rivista anarchica
anno 38 n. 340
dicembre 2008-gennaio 2009


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Talenti
a servizio

 

1. Nel 1971 – allorché qualcuno, forse incautamente, poteva ancora contare sulla forza dell’analisi per cambiare le cose – Gualtiero Harrison e Matilde Callari Galli pubblicarono Né leggere né scrivere, dove, cominciando da uno sguardo antropologico rivolto alla realtà dell’analfabetismo in Sicilia , individuano con chiarezza le forme con cui il saper leggere e il saper scrivere possono tramutarsi in violenza e discriminazione sociale. I nostri prossimi anni ri-conferiranno drammatica attualità a questo argomento. Ora, invece, sembreremmo afflitti da un fenomeno di segno opposto – e, privi della consapevolezza di quei tempi, e privi di una consapevolezza delle funzioni politiche e sociali dei nostri artefatti più “nobili”, ci si adagia nel lusso del letterario. “Scrivono tutti”, strangolerebbero la nonna con le loro mani pur di pubblicare, pagano – truffati e felici – i moltiplicati editori, tentano di accaparrarsi i sempre più esigui lettori.

2. Da un’inchiesta del “Corriere della Sera” apprendiamo che almeno 120 sono i corsi di scrittura qualificata o no come creativa in Italia, 50mila sono gli utenti che fino ad oggi ne hanno usufruito – dei quali il 65% femmine e 35% maschi –, per costi che vanno dai mille euro ai 7.700 per l’intero ciclo di lezioni. Forse lì non è ancora nato il corso con il costo “a partire da”, come si fa con le automobili – che possono avere o non avere questo e quell’accessorio – o come promette, in questi giorni, la pubblicità di un corso che insegnerebbe l’arte del massaggio “a partire da 600 euro” ingenerando l’angoscioso dubbio che qualche rudimento importante venga insegnato soltanto a chi è disposto a superare la cifra di partenza. Nel caso dei corsi di scrittura, non riesco a immaginare a quale grado di sapere potrebbe essere correlata l’escalation del prezzo. Ferve, comunque, il dibattito: servono, non servono, possono servire, non possono servire, sono un male, sono un bene, perché lo fanno? La maggior parte, a quanto pare, mira al romanzo – perché è al romanzo che si connette l’idea del successo e del guadagno, della notorietà, della propria immagine formato naturale sagomata nelle vetrine delle librerie, della firma autografata sui frontespizi dopo aver steso dediche brillantemente ammiccose ad una pletora di veneranti.

3. Gli argomenti contrari perlopiù vagheggiano intorno al vecchio presupposto che “l’arte non si insegna” e che o uno ce l’ha o non ce l’ha. Ma non si sa bene che cosa. E infatti l’argomentazione a favore parte come si conviene dai toni bassi – si tratta semplicemente di acquisire “metodi, tecniche e strumenti senza i quali non si può scrivere un romanzo”, chi frequenta un corso come minimo diventerà un lettore più “scaltro”, “esigente” o “raffinato” e, dunque, potrà scrivere con “maggiore consapevolezza” – per poi affrontare il nodo dell’eventuale capolavoro. Ma è qui che questa argomentazione mostra la corda, perché, se da un lato una scuola dimostra tutta l’inconsistenza di quella “mitologia romantica” della scrittura come “dono di Dio”, dall’altro lato resterebbe il fatto che per scrivere il capolavoro – si sostiene – non basta la buona competenza artigianale ma occorre il “talento” e “ragioni profonde che non si possono certo insegnare”. Con il che – non spiegandole queste “ragioni profonde” e non spiegando neppure in che consista il “talento” – ecco che quello stesso quadro ideologico misticheggiante buttato dalla finestra viene fatto rientrare dalla porta principale e riesposto all’adorazione del mondo intero.

4. Non manca l’interpretazione del fenomeno in chiave psicosociologica. Scrivere è una cosa, ben si sa, e pubblicare è tutt’altra cosa. Il rischio della frustrazione successiva – dopo tanta fatica ad acquisire una tecnica si scopre che la si può applicare al massimo a casa propria – verrebbe pertanto compensato dalla frequenza stessa del corso. Una frequenza in quanto tale – con l’eventualità delle conoscenze, con la socialità promiscua, con l’occasionale separatezza dal fluire monotono della quotidianità, con il semplice ma giustificato uscir di casa per un fatto proprio – che gratificherebbe a sufficienza, sempre che l’utente, beninteso, non abbia posto innanzi a sé, tassativamente, scopi ulteriori. Se, dunque, da un punto di vista tutta questa corsa ai corsi testimonierebbe di un certo grado di benessere, da un altro costituirebbe un “sintomo del disadattamento psichico” e la scrittura rappresenterebbe semplicemente “uno strumento per star meglio, per ritrovare e reinvestire le proprie energie”, una sorta di derivato da new age. Un campanello d’allarme, insomma, che, se confuso con una soluzione dovrebbe indurre a garantire che “c’è di meglio”.

5. Volendo mettere in evidenza un aspetto che per qualcuno potrà essere marginale, ma che è cruciale per me, faccio un caso. Ma mi serve una premessa.
In teoria, ogni analogia può andar bene. Lo sa chi parla o chi scrive quale rapporto ha posto tra due cose diverse e lo sa sempre lui cosa ci ha trovato di uguale. Se, poi, questa sua uguaglianza la ottengo anch’io – che ho istituito lo stesso rapporto tra le due stesse cose –, bene, ci capiamo. Se no, vorrà dire che non ci capiamo affatto e, se ne ho tempo voglia e carità sufficiente, glielo dico. Affinché si spieghi. In pratica, nella pratica condivisa di tutti i giorni tra persone che vivono nella stessa città gli stessi problemi e che siano anche animati dalla voglia di affrontarli, questi problemi, nel modo più conveniente per tutti, in pratica no – non tutte le analogie vanno bene. Ce ne sono alcune che andrebbero messe al bando, perché zoppicano, perché vorrebbero presentare come uguaglianza qualcosa che uguaglianza non è o, meglio, qualcosa che uguaglianza lo diventa soltanto a carissimo prezzo.

6. Il caso è costituito da una lettera allo stesso “Corriere” che, nello stesso giorno, pubblica l’inchiesta – una lettera che sembra un grido di dolore: “mamme perseguitate”. È il racconto della mamma di una bambina di sei anni. Abitano in via Bramante, in quella che lei definisce “l’ormai famosa Chinatown”. Tutte le mattine la porta a scuola, nella centrale ed ultraecopass via Lanzone e, visto che “i parcheggi sono pochi”, parcheggia dove può – “giusto il tempo per lasciare i figli nel cortile dell’istituto”, sottintendendoli al sicuro – e viene perseguitata dai vigili urbani, che la minacciano di multe intimandole di “spostare il veicolo”. Fosse questo il problema – e il grido di “mamme perseguitate” lo lascerebbe supporre – la lettera al “Corriere della Sera” sarebbe tutta lì. E, come tale, non sarebbe stata pubblicata. Non gliel’ha ordinato il medico di andare a iscrivere la bambina in un istituto scolastico lontano e inavvicinabile dal mezzo automobilistico, non glielo ordina il medico di accompagnare la bambina in auto, la municipalità si dice impegnata a dissuadere il cittadino dall’uso dell’automobile – questione di un minimo di sensibilità etica – e i vigili urbani – ci mancherebbe – fanno il loro mestiere. Si spera.
Ma la lettera non si ferma qui e, avendo pazienza, si capisce subito perché è stata pubblicata. È stata pubblicata perché la mamma perseguitata è in vena di confronti. Facciamo un esempio a caso, dice: perché i vigili urbani non si comportano con la stessa severità anche in quella via Bramante dove a lei “spesso” capita di dover “stare in fila dietro a un cinese che con un carrello pieno di merce occupa la carreggiata”? Perché, si chiede, tanta liberalità verso non un “lavoratore”, beninteso, non verso un cittadino qualsiasi che sta facendo il suo lavoro, ma verso un cinese ?

7. Il “Corriere”, allora, scegliendo questa lettera fra mille altre e decidendo di pubblicarla dà il suo forte e autorevole contributo al razzismo montante. Ma non gli basta. Falsifica la lettera intitolandola “mamme perseguitate” – perfino al plurale –, contrabbandando un atteggiamento socialmente discriminatorio all’interno di una vicenda personale quanto risibile, ma non gli basta. Già che c’è schiaccia sul pedale e classifica la lettera, sopra il titolo, con una sorta di sigla ideologica, “Via Paolo Sarpi”. La signora abita in via Bramante, via Bramante è una traversa di via Paolo Sarpi, la vicenda finto-oggetto della lettera si svolge tutta in via Lanzone che da via Paolo Sarpi è ben lungi, ma, al tirar delle somme il tutto è ascrivibile a “Via Paolo Sarpi” – diventata da tempo emblema, simbolo, calderone di metaboliti tossici da bonificare al quale, per non lasciar troppo decantare le cose, è d’uopo, giorno dopo giorno, aggiungercene una dose.
Ugualmente, occorre una certa abilità – artigianalità e talento – per trasformare quella singola “mamma” in cerca di solidarietà che viene subito generalizzata diventando una pluralità. Perché più sono e più convincono.

8. Ipotizziamo pure che il giornalista del “Corriere della Sera” abbia frequentato un corso di scrittura. Occhio e croce – dall’abilità con cui ha manipolato i titoli – potremmo ritenere che si sia trattato di un “buon” corso di scrittura, che, tuttavia, forse perché il suo costo era “a partire da” e lui non ha scelto l’opzione più costosa, non gli ha insegnato alcunché sul modo di evitare il servilismo.
Il caso delle mamme perseguitate e del cinese – quella che gironzola in automobile e quello che lavora, caricando e scaricando merci – rappresenta bene, invece, la differenza tra chi il corso di scrittura l’ha già frequentato – o ne è prossima cliente – e chi no e ne è ancora ben lontano dal riproporselo.

Felice Accame

Note
Né leggere né scrivere è stato pubblicato da Feltrinelli, a Milano, nel 1971. A firma di Paolo Di Stefano, l’inchiesta sul “Corriere della Sera” è stata pubblicata il 18 ottobre. A rappresentare i pro e i contro erano Laura Lepri, “editor e docente di scrittura creativa”, e Giampaolo Spinato, scrittore docente. La lettera delle “ mamme disperate” che è una sola come i tre moschettieri che erano quattro, è stata pubblicata nelle pagine milanesi dello stesso giorno.