rivista anarchica
anno 38 n. 339
novembre 2008


clericalismo

Un modesto scontro di portata epocale
di Carlo Oliva

 

Note a margine della commemorazione del 20 settembre, anniversario della breccia di Porta Pia.

 

Apprendo dai giornali che a Roma si celebra tuttora il 20 settembre. Francamente, confesso che non l’avrei mai supposto. Non mi sarei sorpreso scoprendo che quella data era ricordata con pubbliche deprecazioni e riti espiatori – non cui sarebbe stato, d’altronde, nulla di nuovo – ma leggere che si è svolta una vera e propria celebrazione in Campidoglio, sia pure in assenza del sindaco, rappresenta, in questi tempi ratzingeriani, un’esperienza che lascia, non che stupiti, increduli. A riportare l’evento in una prospettiva più consueta, per fortuna, provvede la notizia, parimenti riportata dalle gazzette, per cui il principale oratore intervenuto alla cerimonia, il generale dei granatieri Antonino Torre, ha dedicato buona parte del suo intervento alla commemorazione dei sedici soldati pontifici periti nella difesa di Porta Pia, trascurando del tutto il ricordo dei quarantanove bersaglieri italiani caduti dalla parte opposta. La cosa, strano a dirsi, ha avuto qualche risonanza: alle prevedibili proteste dei radicali si sono associati, sui quotidiani nazionali, due o tre articolisti di un certo peso, tra cui Paolo Franchi, che sul “Corriere della sera” del 22 successivo ha citato l’intero episodio come un tipico caso di caduta di senso del ridicolo. Piccato, il generale Torre ha risposto con una lunga lettera sul “Corriere” del giorno dopo, ricordando come dei bersaglieri, in apertura della manifestazione, si fosse comunque largamente occupato il presidente regionale della loro associazione, generale Giancarlo Renzi, per non dire del vicesindaco senatore Cutrullo, che era presente in rappresentanza di Alemanno e della giunta capitolina tutta, e motivando la propria commemorazione degli zuavi papalini caduti, non con l’ossequio a un qualche punto di vista chiesastico, come avevano malignamente supposto i suoi critici, ma con quei precetti dell’etica militare che prevedono, anzi, esigono, il rispetto per il nemico sconfitto, cui va sempre riconosciuto, post rem, “l’onore delle armi”.

Militarmente un modesto episodio

Vabbè. Si sa che i militari sono molto legati all’ideologia della loro casta, che comprende anche concetti difficilmente accessibili ai civili, quali quelli di “senso dell’onore” e, appunto, di “onore delle armi”, ed è ovvio e naturale che spesso vi ricorrano. Tuttavia, la polemica, che non ha avuto, che io sappia, sviluppi ulteriori, può ben essere assunta come un tipico esempio di sfasamento ideologico. Altro non può significare, in definitiva, parlare del 20 settembre in termini militari, contrapponendo il numero e i meriti dei caduti di entrambe le parti o disquisendo sull’onore che agli uni e agli altri va reso.
Militarmente parlando, di fatto, quello di Porta Pia è stato un ben modesto episodio, un atto di forza quasi esclusivamente simbolico. Lo dimostra il numero stesso delle vittime (sempre troppe, come sempre troppe sono le vittime di qualsiasi evento bellico, ma oggettivamente poche per un evento di quella portata) e lo conferma la sensazione, fortissima in tutta la memorialistica d’epoca, per cui dello scontro armato, in quel caso, si sarebbe benissimo potuto fare a meno. In effetti, una volta ritirato dal Lazio il corpo di spedizione francese, la situazione militare dello stato pontificio era poco meno che disperata e le possibilità che, senza l’ombrello offerto da Napoleone III, il governo papale potesse resistere alla volontà annessionistica del Regno d’Italia erano minimali, anzi, assolutamente nulle. In effetti, se le porte dell’Urbe non furono direttamente spalancate agli invasori prima che quel po’ di sangue fosse sparso, fu per la volontà esplicita di papa Pio IX, o, per la precisione, del suo Segretario di Stato, il famigerato cardinale Antonelli, che si era sempre speso, dal 1861 in poi, perché la questione romana non si risolvesse per via diplomatica e volle tangibilmente dimostrare all’opinione pubblica internazionale come l’annessione di Roma all’Italia si svolgesse sotto il segno della prevaricazione e della forza. Ottenuto quel risultato, a spese dei sessantacinque disgraziati che nello scontro ci lasciarono le penne, di resistenza non si parò più, anzi, fu lo stesso Antonelli che invitò il generale Cadorna, che se n’era prudentemente astenuto, a occupare la città leonina, onde evitare le prevedibili complicazioni dell’ordine pubblico. D’altronde le classi dirigenti italiane, formalmente laiche, ma sempre attente a quella parte cospicua dell’opinione pubblica di sentimenti cattolici, non avevano maggiore interesse a enfatizzare l’episodio di quanto la chiesa non avesse a sottolineare una propria sconfitta e, dopo il trasferimento della capitale a Roma, che fu effettuato tanto sottotono da suscitare le ire dei nazionalisti più accesi, come testimonia il Canto dell’Italia che va in Campidoglio del Carducci, su Porta Pia sarebbe presto calata una spessa cortina di silenzio, destinata a infittirsi dopo la firma dei Patti Lateranensi del 1929. Da parte cattolica si sarebbe dovuto aspettare l’avvento di un papa di alto spessore intellettuale, come Paolo VI, per riconoscere, cent’anni dopo, che quegli eventi non avevano, tutto sommato, danneggiato più di tanto la chiesa e fu appunto Paolo VI che abolì l’annuale messa di suffragio per i sedici zuavi caduti, dimostrandosi, da un certo punto di vista, assai più laico del generale Torre. Ma, per tornare al 1870, tutto l’episodio può essere considerato una mediocre commedia, interpretata da personaggi assai inferiori, per dimensione personale e capacità di comprensione storica, alla portata di un evento destinato ad assurgere, quasi loro malgrado, a una dimensione epocale.

Roma, Porta Pia

Dimensione storica straordinaria

Perché quel modesto episodio militare, con i poveri intrighi politici che lo precedettero e lo seguirono, ha, in effetti, una dimensione storica straordinaria. Segna la fine, dopo un millennio e mezzo, del potere temporale dei papi, con tutto quello che essa significa in termini ideologici e storici. Come tutte le date simbolo, rappresenta, al tempo stesso, la conclusione di un processo secolare (le eresie, la Riforma, l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese...) e l’inizio di una fase nuova, tutta da costruire. Perché se la presa di Roma fu, in buona sostanza, un atto di usurpazione, ratificato pochi mesi dopo da un referendum assai dubbio, il 20 settembre non perde per questo il suo valore di spartiacque storico, di data a partire dalla quale i rapporti tra la chiesa e lo stato (tra le chiese e gli stati) si sarebbero posti in modo del tutto diverso da prima.
Certo, quel valore bisogna volerglielo riconoscere. Ed è difficile che una volontà del genere alligni ai vertici, civili e militari, dello Stato Italiano, soprattutto oggi che il Vaticano si è lasciato alle spalle le aperture di Paolo VI e ha imboccato risolutamente la strada di un neotemporalismo intransigente. Quando tutte le autorità della chiesa, dal papa in giù, sono impegnate a rivendicare la legittimità dell’intervento ecclesiastico nelle faccende profane (credo sia stato il cardinale Bagnasco, al meeting di CL, a spiegare apertis verbis come i cattolici non siano disposti a lasciarsi “rinchiudere nelle chiese”) è alquanto improbabile che ci si ricordi di Porta Pia e quello che significa. Se non, appunto, per ricordare chi vi ci si oppose. Far tornare indietro la storia è sempre un’impresa difficile, ma schierarsi dalla parte di chi ci prova rappresenta, nell’Italia di oggi, una scommessa sicura.

Carlo Oliva