rivista anarchica
anno 38 n. 338
ottobre 2008


società

Un’estate italiana
di Maria Matteo

 

Tra divieti e militari per le strade. L’emergenza permanente.

 

Torino. Parto da qua perché è qua che vivo, perché da qualche parte occorre pur partire. Parlo di agosto ma potrei raccontare anche altri mesi: le storie finirebbero con il somigliarsi tutte, perché qui siamo in guerra, una guerra a bassa intensità con i suoi morti, i suoi feriti, i suoi deportati.
Aiad Zakaria aveva solo 15 anni. Nel tardo pomeriggio del 2 agosto muore annegato nel Po: ma non è stato il fiume ad ammazzare Aiad: lo ha ucciso una legge che nega ai poveri il diritto di muoversi e di vivere dove vogliono. Aiad in quel pomeriggio di grandine e pioggia stava fuggendo da una retata della guardia di finanza: è morto per non rischiare la deportazione in Marocco, per non essere strappato alla sua vita, per non perdere quel lembo di futuro che chi emigra spera di agguantare.
Al CPT/CIE di Torino chi si ribella viene pestato, umiliato, espulso: l’ultimo pestaggio, l’ultima rivolta è dello scorso 18 agosto, quando un detenuto che protestava contro l’ennesimo sopruso viene picchiato e, in risposta, per qualche ora i reclusi spaccano tutto.
Il sindaco Chiamparino, appena acquisiti i superpoteri concessi da Maroni, ha emesso un’ordinanza contro i “bivacchi” a S. Salvario, il quartiere vicino alla stazione dove gli immigrati sono tanti. Chi può permettersi di sedere nei dehor dei bar si gode il fresco delle serate, per gli altri, per quelli delle moretti a un euro bevute su uno scalino in strada ci sono le pattuglie.
Aldo Faraoni, il nuovo questore all’ombra della Mole, ha fatto la sua dichiarazione di guerra, dicendo che l’immigrazione clandestina è la maggiore emergenza cittadina. È arrivato il 25 agosto, pochi giorni dopo l’entrata in “servizio” dei militari della Taurinense, che da qualche settimana pattugliano le zone “calde” della città. A Porta Palazzo, dove vivono e lavorano molti immigrati, oltre alla polizia, che già gira come truppa di occupazione, adesso ci sono i soldati. Come a Kabul, come a Baghdad, come a Mogadiscio. Ma questa Torino non è che lo specchio di un’Italia dove la sindrome emergenziale si inghiotte, giorno dopo giorno, le libertà di tutti.

Vite precarie, in bilico

I soprusi, le rivolte, i pestaggi sono all’ordine del giorno nei CPT di ogni dove nel nostro paese. Il nuovo governo, meno ipocrita della sinistra che 10 anni fa istituì queste galere amministrative per immigrati, gli ha cambiato nome: adesso si chiamano CIE – Centri per l’identificazione e l’espulsione.
La vita dei senza carte è sempre in pericolo, precaria, in bilico. Ogni estate nel mediterraneo muoiono a centinaia, inghiottiti dalla ferocia di una fortezza che alza ogni giorno i propri muri. Quelli che ce la fanno ad entrare nell’Eldorado rischiano la pelle nei cantieri, nei campi, per le strade dove incappare in una retata significa la deportazione. È una sorta di tragico gioco dell’oca: chi non ha fortuna torna alla partenza, o finisce in galera, o resta impigliato nella schiavitù del contratto di soggiorno.
Questa guerra che viene ogni giorno dichiarata è ormai una sorta di rumore di fondo, un fatto “naturale” cui non si bada più. Viviamo in uno dei paesi più sicuri del mondo ma i politici e i media che gli fanno da megafono hanno creato lo stato di emergenza permanente. Di tanto in tanto la cronaca fornisce lo spunto per mantenere la tensione, per suscitare l’indignazione. Volete provare a “pesare” le righe dedicate alla rapina con stupro di due turisti olandesi, vittime di due pastori rumeni, per confrontarle con il peso – in inchiostro e minuti di telegiornale – della rapina con stupro di due turisti tedeschi, vittime di tre ragazzi italiani? Io l’ho fatto e vi garantisco che è stato un esercizio interessante.
L’emergenza, descritta con pittorica violenza, ha il suo fulcro nel tema dell’immigrazione irregolare, nel clandestino naturalmente delinquente, contro il quale elaborare nuove strategie disciplinari. Strategie il cui obiettivo finale è l’intera società. Il meccanismo è semplice ma difficile da scardinare perché si basa su un cortocircuito ben congegnato: leggi razziste consentono di mantenere sotto costante ricatto tutti gli immigrati, quelli regolari schiacciati dall’equiparazione tra contratto di lavoro e diritto alla permanenza regolare nel nostro paese; quelli senza carte, obbligati ad accettare qualunque condizione di lavoro perché privi di ogni tutela. Gli immigrati clandestini, tali per legge, devono essere perseguiti e quindi giustificano con la loro stessa esistenza l’introduzione di nuove norme repressive. In questo modo i padroni hanno a disposizione un grosso bacino di manodopera ricattabile, flessibile, a buon mercato; lo stato, per parte sua, crea l’emergenza e poi mette in campo gli strumenti per fronteggiarla.
Questa estate passerà alla storia come l’estate dei divieti tra superpoteri ai sindaci e militari che pattugliano CPT/CIE, quartieri “a rischio”, zone di spaccio, obiettivi sensibili.
Gran parte delle ordinanze dei sindaci superman sono dirette ancora una volta contro gli immigrati ma poi finiscono con il rendere la vita difficile a tutti. In certe località sono stati vietati il commercio ambulante e la questua, in altre hanno proibito il gioco della palla o il freesbe in spiaggia, in altre ancora le riunioni di più di tre persone nei parchi pubblici, il bagno nelle fontane, dormire sulle panchine, mangiare un panino sugli scalini di un monumento, andare in giro a torso nudo.

La paura fa accettare tutto

Ci sentiremo più sicuri se non correremo più il rischio che una pallonata ci riempia di sabbia lo stuoino? Vivremo meglio se non vedremo più qualcuno che si mangia un panino con le chiappe incollate ai gradini di chiese e musei?
Ne dubito. Ma poco importa: la logica dell’emergenza, giocata con freddo calcolo da padroni e governanti, si fonda sulla paura e la paura è un mostro dai denti aguzzi, che non si elimina con il semplice argomentare sulle statistiche sui reati in costante diminuzione o sul fatto che i soprusi e le violenze subiti dagli immigrati sono di gran lunga maggiori di quelli fatti da immigrati.
La paura fa accettare tutto, compresi i militari in armi per le strade. Sono gli stessi della Somalia, della Bosnia, dell’Iraq e dell’Afganistan: pattugliano le strade delle nostre città e non resta che augurarci che non siano troppo stressati. Perché quando sono sotto stress può capitare che esagerino, così sostenne la Commissione Difesa chiamata a pronunciarsi sul comportamento dei nostri ragazzi in Somalia. La missione si chiamava “Restore hope – ricostruire la speranza” e si svolse tra il 1993 e il 1994. Tre anni dopo il settimanale Panorama pubblicò foto che ritraevano i soldati della Folgore intenti a lavorarsi con elettrodi e batteria i testicoli di un prigioniero steso a terra pesto e sanguinante. Altre immagini ritraevano una ragazza somala nuda, legata ad un camion, stuprata con un razzo illuminante. Il due giugno del 1999 la Commissione scrisse nel proprio rapporto finale che qualcosa era effettivamente successo e che, oltre ai soldati interessati, erano responsabili anche gli ufficiali che non si erano resi conto che la truppa era sotto stress. I più, quando sono sotto pressione, si prendono un attimo di pausa, vanno in vacanza, si riposano. I soldati no: loro giocano il gioco della guerra e in guerra la tortura e lo stupro sono la normalità.
Certo qui da noi, almeno per il momento, dovranno comportarsi un po’ meglio anche se spesso avranno a che fare con non cittadini, con immigrati senza carte, con quel genere di gente per la quale il livello dell’indignazione morale si abbassa sensibilmente.
Già oggi i soprusi e le violenze di polizia e carabinieri nei confronti degli immigrati, considerati fonte di insicurezza sociale in quanto tali, sono tollerati a tal punto da non costituire più un’eccezione.
Il fantasma dell’emergenza serve proprio a far sì che l’eccezione divenga regola e la quotidianità trasformi comportamenti criminali in normali operazioni di polizia.
Il paradigma della guerra come operazione di polizia, dove i militari agiscono affiancati da specialisti dell’umanitario, perché il fine dichiarato non è la tutela di interessi di parte ma la generosa difesa dei civili, rende sempre più labile la separazione tra guerra e ordine pubblico, tra esercito e polizia. Sappiamo bene che l’alibi della salvaguardia dei civili è una menzogna mal mascherata di fronte all’evidenza che le principali vittime ed obiettivi delle guerre moderne sono proprio i civili. Civili bombardati, affamati, controllati, inquisiti, stuprati e derubati: è la cronaca di ogni giorno, che filtra nonostante la censura.

Una gara bipartisan

Il confine tra guerra interna e guerra esterna è praticamente scomparso. La presenza dei militari nelle nostre strade ne è la logica conseguenza.
L’obiettivo di fondo è molto ambizioso: disciplinare l’intera società, piegarla ad accettare il lavoro precario, pericoloso, malpagato, costringerla ad una vita che se ne va con l’aria che respiriamo e il cibo che mangiamo, farla rassegnare ad un futuro che non c’è perché ci viene rubato ogni giorno. Cominciano dai più deboli ma poco a poco si occupano di tutti. I provvedimenti dei sindaci con la colt colpiscono le piccole libertà di ciascuno di noi: giocare in un parco, addormentarsi sull’erba, mangiare e bere dove si vuole.
L’estate dei divieti ha visto protagoniste le solite jene fasciste e leghiste così come i primi cittadini della sinistra democratica. Una gara bipartisan verso il peggio, iniziata ben prima che il ministro dell’Interno desse loro i super poteri.
I partiti dell’opposizione parlamentare, che in questi anni hanno perseguito i medesimi obiettivi e fatto le stesse scelte del governo Berlusconi, si limitano a dire che la decisione di affidare ai soldati compiti di polizia è solo l’ennesimo spot pubblicitario, un’operazione di facciata, inutile perché i soldati non sanno fare ordine pubblico, sono inadatti al ruolo. Dimenticano che i nostri “ragazzi” sono stati spediti in Bosnia e in Afganistan per insegnare ai locali proprio come gestire la giustizia e la polizia. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Se l’invio di soldati nelle nostre città fosse solo una costosissima reclame al governo non varrebbe la pena di preoccuparsi, ma non è così. Le conseguenze simboliche e pratiche sono enormi: se la guerra è un’operazione di polizia facilmente si applica la proprietà transitiva che rende vero anche il contrario. Ne consegue che le operazioni di polizia possono essere condotte come interventi di guerra. Da anni lo fanno i poliziotti, dal mese di agosto sono scesi in campo i soldati. Gente che le ossa se le è fatte con la popolazione somala, bosniaca, irachena, afgana. Oggi sono chiamati a gestire un’emergenza che ha il volto dell’immigrato senza carte, illegale per legge. Domani a chi toccherà?

Maria Matteo