rivista anarchica
anno 38 n. 338
ottobre 2008


ricordando Giuliano Bruno

La secessione da un’epoca vile
di Alberto Prunetti

 

La tragica vicenda di un liceale antifascista, picchiato dai fascisti, terrorizzato, morto suicida a Trieste. Sullo sfondo, i colonnelli argentini…

 

Italia, nordest, febbraio 2007. Giuliano Bruno è un liceale antifascista. Di ritorno da una manifestazione a Treviso viene aggredito e picchiato da un gruppo di Skinheads neofascisti. Giuliano non esce più di casa, ha paura. Da quell’episodio passano alcuni giorni, gli amici lo invitano a uscire. Partono in macchina, vanno verso il centro di Treviso, uno di loro scende, va in cerca di un altro compagno. Poi torna e dice a Giuliano: “Non uscire! Stanno arrivando gli Skinheads!” Arrivano. Aprono la porta della macchina. Giuliano è rimasto dentro assieme a un altro ragazzo. Gli chiedono: “Sei Giuliano Bruno?”. “Sì, sono io”. Lo colpiscono con violenza in testa. L’amico prova a difenderlo. Gli rompono il naso.
Dopo la seconda aggressione Giuliano lascia la scuola, non vuole più stare nel trevigiano. Comincia a vagabondare per l’Europa. Partecipa alla manifestazione contro il G8 di Haligendamm, in Germania. Torna in Italia, trova alcuni lavori occasionali. Poi riprende a studiare, questa volta a Trieste.
La mattina del 5 maggio 2008 lo trovano a terra, sotto casa sua. Suicida.

Da Buenos Aires a Treviso

La famiglia di Giuliano Bruno era riparata in Europa negli anni Settanta per sfuggire alla dittatura pseudo-fascista argentina. La storia di Giuliano si lega a quella di suo nonno, Osvaldo Bayer, uno dei più noti scrittori argentini.
“Mi davano 24 ore di tempo per lasciare il paese altrimenti ero un uomo morto…“. Così Osvaldo Bayer, nato a Santa Fe, Argentina, nel 1927, mi raccontava la storia della sua condanna a morte, pubblicata su un giornale di Buenos Aires e sentenziata da un gruppo clandestino di estrema destra nel 1974. All’epoca dell’intervista, poi pubblicata su Il Manifesto, ero andato a trovarlo a casa sua, nel quartiere Belgrano, in quella casa d’angolo della città rioplatense che il suo amico Osvaldo Soriano, eterno provocatore, definiva un tugurio. Era l’autunno del 2005 e Buenos Aires mi veniva incontro con le parole di questo vecchio con la barba bianca e lunga, autore del romanzo “Severino Di Giovanni” (1970), della “Patagonia Rebelde” (1972, di prossima uscita in italiano per l’editrice Elèuthera) e, in tempi più recenti, di “Rayner y Minou” (2001).
L’idea era quella di farmi raccontare da Osvaldo la sua vita e le ricerche storiche dedicate all’emigrazione politica italiana, che lo avevano portato a scrivere libri stupendi, opere tanto radicali che i militari – conquistato il potere a Buenos Aires con un colpo di stato negli anni Settanta – non si accontentarono di costringerne l’autore all’esilio, ma arrivarono a dare alle fiamme ogni esemplare che riuscivano a rastrellare. Infine, perché la misura fosse colma, proibirono il film tratto da un romanzo di Osvaldo e che lui stesso aveva sceneggiato, la “Patagonia rebelde”, di Héctor Olivera, Orso d’argento a Berlino eppure proibito in patria con tanto di persecuzioni rivolte contro tutto lo staff, incluse le comparse. Eccessi argentini sembravano a quei tempi, quando io e Osvaldo discorrevamo di tempi passati e lontane persecuzioni.
Ricordo che mi sentii indiscreto quando, parlando dello scrittore desaparecido Rodolfo Walsh, mi venne da chiedere un dettaglio troppo forte sulla sua morte. Le lacrime che per un attimo bagnarono gli occhi di Osvaldo non turbarono la sua lucidità, perché lui stesso, come Walsh, si è fatto carico di scrivere in tempi difficili.
Eppure Osvaldo, costretto alla fuga, obbligato a nascondersi in casa di anarchici, sempre pronto a organizzare progetti di cospirazioni contro le dittature – come quella volta che organizzò assieme a Soriano e García Márquez il progetto, poi rimasto sulla carta, di un ritorno in massa di intellettuali esuli latinoamericani – non avrebbe pensato, in quella tranquilla mattina portegna, di dover ancora una volta scrivere parole tanto amare. Ancora scrivere di perseguitati, di ammazzati, di amici costretti al suicidio per sfuggire alle torture, per bere da soli il calice amaro di un’epoca vigliacca. È il violento “oficio de escribir, amigo”, gli avrebbe ricordato Walsh. La testimonianza di scrivere, di farsi violenza a scrivere, di scrivere su fatti violenti. Un’epoca che sembrava chiusa e che invece costringe Osvaldo, a cui le Madres de Plaza de Mayo hanno dedicato il loro caffè letterario, a scrivere ancora, a riempire d’inchiostro quelle pagine bianche che ogni mattina, alle sei in punto, cominciano a presentarsi sulla sua scrivania.

Questa volta è suo nipote

Ma questa volta il compito è più amaro. Perché il giovane rebelde, una figura che ricompare in tante pagine dell’opera di Osvaldo, non è un anarchico nato un secolo fa, né un martire di un’idea che arriva a Baires dai barconi transoceanici. Questa volta Osvaldo scrive di suo nipote, di Giuliano Bruno, il figlio di sua figlia Ana, che ancora piccola lui fece montare in fretta e furia su un aereo diretto in Europa perché non conoscesse gli orrori e le violenze orchestrate da un gruppo di fascisti con in mano le redini dello stato. Tragico paradosso e lugubre scherzo del destino, quello che ha portato il giovane rebelde in questa Italia che da terra d’accoglienza per gli esuli e i rifugiati politici si fa spazio di persecuzione.
Perché Giuliano Bruno non è stato ammazzato come Carlo Giuliani, né come Nicola Tommasoli. Non è morto neanche come quel rumeno di cui nessuno ricorda più il nome — forse perché gli stranieri in questo paese sono privati anche del loro nome — e che è cascato dalla finestra di una questura, o forse era la tromba delle scale, e tanto chi se ne frega, diranno i giornali che a questa notizia non dedicano quasi neanche un trafiletto. Giuliano Bruno è morto respirando ogni giorno quest’atmosfera che viviamo in Italia, questo misto di nebbia di Weimar, di paura argentina e di grottesca farsa italiota. Condita dai pogrom e dai rigurgiti neorazzisti, dagli assalti delle teste rasate, dall’intolleranza verso tutto ciò che non sia la voglia di fregare il prossimo per comprarsi il Suv.
Un’epoca agra e triste, una “mala notte” a cui Giuliano ha reagito con l’ultimo gesto del ribelle, quello che rivendica il proprio diritto di secessione da un mondo tanto vile e letale.

Alberto Prunetti


ricordando Giuliano Bruno

[A Treviso il suicidio di un giovane libertario viene frettolosamente liquidato come il frutto di una delusione scolastica dalla stampa locale. Ma a qualche migliaio di chilometri un giornale argentino racconta quella storia in un’altra maniera, e svela il cuore nero del nordest italiano.] A.P.

Giuliano Bruno, mio nipote

Treviso (Italia del nord)

Nella mattina del lunedì la telefonata: è morto Giuliano.
Alzo la testa. Guardo i libri, che mi osservano in eterna attesa. Le matite, i fogli in bianco.
È morto Giuliano, aveva appena 20 anni. Vedo che ci sono appena tre o quattro fogli scritti.
Con frasi per il futuro, piani, sogni.
Mi alzo e posso solo insistere, non mi arrendo. Mi resta solo da annaffiare le piante. Anche loro mi osservano, sempre più verdi.

Sono arrivato a Treviso, cammino per il Prato della Fiera. Dove da adolescente era passato mille volte Giuliano. Il giovane incredibile che leggeva, discuteva, sognava e progettava.
Era il libertario sognato dall’utopia.
Entusiasta, faceva mille cose con la voglia di mettere la vita in tutto.
Sì, aveva scelto il liceo scientifico e non il classico. Ma la scienza da sola non può salvare il mondo. Era partito alla ricerca di un sapere umanista.
Questa ricerca gli aveva fatto abbandonare i suoi studi per un po’. Aveva cominciato a conoscere l’Europa per conoscere la vita.
Tanti lo hanno visto arrivare con migliaia d’altri giovani a Heiligendamm, in Germania, per protestare contro il vertice degli Otto, il G8, il vertice di quelli che dominano il mondo.
Hanno visto Giuliano nel momento in cui 800 poliziotti e soldati avanzavano verso i manifestanti. Lui, Giuliano, è andato loro incontro e senza nessuna difesa ha gridato agli uomini in divisa – pieno di ironia e disprezzo – quella parola italiana che dice tutto: “Vaffanculo!”.
Sono rimasti perplessi di fronte al coraggio di quel ragazzo dall’aria da poeta. Lo avrebbero potuto ammazzare. Ma lui, immutabile e sorridente, ha dimostrato che la decisione di un essere umano può essere più degna e tenace di mille grilletti e corazze.

In seguito Giuliano ha percorso diversi paesi lavorando nei più umili lavori per guadagnarsi la vita. Per conoscere la vita dal basso.
Tornato a Treviso, ha ricevuto l’ingiustizia più brutta. Le teste rasate fasciste l’hanno sorpreso e colpito con ferocia, assieme a un altro ragazzo.
Poco dopo quella scena si è ripetuta in un’altra piazza.
Giuliano ha ripreso i suoi studi ma non più a Treviso, una città sempre più di destra, dove si respira il razzismo contro gli stranieri.
Ha ricominciato i suoi studi a Trieste, una città diversa, con una popolazione più internazionale. Per lui è stata una nuova vita. Uno dei suoi amici lo descrive così: “Era un piacere vedere Giuliano quando era con noi. Era intelligente, simpatico, parlava quattro lingue, musicista, tollerante e amante della libertà”.

Questa qualità di amare la libertà sarebbe stata fatale per lui in quell’Italia che ha fatto crescere il berlusconismo. Il suo ultimo viaggio è stato a Berlino. Ha fatto il traduttore per i compagni e i professori. Si sentiva al centro del mondo in una città che ha conosciuto la crudeltà del nazismo, ma che ha anche visto la rivoluzione di operai, soldati e contadini del ’19. La città in cui Rosa Luxemburg fu assassinata col calcio dei fucili dagli sbirri del potere.

Tornando da Berlino lo aspettava il nord d’Italia con il suo irresistibile ritorno della destra. Il trionfo di Berlusconi e dei suoi alleati, schiacciante.
Il neofascismo tornato a muoversi per le strade.
La destra italiana senza limiti nei suoi eccessi.
Giuliano non riusciva a capire come l’Italia avesse potuto scivolare nel razzismo e scegliere come massimo leader un rappresentante del capitalismo più bieco. Il giornale tedesco Suddeutsche Zeitung commenta la morte del giovane Nicola Tommasoli, preso a calci da cinque membri della gioventù neonazista. L’hanno ucciso senza motivi. Questo a Verona, la città di Romeo e Giulietta, la città dell’amore, continuava il giornale tedesco, trasformatasi nel simbolo della paura. Lo Zeitung continua: “In Italia regna un clima culturale e politico dove fiorisce l’odio e l’intolleranza verso i più deboli”. Niente poveri né stranieri.
Il giornale italiano La Repubblica denuncia che il neofascismo segue la parola d’ordine “combatti il diverso”. Pubblica fotografie che fanno rabbrividire.“Fronte Veneto ” e “Skinheads”. Bandiere fasciste con simboli che imitano la croce uncinata. Tifosi di calcio che si considerano gli eredi dei legionari romani. Croci svastiche, croci celtiche, teste rasate.

Questo clima è stato determinante per Giuliano, che non comprendeva la violenza. Questi episodi hanno minato il suo ottimismo. È caduto nella malinconia. Ormai era impossibile raggiungere il Paradiso nella terra che sognava.
L’ultimo grido di Giuliano è stata una poesia di Hermann Hesse. Che dice tutto.
Tutto quello che lui ci voleva dire nel suo addio. “Guarda laggiù il fondo dello stagno / che si fa cupo e come si rincorrono le / nuvole specchianti sul velluto nero / Non dirlo! Questa è una mala notte”.

Giuliano era mio nipote.

Osvaldo Bayer
giornalista di Pàgina 12, Buenos Aires, Argentina
scrittore e storico