rivista anarchica
anno 38 n. 336
giugno 2008


intervista

Lo stile del rigore
incontro con Corrado Stajano
di Alessio Lega

 

Da poco è nelle librerie la sua ultima fatica, Maestri e Infedeli. Ritratti del Novecento. Il nostro Alessio Lega è andato a fare quattro chiacchiere con lui la mattina del 25 aprile. Ma quattro chiacchiere con Corrado sono sempre quattro chiacchiere speciali, perché davvero eccezionale è il rigore, etico e metodologico, con cui ha attraversato questi decenni di storia italiana.

 

Mi accoglie con una severità cordiale, un modo di mettere a proprio agio e insieme tenere sulla corda l’interlocutore, forse per l’abitudine a farle, le interviste, più che a subirle. Corrado Stajano argomenta come scrive, col rovello dei fatti più scomodi indagati, portati alla luce, smascherati e insieme raccontati in opere dall’alto profilo letterario. Così sono i suoi libri e così è lui: nobile, solido nei suoi ideali, appassionato e irritato dalla confusione del nostro tempo. Se lo deve pur chiedere chi ha speso 50 anni delle sue energie a riflettere sui tanti misteri sporchi dell’Italia: a cosa è servito? A cosa sono servite le testimonianze lucide raccolte sul massacro di Piazza Fontana, sul volo di Pinelli, sui tanti linciaggi morali e su quello, per nulla metaforico e crudele, che l’anarchico Serantini, a vent’anni, subì sul Lungarno Gambacorti di Pisa dalla polizia?
“So bene che i poliziotti che massacrano Serantini sono dello stesso reparto romano di quelli che operano a Genova. Certamente sono passati trent’anni. Siamo a Genova nel 2001, lì a Pisa nel 1972… chiaramente non possono essere gli stessi, ma l’educazione che ricevono nelle caserme è un’educazione fascista e in trent’anni questo stato non è riuscito a dare un’educazione più civile alla polizia”.
“ Anche se – si affretta ad aggiungere – non bisogna mettere tutto nel mazzo, come fate voi anarchici” e ridacchia lanciandomi un’occhiata bonariamente ironica, “nella vicenda di Serantini c’è il giudice Funaioli, che combatte con grande coraggio, contro il procuratore generale Calamari, che toglieva tutto: allora passava attraverso i procuratori generali la distruzione della giustizia. Ma ci sono sempre stati gli uomini coraggiosi e i servi, anche all’interno dello stato nemico, che a mio avviso non è nemico di per sé”.

Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini, è il libro di Stajano che, letto e riletto, mi lega al suo autore come un piccolo miracolo laico: un libro scritto da un non anarchico che contribuisce alla formazione culturale di molti anarchici.
“Sei anni fa la Biblioteca Franco Serantini lo ha ripubblicato e credo che, con i loro mezzi – che non sono quelli di un grande editore – ne abbiano fatto due o tre migliaia di copie, che oggi sono tante. Certo, quando uscì nel ’75, l’Einaudi ne fece duecentocinquantamila copie. Ci furono ragazzi che andavano a incollare le locandine del libro, militanti che organizzavano dibattiti. Quanta gente incontro ancora oggi che mi dice: mi sono formato su quel libro… e io sono imbarazzato, però è così per tutta una generazione, pensa che anni diversi, che passione!”

La passione di chi cerca la verità, di chi la insegue in ogni piega, anche apparentemente insignificante, con un rigore “quasi maniacale”, chiosa divertito Stajano. Appoggia i piedi sulla scrivania, ingombra all’inverosimile di libri, come libri sono accatastati in ogni angolo dello studio e pieni ne sono tutti gli scaffali, e di libri da cercare, da mettere in ordine, da ritrovare, chiacchiera anche. Poi si ferma, mi scruta un attimo, attento a ogni parola, curioso, a volte sferzante “Ma non mi fai qualche domanda precisa per la tua intervista? Dove andrai a pescarle le risposte fra tutte queste chiacchiere?”

Stajano non è il testimone inerte da cui pretendere risposte, è piuttosto un romanziere, uno scrittore che s’innamora dei suoi personaggi e si mette al servizio delle verità utili.
“Sostituisci la parola romanzo con la parola narrazione, non ho mai scritto una sola cosa non verificata. Mi ricordo ancora la fatica che ho fatto a Pisa a cercare di scoprire il colore del motorino di Franco Serantini, che è assolutamente ininfluente, ma è un fatto stilistico. Era blu, quando l’ho scoperto mi guardavano come uno un po’ strano! È un fatto stilistico la ricerca della verità, che è irraggiungibile, ma per raggiungere la massima approssimazione bisogna inseguirla, avere lo stile della verità. Ed è vero anche che, nel raccontare, uno viene preso da affezione verso i suoi personaggi, che sono sempre delle vittime, degli sconfitti, forse perché la passione civile è un fatto da romantici”.

Gli uomini e il paesaggio della vita, le stazioni della via crucis dei suoi personaggi, sono capisaldi della narrazione di Stajano, che s’immedesima e ne segue passo passo il percorso, come nel folgorante inizio del Sovversivo o in quell’altro suo famoso Un eroe Borghese (quel gran libro che sarebbe utile far circolare nelle scuole scrisse Cesare Garboli) sul caso di Giorgio Ambrosoli, l’avvocato liquidatore della Banca Privata di Sindona, che per inflessibile onestà e per non saper dir di sì ai potenti, andava consapevolmente per le strade di Milano incontro al suo killer.

“Ambrosoli, assassinato dalla mafia politica nel ’79. Il libro l’ho redatto nel ’90, ma per dieci anni sapevo che l’avrei scritto e accumulavo documenti, relazioni, testi. Sentivo di dovermi dedicare al coraggio, che mi rendeva vicino quest’uomo lontano. Andavo a vedere i suoi luoghi. Pur vivendo a due passi da dove abitava e l’hanno ucciso, non l’avevo mai visto perché, avendo noi la stessa età e avendo frequentato la stessa università e facoltà negli stessi anni, avevamo idee opposte. Ma ho sentito che era giusto scrivere questa storia atroce, anche ad una certa distanza, avendo comunque l’impressione di parlare di qualcosa di urgente”.

L’urgenza di Stajano ora sta tutta nel riferirsi ai suoi punti fermi, come appigli. Nel parlare è preciso come quando descrive un percorso urbano, definisce le date, le fonti, indica con le mani le pareti foderate dai volumi dove ritiene si trovino i libri che mi cita via via. In filigrana colgo il senso di una perdita importante, la perdita di una stanza ideale, in cui scrivere per un interlocutore intravisto nella trasparenza del foglio: qualcuno che è al contempo lettore e cittadino. Il suo paesaggio oggi è dominato dal senso dello spaesamento.

Corrado Stajano

“Sarà che sono diventato vecchio, sarò spaesato, ma gli interlocutori si sono smarriti anch’essi! Negli anni di Piazza Fontana, che sono stati una cesura terribile che ha cambiato la vita di tante persone, si sapeva chi era da una parte e chi dall’altra. I poliziotti e i carabinieri si stupivano perché c’era stata finalmente una liberazione culturale e i giornalisti facevano i giornalisti. I questurini sbigottivano nel trovarsi di fronte, alla ricerca della verità, non solo i giornalisti dell’eterna opposizione, ma persino quelli dei giornali borghesi. Milano – che adesso è al peggio della sua storia – ebbe un sussulto di dignità. Nell’aprile del ’70 abbiamo fatto un libro Le bombe di Milano, pubblicato da Guanda con estrema fatica perché nessun editore lo voleva. Avevamo messo assieme le nostre testimonianze, ci accorgevamo che tutto ciò che era stato detto era falso”.

Adesso per i giornalisti il falso vale quanto il vero, sembra dire Stajano.
“L’ambiguità è trionfante. Si ritiene che la coerenza sia una bizzarria aristocratica, un vecchio modo di pensare, un paralume! Gli interlocutori sono mancati, la solitudine è profonda, siamo da soli chiusi nelle case senza ponti”.

Forse è per questo che lui, che ha sempre voluto dare ai suoi libri respiro ben più profondo degli articoli, ha pubblicato una raccolta d’interviste, o ritratti come ama definirli, la summa di 40 anni di giornalismo, 60 Maestri e infedeli (per stare al titolo del libro uscito questo gennaio per Garzanti): Gadda, Primo Levi, Altan, Fo, Gavazzeni, ecc. Fra loro troviamo anche le figure, care alla nostra storia, di Licia Pinelli e Rachele Torri, la straordinaria zia di Valpreda.

“Ho sempre detestato i libri fatti mettendoci dentro gli articoli di giornale, ma l’anno scorso, quando si profilò la nuova situazione politica – che comunque la si veda segna il passo della smemoratezza, dell’ulteriore perdita, del revisionismo – quando mi fu chiaro come tutto si stesse sfaldando, come non si facessero le cose che si sarebbero dovute fare, mi sono detto perché non fare un libro con questi ritratti? Ho pensato che metterli assieme, in ordine cronologico, avesse il senso di rendere disponibile una sorta di archivio, qualcosa di utile. Il libro ha avuto effettivamente una massa d’attenzione enorme, tutti i giornali ne hanno parlato, cosa che non m’è accaduta sovente, perché i miei libri sono fastidiosi. Questo significa che c’è ancora l’idea che possa esistere un’Italia differente, il luogo in cui hanno agito personaggi che hanno avuto vite difficili, laboriose, Terracini, Foa che hanno passato la giovinezza in galera. Sono contento di averlo fatto, ricevo delle lettere molto belle, dei complimenti non formali, anche se, a ben vedere, c’è sempre una contraddizione, perché quest’attenzione poi corrisponde al bilancio di quello che sta accadendo nel paese”.

Ma nel depensamento generale i libri sono ancora un punto d’incontro?
“I libri nonostante tutto reggono, magari prima si sapeva a priori a chi rivolgersi e ora lo scopri solo a posteriori”.

Oggi è il 25 aprile, nel congedarmi Stajano mi cita un passo di Cesare Garboli:

Da qualche tempo l’onda del revisionismo occupa le menti in eterno movimento degli intellettuali italiani di destra e di sinistra. L’onda non accenna a fermarsi, si ingrossa sempre di più. Sembra che l’antifascismo sia diventato una polvere, la forfora che si spazza via dall’abito prima di uscire di casa. Quello che gli si chiede è che non lasci traccia. Il radicalismo anticomunista (la paura può essere anche retroattiva) ha fatto strisciare un fascismo di ritorno, un fascismo che non si è mai sentito sconfitto. Tristemente minacciosa non è la rinascita, o lo sdoganamento, di un male forse geneticamente inseparabile dalla natura degli italiani (i quali, per atavica sindrome imperiale, si sentono fascisti non appena si sentono italiani). Triste e minaccioso è che il fascismo rinasca e si ripresenti scortato da idee liberali, attraverso e dentro le idee liberali. Ma, prima di salire ai quartieri alti delle idee, il revisionismo non è stato preceduto per tanti anni da una guerra combattuta attraverso sanguinose vie di fatto? Questa guerra si è combattuta in pubblico, la conosciamo, l’abbiamo vista, ne abbiamo contato le vittime, ma è stata organizzata in segreto, da uno stato maggiore nascosto nelle viscere del nostro paese come il sangue occulto nelle feci di un malato di tumore. (Ricordi tristi e civili, Einaudi, 2001)

Sono impressionato, sembra l’editoriale di stamattina.
“Ti ricordi il 25 aprile del ’94?”. Certo, la folla era enorme, la pioggia battente, ho rimediato uno dei peggiori raffreddori della mia esistenza.
“Ma che emozione! Milano gremita da porta Venezia al Duomo! Che senso di preoccupazione, di tragedia, in un paese come il nostro che rifiuta la tragedia e porta tutto in farsa scollacciata. Io ho la stessa preoccupazione. Ci vediamo in piazza”.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it

Intervista raccolta a Milano il 25 aprile del 2008.