopo del progetto, attirare l’attenzione sui problemi delle comunità Mapuche, ma anche consentire ai Mapuche urbani di riscoprire la loro identità culturale – in verità, spesso, di scoprirla per la prima volta – e infine rivelare ai winka la profondità e la vivacità della cultura Mapuche.
Dopo la conferenza fui presentato a Evis, Graciela e Maria Luisa, e fui in grado di saperne di più sulle loro vite e sulle comunità a cui erano legate. Dissi che le loro parole avevano avuto un poderoso impatto su di me, e promisi che avrei fatto del mio meglio per aiutarle, magari fornendo loro una cassa di risonanza in lingua inglese. C’è voluto un po’ di tempo, di fatto anni, ma questo libro è il mio tentativo di mantenere quella promessa.
Il progetto è cominciato da un libro di seconda mano trovato su una bancarella, e ha preso forma dall’incontro casuale con tre donne straordinarie, che portavano un messaggio importante circa le lotte dei loro popoli dimenticati, e dalla consapevolezza che avrei potuto diffondere tale messaggio.

Leslie Ray

(traduzione dall’inglese di Elena Corna)