rivista anarchica
anno 38 n. 335
maggio 2008


 

In lotta contro
l’apartheid

Le immagini che ci giungono attraverso i media, nel caso in particolare la televisione, si sa, spesso non sono altro che “rimaneggiamenti” della realtà così com’è. Mi è capitato di vedere qualche documentario sul Sudafrica, giornalisti/turisti che passano da una città all’altra fra bei mercati, persone sorridenti, spiagge, distese di prati… Certo, non si può negare la bellezza dei luoghi, ma è davvero un paradiso quello che ci viene presentato? Nessuno ha chiesto agli abitanti del posto come si vive, quali sono le fatiche e i problemi di ogni giorno, ad esempio il fatto che, nonostante l’apartheid (1) sia stato abolito – con tutte le sue leggi (2) assurde – ormai da 14 anni (3), il reddito della popolazione nera non è nemmeno la metà di quello dei bianchi (approssimativamente il 60% della popolazione vive sotto la linea di povertà, guadagnando un reddito inferiore ai 250 Rand – circa 30 dollari americani – al mese e mentre più del 50% della popolazione riceve l’11% del reddito annuale nazionale, il 7% della popolazione riceve oltre il 40% del reddito del paese) e di conseguenza anche le condizioni di vita sono decisamente diverse.
Le numerose etnie che popolavano il Sudafrica hanno tentato, nel corso dei secoli, di opporre resistenza alla colonizzazione europea – inglese, olandese, francese – ma per vedere la creazione di un’organizzazione concreta contro il dominio bianco, bisogna aspettare i primi decenni del Novecento, quando i coloured del Capo diedero vita alla National Liberation League e al Non-European United Front. Nel 1912 fu creato l’African National Congress (ANC) seguìto nel 1936 dall’All African Convention (AAC) e nel 1943 dal Non-European Unity Movement (NEUM), che decise di adottare la strategia difensiva della resistenza passiva e tentò di riunire i non-europei oppressi, divisi su linee razziali e tribali. Nel 1969 il Pan African Congress (PAC) guidò la lotta contro le Press Laws e negli anni ’60 la lotta anti-razzista diede vita ad un’ala armata, guidata da Mandela, che venne in seguito arrestato. Due furono gli eventi tragici che segnarono la storia recente del Sudafrica: a Sharpeville, il 21 marzo del 1960, quando i manifestanti che chiedevano l’abolizione del pass (4) vennero massacrati dalla repressione poliziesca, e a Soweto (5), sobborgo di Orlando, quando, il 16 giugno del 1976, la protesta studentesca contro l’imposizione della lingua afrikaans (quella degli oppressori) nelle scuole per neri, si trasformò in un altro massacro, sempre ad opera della polizia e dell’esercito, che sparava a vista sui dimostranti. Una delle moltissime vittime di questi scontri – diverse fonti parlarono di un numero che oscillava fra i 200 e i 600 morti e più di 1000 feriti, mentre il governo ne confermava solo 23 – fu il tredicenne Hector Pieterson: la fotografia del suo cadavere divenne il simbolo della violenza della polizia sudafricana e fece il giro del mondo. In ricordo degli eventi di quegli anni, il 21 marzo è stato scelto dall’ONU come giornata internazionale contro il razzismo, mentre il 16 giugno si celebra la giornata della gioventù.
La lotta contro l’apartheid continuò per tutti gli anni Ottanta nonostante la brutale repressione da parte dello Stato bianco, gli arresti e la deportazione a Robben Island dei leader dell’ANC, del PAC e del NEUM.
Poiché la protesta si stava diffondendo a macchia d’olio fra gli oppressi, e per lo sdegno internazionale (nel 1968, l’ONU inserì l’apartheid fra i crimini contro l’umanità), gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia trovarono un accordo con il governo bianco affinché fosse liberato Mandela e fosse abolita la maggior parte delle leggi ufficiali: si giunse così, nel 1994, all’elaborazione di una costituzione non-razzista per il cosiddetto «Nuovo Sudafrica». Purtroppo però, l’illusione del cambiamento è durata poco, i bianchi continuano a sfruttare la manodopera nera nelle loro multinazionali (De Beers, Anglo-American, Old Mutual, S.A. Breweries), detenendo quindi il potere economico e di conseguenza anche quello politico.
Uno degli autori che più ha lottato contro l’apartheid, denunciandolo in numerosi articoli e in altri scritti, è Peter Abrahams. Lo scrittore, meticcio, nasce nel 1919 a Vrederdop, ghetto di Johannesburg (o Goli, come la chiamano i neri, ovvero “città dell’oro”) abitato da neri e meticci. Negli anni Trenta sarà – nel Sudafrica nero – la prima voce di una poetica nuova, di ispirazione politica ed espressa in lingua inglese. Proprio a causa delle sue invettive politiche, negli anni Sessanta, quando il governo metterà in atto una repressione contro gli intellettuali, lui e i suoi libri subiranno una damnatio memoriae: nessuno potrà più parlare né scrivere di lui, studiarlo e neppure leggere i suoi scritti, ritenuti pericolosi, ed è proprio per questo che gli intellettuali delle generazioni successive ne ignoreranno l’esistenza.
Nato e vissuto prevalentemente in povertà, non appena si avvicina allo studio, Abrahams lo persegue con costanza e tenacia perché comprende il valore dell’istruzione. Educarsi, coltivare la propria intelligenza e sviluppare i propri talenti diventa una strategia di sopravvivenza, un momento di resistenza: attività che, attraverso lo strumento della conoscenza, mira a contrastare l’asservimento e la subalternità cui si vuole condannare il nero, relegato nel ghetto. E fra la vita del nero, povero, e del bianco, ricco, c’è un abisso: le città sono divise in zone (i neri avevano bisogno di permessi per entrare in quelle dei bianchi), così come descrive l’autore: «Lungo i due lati delle strade sorgevano solide case, di mattoni rossi. In questo posto, anche quando c’era traffico, non si sarebbe sentito alcun rumore nelle case; in questo posto, quando il vento urlava sibilando e la pioggia cadeva sferzante, le case sarebbero rimaste calde, asciutte, silenziose. Guardavo attraverso i vetri l’interno delle case. Erano illuminate da magiche lampade elettriche. […] Talvolta scorgevo della gente che, a tavola, mangiava in piatti finemente decorati, su tovaglie candide come neve. E le sedie erano grandi, comode; le stanze spaziose» (6).
Ciò che lo lega alla sua terra è un amore profondo, fatto di dolore e orgoglio. Nella sua scelta di partire per l’Europa c’è l’ansia di acquisire quell’agognata libertà (che sarà il titolo della sua opera maggiore, Dire Libertà, appunto, storia dei primi 22 anni della sua vita, fino alla partenza per l’Europa) che per anni gli è stata negata, ma c’è anche la scelta di non tacere, di raccontare al resto del mondo la sua sofferenza e quella del suo popolo, soggiogato al potere dei dominatori bianchi: «Dovevo andarmene, o sarei stato perduto per sempre. Avevo bisogno non di amici né di gesti di comprensione, ma della mia umanità. Un bisogno disperato. Forse la vita aveva un senso che trascende la razza e il colore. Se così era, non l’avrei mai trovato in Sudafrica. Inoltre sentivo l’ansia di scrivere, di dire la libertà, e per questo dovevo essere una persona libera» (7).
C’è un leitmotiv nella vita dell’autore, che riemerge dal suo passato con la forza di un’ossessione: «Tutta la mia esistenza era stata dominata da una scritta […]: riservato ai soli bianchi. A causa di questa scritta ero nato nel sudicio squallore dei ghetti e vi avevo trascorso la fanciullezza e l’adolescenza; per causa sua tutta una generazione, molte generazioni, erano nate, vissute e morte nello squallore dei ghetti. Portavo sul mio corpo i segni del rachitismo ed ero uno dei tanti, non l’unico. Avevo dovuto lavorare prima di poter andare a scuola. Molti non sapevano neppure cosa fosse una scuola. L’istruzione obbligatoria era “riservata ai soli bianchi”. Tutte le cose più belle della vita erano “riservate ai soli bianchi”. Il mondo, oggi, apparteneva ai bianchi. E nei miei rapporti con loro, i bianchi, mi avevano fatto chiaramente intendere che essi erano al di sopra di tutto, che la terra e le sue ricchezze appartenevano a loro. Parlavano la lingua della forza fisica, del potere. Ed io mi ero sottomesso a quel potere. Ma la sottomissione può essere di natura sottilmente ambigua. Un uomo si sottomette oggi allo scopo di resistere domani. Così era stato per me. E, poiché non ero stato libero di esprimere i miei sentimenti reali, di dar voce ai miei autentici pensieri, la mia sottomissione aveva generato rabbia e rancore» (8). Mai, nel libro, nonostante tutte le ingiustizie subite, Abrahams parla di odio rivolgendosi ai bianchi. C’è in lui grande rispetto dell’essere umano, delle sue possibilità; è questa forse, la miglior “lezione” che ci può dare.
Il potere entra troppo spesso in gioco nelle vite umane, come se, senza di esso, l’uomo non si sentisse tale. Ma è – insieme al denaro – uno degli strumenti più pericolosi, miraggio di quell’onnipotenza che finisce, paradossalmente, per disumanizzare l’uomo, rendendolo capace di qualsiasi crimine. Il razzismo non è che il risultato di questa superbia: il Diverso deve essere schiacciato.

Dark folk arise
The long, long night is over;
Faint in the east,
Behold the dawn appear:
Out of your evil dream of toil and sorrow,
Arise ye dark folk
For the dawn is here!
(9)

Laura Scaglione

Note

  1. Il termine apartheid venne usato in senso politico per la prima volta dal primo ministro Jan Smuts nel 1917, con le elezioni del 1924 furono introdotti i primi elementi di segregazione razziale. È però nel 1948 che prese definitivamente forma, giungendo, nel 1956, all’estensione della discriminazione a tutti i cittadini di colore, compresi gli asiatici.
  2. Le principali leggi razziste sono state:
    • Proibizione dei matrimoni fra persone di razze diverse;
    • Proibizione dei rapporti sessuali con una persona di razza diversa, atto ritenuto reato e di conseguenza penalmente perseguibile;
    • Obbligo della registrazione del cittadino come individuo bianco, nero, meticcio;
    • Eliminazione di ogni opposizione che veniva etichettata dal governo come “comunista”, ma in realtà espediente usato per Mettere fuorilegge l’African National Congress (ANC) nel 1960;
    • Divieto per persone di diverse razze di entrare in alcune aree urbane;
    • Divieto per persone di razze diverse di utilizzare le stesse strutture pubbliche (fontane, sale d’attesa, bar, panchine, bagni pubblici…);
    • Serie di provvedimenti tesi a rendere più difficile per i neri l’accesso all’istruzione (potevano frequentare solo scuole agricole e commerciali speciali);
    • Discriminazione razziale in ambito lavorativo;
    • Istituzione dei bantustan (deriva da bantu, che significa “gente”, “popolo”, e stan, che significa “terra” in persiano), una sorta di “riserve” per la popolazione nera, nominalmente indipendenti ma in realtà sottoposti al controllo del governo sudafricano (i neri dovevano avere speciali passaporti interni per muoversi nelle zone bianche, pena l’arresto o peggio);
    • Privazione della cittadinanza sudafricana e dei diritti a essa connessi gli abitanti dei bantustan.
  3. Il 27 aprile 1994 ci furono le prime elezioni multirazziali che portarono al governo Nelson Mandela; Jacob Zuma, sessantacinquenne, di etnia Zulu, è il nuovo leader dell’ANC, eletto – non senza scandali – il 19 dicembre scorso.
  4. Ogni persona doveva possedere e portare sempre con sé, pena l’arresto, un libretto o pass in cui venivano indicati oltre ai dati anagrafici e la professione, anche le impronte digitali, la copia del contratto di lavoro controfirmata ogni mese dal datore di lavoro e l’autorizzazione a risiedere in una determinata zona.
  5. Si veda: Judy Seidman, Face-lift apartheid: South Africa after Soweto, London, International defence and Aid fund for Southern Africa, 1980; Alex Callinicos/John Rogers, Southern Africa after Soweto, London, Pluto Press, 1977.
  6. Peter Abrahams, Dire Libertà. Memorie del Sudafrica, a cura di Itala Vivan, traduzione di Bruno Armellin e Maria Durante, Lavoro, Roma, 1987, p.168.
  7. Ibidem, p.322.
  8. Ivi.
  9. Destati, popolo nero, / la lunga, lunga notte è finita; / guarda, debole a oriente / l’aurora appare: / destati dal tuo incubo di dolore e fatica/ destati popolo nero, / è l’alba. Ibidem, p. 286.