rivista anarchica
anno 38 n. 334
aprile 2008


politica

Comunque sia andata
di Antonio Cardella

 

Scritte prima del 13-14 aprile, queste note non possono essere condizionate dal risultato elettorale. Perché segnalano un disagio di fondo che va ben oltre la vittoria di questo o di quello.

 

Dicono che il dramma peggiore per un commentatore politico sia quello di dover consultare la sua sfera di cristallo per ipotizzare l’esito di un evento importante che si verificherà quando il suo articolo è già bello e stampato, offerto ai suoi lettori che ne possono valutare l’attendibilità sulla base dei dati concreti del già avvenuto.
Quando leggerete queste righe, probabilmente si conosceranno i risultati della tornata elettorale che contribuirà a disarticolare ulteriormente la già disarticolata realtà del nostro paese. Debbo dire, però, che io non vivo il dramma di cui ho parlato in apertura, non lo vivo perché mai come oggi, a mio parere, sono inessenziali gli esiti della consultazione elettorale.
Non voglio apparire come l’anarchico inguaribilmente disincantato verso qualsiasi consultazione elettorale, ritenendola una rituale manifestazione di democrazia formale per nulla idonea a costituire una forma reale di partecipazione dei cittadini alla conduzione della cosa pubblica: questa posizione, del resto, è stata sempre motivata con argomenti talmente convincenti che sarebbe inutilmente ripetitivo tornarci sopra. Non voglio, d’altra parte, apparire, ai i lettori che non mi conoscono, come il qualunquista indifferente alle conseguenze che potranno scaturire dalla prevalenza di uno schieramento sull’altro nell’attuale situazione del paese. Così tenterò di argomentare come meglio potrò il mio distacco da questo ulteriore ricorso alle urne.
Vi sono problemi nell’Italia contemporanea – ma direi in tutto l’Occidente industrializzato, anche se con ricadute assai diverse – tali che, soltanto per analizzarli correttamente, occorrerebbero una cultura politica, una conoscenza dei processi reali delle dinamiche economiche, sociali e geopolitiche dell’intero contesto cui apparteniamo e da cui siamo condizionati, problemi e analisi che la classe politica chiamata a rappresentarci (per chi vuol farsi rappresentare) mostra ogni giorno più chiaramente di non possedere.
La manifestazione più evidente di questa pochezza complessiva del panorama politico italiano non è data soltanto dall’indecorosa passerella di personaggi incredibili che viene offerta ogni giorno ai cittadini sempre più frastornati, ma dalla qualità dei messaggi che da ogni sede lanciano per assicurarsi il suffragio dell’elettorato. Così, da una parte, fanno bella mostra di sé una straordinaria serie di individui che hanno avuto, o tuttavia hanno, a che fare con la giustizia ordinaria, fascisti conclamati o appena mascherati, revisionisti dell’ultima ora, antisemiti digrignanti e frequentatori di paradisi fiscali; dall’altra, una coalizione sgangherata, dove coabitano anime assai lontane le une dalle altre, chiamate ad una convivenza che vede allo stesso tavolo clericali integralisti e laici convinti, ultrà del mercato libero e keynesiani moderati, sostenitori della libertà della ricerca scientifica e obiettori di coscienza, paladini dei diritti civili e obbedienti ai veti vaticani che tali diritti si ostinano a negare. Il tutto condito con rituali che hanno dell’incredibile: un aspirante presidente del consiglio.

Un dilemma mal posto

Silvio Berlusconi, che continua a chiamare in causa i fantomatici comunisti e riduce a propaganda elettorale la sorte della compagnia aerea di bandiera, non solo turbando una trattativa faticosa e senza alternative, ma anche disorientando la borsa con danni assai concreti per gli azionisti; l’altro aspirante alla guida del governo futuro che demagogicamente offre posti in parlamento a ignari operai scampati dalle ricorrenti stragi sui posti di lavoro o a garrule fanciulle che dichiarano con disarmante ingenuità che loro, di politica, non sanno niente, ma ci metteranno tanta buona volontà…!
Qualcuno a questo punto obietterà che una cosa è avere sul collo il fiato di Berlusconi e un’altra è avvertire sul collo l’alito di Veltroni. È vero, non si può negare l’evidenza: tutto è meglio di un governo Berlusconi che riesca a rimanere in sella per almeno altri cinque anni.
Ma questo dilemma, così come è formulato, mi sembra assolutamente mal posto. Non si tratta di scegliersi l’olezzo meno sgradevole ma di misurare i danni che, comunque vada la farsa elettorale, saranno inferti alla comunità dei cittadini.
Abbiamo alle porte una recessione che minaccia di essere severa nelle dimensioni e nella durata, e per affrontarla abbiamo un sistema economico assai fragile. Abbiamo raschiato il fondo del barile per rimettere in un certo ordine i nostri conti: questa operazione, che sicuramente era necessaria per mantenere in equilibrio il sistema Europa, ha drenato risorse dalle tasche dei soliti contribuenti, che in Italia sono nella stragrande maggioranza lavoratori a reddito fisso e pensionati. Tale sottrazione di denaro alla massa dei cittadini, unita ad una dinamica di prezzi crescenti dei beni primari, ha ridotto i consumi e aumentato l’indebitamento delle famiglie, che, di norma, non riescono ad arrivare alla fine del mese, soprattutto se monoreddito. D’altro canto, la politica monetaria della Banca Centrale Europea, ostinata a non modificare al ribasso il costo del denaro, penalizza le esportazioni (soprattutto di quei paesi, come l’Italia, dal sistema produttivo fragile) e i flussi turistici, che per noi sono vitali. Giochiamo con i dati sull’inflazione: siccome i lacci delle scarpe non sono aumentati di prezzo, diciamo agli italiani che l’inflazione è stabile sotto il 3% e che il resto è solo quello che si percepisce..
Abbiamo accennato soltanto ad alcuni aspetti che rendono la congiuntura italiana particolarmente drammatica, tralasciandone altri non secondari come la crisi del sistema creditizio e della borsa, l’aumento incontrollato della spesa pubblica e la carenza strutturale dei servizi sociali, della sanità e della giustizia.

Astensionismo insufficiente

Questo panorama niente affatto consolante imporrebbe ad una classe politica meno irresponsabile della nostra di fare chiarezza innanzitutto sulle risorse disponibili per far fronte alle vecchie e nuove emergenze; di indicare l’insieme di misure da prendere per rendere meno precario il futuro dei giovani che, nel bene e nel male, sono l’unica risorsa su cui investire; di indicare direzioni nuove da imboccare per risollevare il livello delle nostre scuole, dalle elementari alle università; di parlare chiaro e senza velleità delle infrastrutture da potenziare, indicandone anche le priorità.
Invece si fa di tutto per imbrogliare l’opinione pubblica facendo apparire e poi rapidamente sparire tesoretti evanescenti, promettendo elargizioni a famiglie e imprenditori senza indicare il fondo da cui attingere per renderle credibili. Ed è un gioco, questo dell’indeterminatezza sulle cose che si intendono fare e su come farle, che accomuna tutti i grilli parlanti della nostra scena politica. Tutti, compresi gli evanescenti comprimari della nuova sinistra arcobaleno, che, reduci dalle penose performances nel governo di Prodi, si sono ridotti a balbettare slogan sulla difesa del lavoro e sull’aumento delle retribuzioni, rimanendo anche loro nel vago sulle strade da percorrere per invertire la tendenza del sistema che rende sempre più ricchi i già ricchi e sempre più poveri i già poveri.
Questo scenario che riduce a farsa un dramma reale non meriterebbe neppure un’invettiva se non coinvolgesse il destino di milioni di donne e di uomini che popolano le nostre strade e i piccoli mercati rionali con lo sguardo sempre più smarrito, con il passo sempre più incerto come se si temesse da un momento all’altro di essere inghiottiti da un’improvvisa voragine.
È il ricorrere di questo spettacolo che mi induce a concludere che l’astensionismo non è più uno strumento sufficiente a testimoniare l’indignazione per una situazione che non consente più neppure di concedere un minimo di credito a qualsivoglia personaggio della vita politica italiana.
L’astensionismo anarchico serviva a denunciare la distanza che separava gli anarchici dalle istituzioni, istituzioni che, al tempo in cui l’astensionismo fu scelto come strumento di lotta, avevano almeno una loro dignità, rispondevano a visioni del mondo ispirate ad istanze autentiche, che si potevano non condividere ma che certamente non meritavano il disprezzo.
Oggi, invece…

Antonio Cardella