rivista anarchica
anno 38 n. 335
maggio 2008


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Le rivolte di Henry Tachan

Arrivato con un giorno di ritardo sui classici della canzone – alla cui famiglia appartiene di diritto – Henry Tachan porta avanti tutt’ora la sua carriera di estrema coerenza nello spettacolo francese. A dispetto della scarsa attenzione che gli hanno sempre riservato i media, quest’uomo piccolissimo di statura, col cuore teso allo spasimo, continua a esplodere nei teatri e nei dischi fra amore e rivolta:

Voglio il tempo di seguire le mosche
Voglio l’eternità per imparare la tua bocca. (...)
Ti voglio bella e libera di bruciare altrove
Come una bestia in calore, senza che io ne soffra
Né gelosia, né odio, né fierezza per niente
Non voglio più, famiglie, il vostro orgoglio siciliano. (...)
Voglio barricate utili a qualcosa
Che come gli immortali vivessero le rose
Voglio che i bambini non siano mai più vittime
Che si cancelli dal dizionario: battaglia, ucciso, assassino. (...)
Voglio avere il tempo di non essere né vecchio né saggio
Voglio avere il tempo di essere l’idiota del villaggio.

Di padre armeno, classe 1939, nei suoi turbinosi vent’anni, fra un lavoretto e un viaggio per “formare la giovinezza”, era finito chissà come a fare il cameriere in Quebec. Nei turni di riposo raggiungeva qualche cabaret sperduto in cui – fra un cantante e l’altro – leggeva i suoi primi testi, ninnava le sue prime rivolte.
Erano tempi gloriosi laggiù. All’inizio degli anni ’60 la canzone francofona canadese nasceva come fenomeno di massa ed era motivo d’orgoglio e di autoriconoscimento per tutto un popolo, che percepiva la propria lingua come una terra e una libertà da conquistare alla faccia del potere della maggioranza anglofona.
Tachan vi era capitato in mezzo un po’ per caso e – del tutto fortuitamente – gli capitò un giorno di scorgere tra il pubblico il suo idolo, il suo faro, il suo padreterno: Jacques Brel.
Esplose una folgorante amicizia, 15 giorni di fraternità totale, i 15 giorni che decidono di una vita. Tachan pregò Brel di prenderlo con sé, di fargli fare qualsiasi cosa al suo seguitò. No – disse Brel – non ti servirebbe a niente, torna a Parigi, battiti!
Tachan ha imparato allora che battersi è l’unico modo di sentirsi vivo... ed è ancora lì che si batte!

È la mia malattia, la tara familiare
Acquattata da sempre nel mio ventre-tana.
È il mio grido bambino, la mia sorella gemella
Morto il piccolo principe, non restava che lei
La mia rivolta. (...)
È questo servilismo, la schiena curva
Il cliente a quattro stelle e le sue crepes flambées.
È lo sguattero triste che lustra la mangiatoia
Ma che sputa, un giorno, sull’ultima mancia
La mia rivolta. (...)
È senza disciplina, è senza l’etichetta.
Nessun partito ha messo le zampe sulla bestia.
S’addensa giorno a giorno, ma la notte... la notte
Si gioca le sue canzoni d’entusiasmo e di noia
La mia rivolta. (...)
Tu che aspetti la pace, la giustizia, l’amore
Tu che miri alla gloria, gli onori, la ricchezza
Tu che il tempo ti mastica ogni giorno di più
Conserva un grano di follia, un grano di gioventù
Di rivolta!

Henry Tachan e Jacques Brel

Le rivolte di Tachan scandiscono tutta la sua carriera e si insinuano sempre nella ricerca della bella parola, del verso sempre in rima, delle melodie ricche concepite al gusto del crescendo brelliano, di una presenza scenica madida di sudore e di passione... e si confrontano ovviamente con la censura che, fin dal primo disco nel 1964, definì 7 sue canzoni, su 11 totali, sconsigliabili per radio e TV.

È malsana e piccolina, beve gran sorsi d’acqua benedetta
Mentre sfoglia il glossario delle parole proibite dal padreterno.
Taglia, mùtila, ferisce qui un cuore, là due chiappe
È il chirurgo del re, l’anatomo patologo senza freni (...)
È il Cerbero dei regimi, l’Hydra dalle cento teste, il pogrom
La mano di ferro, la mordacchia che strozza la rivoluzione.
È il grande inquisitore, il rogo purificatore
Non c’è poi tanta strada da Buchenwald al Ku-Klux-Klan. (...)
Anche oggi nella dolce Francia, nell’anno di grazia e gaiezza (...)
Rieccola che prolifera, che pudibonda e vitùpera
Contro un pugno di obiettori che disonorano gli onori.
Sul corpo porta dorature, per far dormire i bambini
Sul cuore porta una muffa di prigione fredda e di convento
La censura...

Oggi la censura non mira più direttamente al prodotto, ma emargina generalmente l’intelligenza da tutti i mezzi d’informazione. È una censura adulta: la censura del re e dello stato ha abdicato in favore della censura del mercato.
Lo scomodo Tachan oggi è più emarginato che mai, benché, senza demordere, abbia realizzato un nuovo CD nel 2007. Si è trovato a migrare di casa in discografica in casa discografica, finendo per essere prodotto per anni dal suo amico Pierre Perret, che, assieme a molti colleghi cantautori, ha sempre venerato questo soldato del pacifismo e dell’intelligenza, questo combattente mai arreso che scava in sé stesso, perché questo è il più grande talento di Henri Tachan. La sua rivolta si origina da un malessere esistenziale, che, se non può perdonare alla società le sue brutalità, non si nasconde dietro l’anonimato del nemico, dietro la sua genericità inattingibile, ma mira al cuore delle meschinità in cui ci crogioliamo. È un ruolo scomodo, ingrato, perché coincide con lo sguardo impietoso di chi non cerca alcun consenso:

Fanno pipì dritti sul muro, pisciare in piedi li rassicura
Talvolta anche sulle scarpe... gli uommini
Hanno il getto orizzontale, il sifone, le due bombette
Possono giocare alla battaglia navale... gli uommini (...)
E in nome di questo pezzetto di ciccia che gli spenzola sulla brioscia
Fanno le guerre e i marmocchi... gli uommini (...)
È nel novantatrè, mi pare, che uccisero la moglie del re
E la dichiarazione dei diritti dell’uomo
È da duemila anni mi pare che decapitano in silenzio
Le donne di Francia o d’altrove... gli uommini
Hanno abbattuto le tibetane, hanno fracassato le africane
Hanno reso indegne le indiane, messo il velo alle algerine
La cintura di castità alle castellane... gli uommini
Scusatemi ma io mi gratto la mia povera pelle di fallocrate
Nella regione della prostata... degli uommini
Scusatemi ma mi ritiro dalla vostra mafia, dall’impero... degli uommini
A ciascuno la sua rivoluzione, avrò soltanto dei compagni
Che condividano l’indignazione di un uomo.

Non è una rivolta politica. È lui ad ammetterlo quando sostiene: se la mia rivolta fosse ottimista non sarei un rivoltoso, ma un rivoluzionario. Io sono disperato, in rivolta contro molte cose, per questa specie di impotenza che sento, in fin dei conti, nei confronti della morte. Eppure la rivolta di Tachan è una rivolta utile, ancorché disperata, perché viene portata al cuore delle malsane consuetudini umane e sa fustigare ciò che troppe volte perdoniamo a noi stessi, le catene cui appendiamo il nostro destino e quello della gente a noi vicina. Completamente scorretta la vena rivoltosa di Tachan, più ancora di quella di molti militanti rivoluzionari ortodossi, sa abbordare temi scomodi come la sessualità degli anziani:

Adolescenti assuefatti che salassate i vegliardi
Che gli rubate le monete, che scippate le briciole
Dategli invece di una coltellata
Un po’ di paradiso, un’ultima consolazione
Fai una pippa a tuo nonno, prima della dipartita
Dai un colpetto di lingua alla nonna, prima che trapassi
E non profferite urla d’orrore e indignazione...
Sono come te i vecchi, hanno il fuoco al culo!
Infermiere devote in fondo all’ospedale
Non ingozzate tutti di calmanti e medicine
Al posto di termometri fissi come spade di Damocle
Date all’antenato un’ultima carezza.
Adulti schifiltosi che inchiodate alla poltrona
Paparino, mammina come nella bara
Al posto di nascondervi per intime prodezze
Andateli a cercare... gli ridarete la giovinezza
Al capezzale dei nostri vecchi stanno curve le suore
I corvi del buon dio, i preti e i crocifissi
Al posto di tali uccellacci, dategli dei marinai
E delle puttane per un ultimo salutare colpo di reni.
Fai una pippa a tuo nonno...

Henry Tachan

Tachan guarda oltre i comodi ruoli che ci siamo scavati come tombe familiari, come percorsi fatti di abitudini per risparmiare la fatica di una costante messa in questione dei rapporti che ci legano. Così in trasparenza, nella desolata rabbia che anima molti versi di questo cantante, troviamo la tenerezza di chi vuole risolvere ogni rapporto umano nell’amore:

Fra l’amore e l’amicizia c’è solo un letto di differenza (...)
E quando s’installa la tenerezza fra due corpi che si scorgono
Che platonicamente carezzo cogli occhi la tua bocca fragola
Allora l’amore e l’amicizia non sono la stessa canzone? (...)
Fra l’amore e l’amicizia fili spinati di frontiere
I sentimenti etichettati, e se ami troppo tua madre
O il tuo amico o il tuo cane, pare che sei in acque torbide
Che sei clinicamente freudiano, o invertito o agente doppio
Mentre l’amore e l’amicizia hanno la stessa faccia innocente
Fra l’amore e l’amicizia qual è dunque la differenza?
Fra l’amore e l’amicizia il pudore forgiò catene
Alla barba del mondo intero e delle sue risate amare e odiose.
Ma bene o male i due compagni vanno assieme e si confondono
Come in alta montagna cielo e nevi eterne
Fra l’amore e l’amicizia si nasconde l’ultimo pezzetto d’infanzia
Fra l’amore è l’amicizia c’è solo un letto di differenza...
Ti amo, amore mio, mio piccolo, ti amo, amore, amico mio.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it