rivista anarchica
anno 38 n. 337
estate 2008


società

L’inverno della politica
di Andrea Papi

 

È crollata, anche se non del tutto scomparsa, la tradizionale adesione ideologica. La cultura del cambiamento è marginalizzata. Eppure l’utopia urge e…

 

La neodestra italiana targata berlusca/lega impera con tranquilla supponenza e ostenta sicurezza e autorevolezza. Può farlo e in fondo se lo merita, almeno attenendosi all’immagine del consenso elettorale ottenuto che è riuscita a costruirsi addosso. Ma al di là della potente immagine mediatica noi pensiamo che più che la vittoria elettorale in sé, evidente e indiscutibile, sia importante cercare d’identificare il perché di questa schiacciante vittoria. Cosa ha portato un’enorme massa di elettori a scegliere a grande maggioranza i neodestri della scena politica di casa nostra?
Non che per noi che ci siamo astenuti sia importante come fatto in sé. Sul piano del rapporto politico strutturale tra governo e governati non cambia molto, soprattutto nella sostanza, se a governare ci siano questi di adesso o quegli altri di prima. Il tipo di risultato scaturito dall’ultima tornata elettorale è invece particolarmente importante. Mostra uno spostamento dell’immaginario politico e mette a nudo un trasferimento culturale che hanno tutta l’aria di non esser semplicemente dovuti al momento contingente.
La prima cosa rilevante che ci sembra di notare è che è crollata, anche se non del tutto scomparsa, la tradizionale adesione ideologica. In questo senso possiamo dire che è finita l’era degli “zoccoli duri” dei partiti in lizza, che votavano sempre allo stesso modo indipendentemente che fossero soddisfatti o no. Del resto la sinistra è da tempo che cerca di convincere il proprio elettorato che bisogna guardare soprattutto ai programmi e alla capacità di governare. I loro ex sostenitori hanno perfettamente colto il messaggio e giustamente non si fidano più. Dal momento che volutamente non rappresentano più il “faro” dell’alternativa sociale al sistema, dati i risultati poco edificanti del loro operato come equipe di governance, li hanno ritenuti inaffidabili come governanti.
La seconda cosa, altrettanto e forse più rilevante, è il diffondersi generalizzato di un senso di insicurezza. Non ci riferiamo tanto al supersbandierato problema della “sicurezza”, che artatamente riduce ogni problematica sociale a un fatto di ordine pubblico. Riteniamo altresì che si tratti di qualcosa di molto più ampio e complesso che, per amor di semplicità, chiamiamo senso diffuso di precarietà in progressiva espansione. Comprende senz’altro il bisogno di sentirsi più sicuri, quindi protetti, ma non è riducibile all’espandersi di quella che tecnicamente si chiama “microcriminalità”.
Si riferisce all’incombere sempre più devastante di una molteplicità di fattori incontrollabili e non sempre prevedibili che ammantano e condizionano pesantemente il nostro modo di vivere. Costante aumento del costo della vita, in particolare di alimentari energia e prodotti di prima necessità. Stipendi e salari sempre meno adeguati. Precarietà come regola delle condizioni di lavoro. Aumento costante dell’inefficienza e del costo dei servizi. Spropositato costo delle lobbies legate alla politica. Venti minacciosi dell’economia internazionale che determinano le condizioni di vita. Degrado in aumento a tutti i livelli della società. Catastrofi ecologiche sempre dietro l’angolo e inquinamento che minaccia la salute, elementi endemici e strutturali del modello di sviluppo da cui non si riesce a prescindere.

Insicurezza sociale e tensioni

È sempre meno possibile progettare il proprio futuro e se lo si fa è sempre all’interno di un imprevedibile che ti condiziona inevitabilmente verso il peggio. Ne consegue che i più deboli e i meno abbienti, sempre di più, più scoperti e in balia degli eventi, si trovano spaventati di fronte a un orizzonte di prospettive talmente tanto incerte, mentre chi si muove nell’empireo dei pochi che hanno ricchezza e potere, se è spaventato è perché teme ad ogni momento la reazione insorgente della massa dei bistrattati, sempre più esclusi dalle possibilità del benessere promesso dalla pubblicità. Questo insieme di fattori si abbatte ogni istante come massa compatta sui nervi tesi degli esseri umani che lo subiscono e determina la percezione di una realtà traballante. Ecco il senso della precarietà che avanza e crea frustrazione e incertezza.
L’insicurezza sociale che ne deriva genera tensioni annichilenti. Lo spazio per la gioia di vivere tende a scomparire e si è indotti ad occuparsi sempre più degli espedienti per la sopravvivenza esistenziale. Una tale tensione che si diffonde e progressivamente avviluppa il corpo sociale ha bisogno di sfogarsi, perché sennò il suo semplice accumulo determinerebbe facilmente una concentrazione di energia nichilista, tesa cioè a distruggere ciò che di esterno a noi è a portata di mano e irrazionalmente percepiamo ci avvolga. Così si scarica sui fenomeni più appariscenti e vicini, come clandestini, zingari, diversi in genere, ecc., percepiti con sempre maggior rabbia come disturbo non accettabile, causa prima dell’insoddisfazione che ci fa soffrire e ci deprime. Cresce una pulsione sempre più potente a liberarsi delle cause percepite che fanno star male, che porta ad essere seguita infischiandosene di ragionare per capire. Ci si sente abbandonati e cresce la richiesta di essere protetti, mentre la paura di non esserlo induce ad eliminare tutto ciò che sentiamo come possibile causa di un probabile pericolo. Siamo così pronti ad essere schiavizzati e sottomessi, a darci nelle mani di chi è capace di convincerci che ha forza e capacità per proteggerci.
Il mito del Leviatano, sempre pronto ad erompere con forza acceso dalla parte oscura di ognuno di noi, prende allora a poco a poco forma stimolato soprattutto dal diffondersi di questi sentimenti. L’incertezza del cammino che si prospetta apre la strada a chi ci garantisce che lo renderà certo. Il terreno è pronto e dissodato per la neodestra in agguato. La proposta di fondo è quella classica di sempre: legge e ordine, garantiti da chi dà ad intendere di saperli applicare. La destra ci crede. È parte del suo DNA ed è congenito alla sua struttura caratteriale. Per questo risulta credibile. I suoi attuali esponenti, i neodestri, raccoltane in pieno l’eredità, sanno convincere di esserne capaci.


La sinistra non è credibile neanche quando la sua parte cofferattiana li propone, tanto è vero che le sue proposte sono contrastate dall’interno, dalla sinistra radicale. Non fanno parte della cultura che nei decenni si è sforzata di accreditarsi, per cui anche quando sembra disponibile appare fiacca e indecisa. Invece qui ci vuole decisione e polso, che proprio l’immagine accreditata della neodestra sa assicurare con fermezza. Non più restauratrice antimodernista e antiprogressista, nemmeno più truce, ma suadente e accattivante, la contemporanea neodestra di governo è invece modernista e progressista. Nemica da sempre dei principi di uguaglianza, vuole governare per la conservazione del sistema di comando, ammodernando le gerarchie e premiando i meriti di esecuzione degli ordini dall’alto, intruppando le genti sotto identità che esaltino la forza dei leader. Ecco perché ispira fiducia: mostra il polso necessario a far rispettare le regole che promettono di proteggere i subordinati, inquieti perché vivono nell’incertezza.
Ma al di là degli umori del momento, la questione non è affatto semplice né scontata. Le proposte della destra, classica o neo, per loro natura conservano sempre il carattere di imposizione dall’alto e escludono la partecipazione dal basso se non come plebiscito di conferma dei comandi gerarchici. Hanno bisogno di essere lineari, perché il loro è un convinto governare che deve poter controllare per tentare di imporre stabilità e fermezza. Tendono perciò a semplificare, a costringere e ridurre la problematicità. È un’azione di superficie, fondata com’è sul controllo e sul comando come essenza della soluzione dei problemi. Vecchia ricetta stracotta che mira a una stabilità impossibile da realizzare. La complessità del reale al contrario ha bisogno di essere rispettata. Se viene forzatamente linearizzata e semplificata, reagisce e crea complicazioni che recidono i lacci messi per imbrigliarla. La complessità non può essere governata imprigionandola, contrastandone la natura con le catene ormai logore di “legge e ordine”. È per questi motivi che il loro piano non può funzionare all’infinito. È un fiume destinato a tracimare.

Precarietà endemica, sfruttamento e...

Per chi crede come noi in percorsi di liberazione per una nuova primavera di reciproca libertà e di solidarietà sociale diffusa, questa situazione è preoccupante. Purtroppo sembra che siamo precipitati in un vero e proprio inverno della politica, bigio e triste, sovrastati come siamo da un ammasso di cupi nembi minacciosi, supportati dalla richiesta di scatenare l’uragano che con la sua furia purificatrice ridia tranquillità. Dal basso non stanno giungendo richieste di emancipazione e conquiste d’autonomia. Convinta da decenni di cultura politica all’insegna della governabilità a tutti costi, di fronte al caos senza tregua provocato dalle varie caste politiche che si sono succedute, la base sociale, ormai esausta, preme perché vengano ristabiliti legge e ordine, indotta a chiedere immagini di superficie che cozzano con la complessità. L’opera reazionaria ha funzionato. Il Leviatano è legittimato a esercitare la sua forza dominatrice.
Non poteva che essere così. Ripercorriamo il senso del percorso avvenuto. Sono decenni che in Italia l’impostazione prevalente dentro la cultura di sinistra in varie forme ha abbandonato e condannato la lotta rivoluzionaria per l’emancipazione sociale. Praticamente da dopo la liberazione dal fascismo, quando il Pci riuscì ad egemonizzare la sinistra e condurla all’interno di quel cupo tunnel chiamato “via italiana al socialismo”, che altro non era che il “sinistro” braccio politico dell’URSS per cercare di limitare le capacità d’influenza internazionale nella NATO. Poi c’è stato il crollo del muro di Berlino, la fine del bipolarismo delle superpotenze, la fine dell’illusione del paradiso bolscevico in terra. Il passaggio definitivo dalla “lotta al sistema” al “riformismo dentro il sistema” è stato ampiamente sancito.
In tal modo da decenni tutti, da destra e da sinistra, sostengono con forza che si deve governare il presente regolandolo dall’alto dell’autorità statale, considerato e imposto come unico realismo politico che abbia senso. E promettono di farlo. Ma il presente è questo, fatto di precarietà endemica, sfruttamento e dipendenza dalla tecno-finanza internazionale. Per governarlo, secondo una percezione ormai ampiamente diffusa, ci vuole, appunto, legge e ordine. Nata per modificare il sistema in senso socialista, la sinistra al contrario, per propria scelta, si trova a dover e voler agire per mantenerlo e governarlo. Le sue ricette, data la sua natura originaria prive della necessaria convinzione, sono di conseguenza confuse e indecise. Spinta dalla necessità del consenso, la sinistra istituzionale insegue la destra nella ricetta di ridare un’improbabile stabilità regolando il presente caotico. Ecco l’inverno, cupo e bigio. Dall’alto tutti, sia a destra sia a sinistra, inseguono una politica il cui segno culturale è fondamentalmente destrorso, mentre la cultura di cambiamento del sistema, originaria della sinistra, è sempre più marginalizzata e inconsistente.
È venuto meno il luogo di costruzione e ricompattamento dell’utopia rivoluzionaria, mentre la sua esigenza bussa prorompente perché i problemi sociali non sono affatto risolti. Anzi, in verità sono moltiplicati e si sono amplificati. L’utopia, capacità di progettare un futuro concretamente altro, soffocata nel contingente da un’incertezza imposta dai potentati di turno, grida la necessità della propria esistenza ed ha bisogno di ritrovare l’ambito della propria capacità di esprimersi.
Urge trovar la forza e la maniera di uscire dall’inverno in cui ci siamo lasciati costringere per ritrovare la primavera della rinascita. Ma per riuscirci non sarà più sufficiente lasciarsi rinchiudere nel ghetto di un antagonismo ribellistico sempre più stereotipato e fine a se stesso. Continuando a lottare con determinazione e a ribellarsi ai soprusi, bisognerà invece far uscire allo scoperto le nostre proposte. Dovranno essere complesse e concrete al tempo stesso, con la capacità di mostrare una strada fattibile, permeate da una visione che sia in grado di rappresentare la luce di un novello umanesimo, tutto teso a voler realizzare la pace, la solidarietà e una convivenza autogestita direttamente e concordemente da tutti, fuori da ogni logica di oppressione e sfruttamento.

Andrea Papi