rivista anarchica
anno 38 n. 338
ottobre 2008


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Dietro gli alberoni
l’ombra del totalitarismo

 

Scelgo un esempio fra i tanti – fra i troppi – a disposizione. Che il Presidente del Senato, Renato Giuseppe Schifani sia stato socio in affari con uno che, successivamente, è stato condannato a 8 anni per mafia e a 4 per intestazione fittizia di beni e con un altro successivamente condannato per concorso esterno in associazione mafiosa non è bene dirlo. Perché non sta bene? Fra le più fantasiose risposte date al quesito c’è stata anche quella che diceva che il tal Schifani è Presidente del Senato e che, pertanto, occupando un’alta carica dello Stato, riferire questa brandello dei suoi trascorsi sarebbe stato oltraggiante per le istituzioni. Come se ciò non costituisse un’aggravante.
Fatto è che, da un po’ di tempo in qua pare obbligatorio non “demonizzare” l’avversario politico, guardare alle cose – anche alle più rivoltanti – con misurato distacco e non urtare la suscettibilità dell’elettorato. Chi desse del ladro al ladro o chi dell’assassino all’assassino, insomma, perderebbe voti. I voti di chi? Certamente quelli dei complici – si chiamino essi “partito avverso”, “elettorato di centro”, “ceto medio”, “benpensanti” o altrimenti.
Dovremmo tutti subire in silenzio e sorridendo, mantenere nei confronti della vita pubblica del nostro paese il sano distacco del medico nei confronti del malato, dello psicoanalista nei confronti del cliente, dello scienziato nei confronti dell’oggetto di studio. Mai indignarci, pena la rivelazione di una nostra debolezza che, in quanto tale, ribalterebbe le sorti del giudizio: l’oggetto dell’indignazione verrebbe santificato e l’indignato meriterebbe il vituperio delle genti tutte.
L’andazzo potrei ricondurlo al Nietzsche della Nascita della tragedia, laddove – non senza l’abituale indignazione (ehm) – afferma che “l’indignato, e chi dilania e lacera costantemente se stesso con i propri denti (o, invece di se stesso, il mondo, o Dio, o la Società) anche se dal punto di vista morale può collocarsi più in alto del satiro ilare e soddisfatto di sé, sotto ogni altro aspetto rappresenta il caso più banale, meno interessante, meno istruttivo”, concludendo che “nessuno mente tanto quanto l’uomo indignato”.
Da Nietzsche ad Alberoni (chiedo scusa agli appassionati) il passo è ormai brevissimo. Meno brillante, ma non meno pronube di un fascismo che ci toccherà di attraversare e più pasciuto della cosa, Alberoni mette in guardia dai “severi” e dagli “indignati” che “denunciano e condannano dovunque soprusi, malvagità, corruzione e complotti”. Roba da Santa Inquisizione – no, lui questo non lo dice, perché anche la Chiesa va tenuta buona –, roba da “inquisitori”. Che, tuttavia, sarebbero spesso “acclamati” perché “danno sfogo al malcontento popolare”, alla “voglia di vendetta”, coltivando l’illusione che tutti i problemi del mondo sarebbero il frutto di qualcuno tolto di mezzo il quale tutto funzionerebbe “a meraviglia” che – peccato mortale – l’uomo sia “buono per natura”. Sarebbe così che nascono i temibilissimi rivoluzionari – quelli che lui ribattezza al superlativo da ripetizione , i “critici-critici”. Orbene – e qui, non senza un briciolo di indignazione (ehm) arriva la tesi, la denuncia del male nonché il sollievo della terapia –, essendo il male al mondo infinito, ecco che questi rivoluzionari avrebbero l’infausta pretesa di estirparlo tutto quanto, rivelando così la loro “radice psicologica totalitaria”. La cura? Fate come i grandi uomini, fate come coloro che hanno compiuto “importanti scoperte scientifiche”, lasciando dietro di sé “progresso e benessere”. Come se Alberoni avesse letto la storia della scienza cartina dopo cartina dei cioccolatini Perugina, sostiene beatamente che costoro “non hanno perso tempo a criticare o condannare le idee degli altri”. Come se l’esigenza di una teoria nuova non sorgesse dalla consapevolezza che qualcosa non va in quella vecchia.
Non è la prima volta che Alberoni si inventa una storia della scienza letteralmente demenziale e non è la prima volta che, alla faccia delle sue argomentazioni, la cosa mi indigna. Ma non soltanto nei suoi confronti o, meglio, dell’andazzo di servilismo e di intontita acquiescenza che rappresenta più o meno consapevolmente, sono lieto di indignarmi. Vado fiero di sapermi ancora indignare perché non ho alcuna intenzione di sedare la passione politica con cui guardo alle cose della vita e – anche se prodromi non ne posso constatare (gli Alberoni sempre più numerosi lasciano alle proprie spalle ombre di segno contrario) – non vedo l’ora che questa mia indignazione si diffonda trasformandosi in un progetto collettivo.
L’unica controindicazione che mi è presente – una controindicazione di ordine biologico – è quella che mi metteva in luce un tempo il mio Maestro, Silvio Ceccato: “Felice”, mi diceva, “ricordati che la tua indignazione fa male a te, non a loro”.

Felice Accame

Nota
Le informazioni su Schifani sono tratte da Se li conosci li eviti, titolo imperdonabilmente ottimistico di P. Gomez e M. Travaglio (Chiarelettere editore, Milano 2008), mentre l’articolo di F. Alberoni, Dietro l’indignazione l’ombra del totalitarismo, è apparso su “Il Corriere della Sera” del 25 agosto 2008.