rivista anarchica
anno 38 n. 337
estate 2008


anarchici

Con maggiore determinazione
di Antonio Cardella

 

La crisi della sinistra ora extra-parlamentare ci spinge a riflettere sui compiti degli anarchici e sulle nostre carenze.

 

Debbo dire con chiarezza che non unisco la mia voce a quella di chi lamenta la scomparsa della sinistra dagli scranni parlamentari e ciò per due ordini di motivi che magari saranno ostici ai sostenitori del meno peggio, ma che, a mio modo di vedere, forniscono chiavi di lettura non consuete di una situazione, quella attuale, assolutamente insostenibile e immodificabile con i soliti pannicelli caldi di un riformismo d’accatto e di un rivoluzionarismo parolaio.
Il primo ordine di ragioni riguarda il luogo stesso dove attualmente si elabora il lutto per la scomparsa della sinistra: il Parlamento. Agli anarchici non mi pare il caso di ricordare che questa sede della presunta rappresentanza popolare è in realtà l’agone dove si scontrano poteri consolidati, assetti di dominio alla ricerca di legittimazioni per ampliare nella società la loro sfera d’influenza. Chi siede in quegli scranni si rende comunque complice, volontario o involontario, di questi giochi, finisce anzi col praticarli utilizzando al meglio gli strumenti che sono propri della struttura: la mediazione, il compromesso, la compatibilità con gli assetti dell’esistente. Dico cose note ma tutt’altro che scontate. Nella storia degli istituti parlamentari è difficile trovare traccia di legislazioni che non si limitino a rendere legittimi i poteri prevalenti nella società, che non codifichino per veicolare nel corpo sociale una morale che renda compatibile con la morale corrente lo sfruttamento e la disuguaglianza tra gli uomini, con il conseguente supporto di apparati repressivi che soffochino ogni dissenso.

Il secondo ordine di ragioni che mi impedisce di elaborare un lutto è che la sinistra rappresentata dai Bertinotti, dai Russo Spena, dai Diliberto, per citare solo i più noti, è la stanca e incredibile epigone di ideologie sconfitte dalla storia già da decenni e che ormai riproducono scenari politici che non posseggono alcun retroterra culturale credibile: un balbettamento di rituali privi di senso spacciati per formule salvifiche.
Il fatto incontrovertibile è che costoro, proseguendo una lunga tradizione, hanno contribuito, da protagonisti, a soffocare ogni opposizione che non fosse riconducibile alle ragioni di volta in volta prevalenti, delle avanguardie rivoluzionarie, del partito, dello Stato (ovviamente popolare) inteso come ineliminabile organigramma di controllo delle comunità.
Dobbiamo ricordarlo? Sono i figli e i nipoti non pentiti di coloro che hanno soffocato la rivoluzione spagnola del 1936, che hanno favorito e sostenuto la politica togliattiana del compromesso storico e che si sono messi di traverso alle istanze libertarie della rivolta giovanile del Sessantotto.

Vocazione all’inclusione

Io non credo che gli anarchici debbano avvertirsi in qualche modo contigui a personaggi che hanno ucciso il dissenso nella società, rinunciando ad ogni forma di opposizione radicale alle logiche del modo di produzione capitalistico, di critica dei lavoratori al riformismo complice degli apparati sindacali e, dato ancora più sconvolgente, emarginando quanti si oppongono alla guerra, a tutte le guerre, comunque motivate.
Significa questo che dobbiamo arroccarci in una sorta di splendido isolamento? Tutt’altro: nel nostro dna c’è inscritta in maniera indelebile la vocazione all’inclusione, l’incapacità genetica di discriminare aprioristicamente qualsiasi essere umano. Solo che dobbiamo smetterla di renderci sempre compatibili con le ragioni altrui: invitiamo semplicemente tutti a misurarsi, senza costrizioni, con la nostra visione del mondo e della storia. Ricordo che in un Congresso internazionale anarchico, dove da un palco piovevano appelli alla rivoluzione permanente e all’unità delle forze rivoluzionarie, un compagno spagnolo, con il volto segnato, si alzò e disse pacatamente: “Sono stanco di compagni di viaggio che, al termine del percorso, trovano sempre un muro di calce bianca contro cui trucidarci”.
Dobbiamo rassegnarci: sin dai tempi della Prima Internazionale le istanze degli anarchici sono e rimangono diverse e qualche volte opposte a quelle di altre filosofie politiche e i centocinquanta anni circa trascorsi da quegli inizi hanno scandito, ribadendole, queste differenze, non infrequentemente lasciando tracce di sangue vivo.
Questa consapevolezza sarebbe soltanto consolatoria se non provassimo con maggiore determinazione ad includerci, con la credibilità del nostro bagaglio storico-culturale, nel dibattito politico dei nostri giorni e ciò richiede veri e propri miracoli di impegno intelligente e costante. Dobbiamo tornare a frequentare i cancelli delle fabbriche, le aule scolastiche e universitarie, i circoli dove si tenta di venire a capo di una cultura in larga misura vassalla dei potenti. E poi i forum, i laboratori dove i giovani tentano di trovare strade inedite per superare le nuove e annichilenti forme di emarginazione. Dobbiamo trovare megafoni che amplifichino la nostra voce, una rete militante che distribuisca la nostra stampa. Insomma, bisogna serrare le fila, tenendoci lontani da suggestioni palingenetiche che suscitano soltanto pericolosi fideismi e non aiutano a ragionare. Dobbiamo trovare compagni con i quali iniziare un percorso comune nel quale, passo dopo passo, si debbono verificare gli esiti delle vecchie e nuove convivenze, della solidarietà e della tolleranza, pronti a scrivere e riscrivere le regole della comunità, regole naturalmente sempre modificabili e mai impositive.
Siamo in pochi, e questo è vero, ma sembriamo meno di quelli che siamo forse perché il lavoro delle federazioni, dei gruppi e delle individualità (non parlo soltanto della FAI, ovviamente) stenta a socializzarsi. Siamo carenti nell’utilizzare al meglio i pochi strumenti che abbiamo e, costretti spesso a rispettare appuntamenti iscritti in agende altrui (emergenze locali, nazionali ed internazionali), non riusciamo ad elaborare organicamente la nostra visione dell’esistente e di come e in che direzione intendiamo cambiarlo.
Mi accorgo che, con il tono usato, ho sfiorato la predica, ma non recedo, perché le cose che si sentono dentro, che urgono veramente, vanno dette e scritte così come vengono. Non vogliatemene.

Antonio Cardella