rivista anarchica
anno 39 n. 341
febbraio 2009


Grecia / 2

W la rivolta! Oltre la rivolta
di Andrea Papi

La solidarietà con i rivoltosi e in particolare con gli anarchici impegnati nelle dure lotte ad Atene, Salonicco e in tutta la Grecia non deve far abbassare la nostra capacità di riflessione e anche di autocritica.

 

Finalmente una rivolta. Seria, forte, almeno in origine compatta. Di quelle che fanno paura e danno la sensazione immediata di poter far crollare i poteri che sembravano consolidati. In questo mondo ammuffito, sorretto da sistemi di potere economici e politici che si fondano sul privilegio dei potenti di turno, dove la corruzione dilaga confusa con la malavita organizzata, dove trovare di poter vendere la propria forza lavoro, cioè di essere sfruttati, ha sempre di più l’aspetto sinistro di trovarsi avvantaggiati, dove se non ci riesci ti trovi costretto all’indigenza fino alla morte per fame, la rivolta è un’aspirazione incontenibile che si fonde col sogno del riscatto. Perché siamo costretti progressivamente alla costanza di condizioni precarie ammantate dall’incubo di possibili catastrofi imminenti. La piacevolezza del vivere è diventata una chimera, mentre l’ordinarietà è sempre più segnata quotidianamente dalla fatica di stare al mondo. Ben vengano dunque le rivolte, nella speranza che, oltre a scatenare la sacrosanta rabbia, riescano ad innestare profondi processi di smantellamento di questo presente antiumano e di costruzione di alternative vere.
La sera di sabato 6 dicembre 2008 ad Atene scocca la scintilla. Il giovane di 15 anni Alexandros Grigoropoulos viene assassinato da un poliziotto con un colpo di pistola, colpevole di aver provocato assieme ad altri una pattuglia di polizia di passaggio davanti al bar dove il gruppo di giovani stava sostando. La versione ufficiale immediata tenta di sminuire il fatto sostenendo che il colpo è stato involontario, che il proiettile è rimbalzato a terra ed ha colpito il giovane accidentalmente. Come in ogni parte del mondo i poteri e gli stati si assomigliano tutti. Prima ti stroncano poi non se ne vogliono assumere la responsabilità. Ricorda pari pari il caso Giuliani, altro giovane morto a Genova nel luglio 2001 sempre in seguito ad un colpo di pistola, guarda caso anch’egli ufficialmente colpito da un proiettile deviato casualmente da un sasso.
Siccome invece numerose testimonianze di cittadini presenti smentiscono questa versione di stato, monta subito l’indignazione popolare che in un lampo si traduce in rivolta spontanea generalizzata. Quella stessa notte, poi nei giorni successivi, la ribellione subitanea a tratti diventa insurrezione. Nelle città principali come nei piccoli centri vengono assaliti e dati alle fiamme questure e commissariati, auto della polizia, banche e centri commerciali. L’8 dicembre e poi ancora il 9 la polizia riesce a respingere a fatica gli assalti al parlamento. Cortei imponenti hanno attraversato i centri di Atene e Salonicco e in più occasioni i manifestanti hanno attaccato la polizia che ha reagito caricando e sparando lacrimogeni. Tutte le università vengono occupate mentre il paese si stava preparando allo sciopero generale di mercoledì 10 dicembre, indetto dai sindacati precedentemente ai fatti. Negli scontri numerosi i feriti e gli arrestati. Così per circa due settimane.

Impoverimento crescente

L’assassinio dello studente quindicenne ha fatto da detonatore facendo esplodere una situazione di degrado sociale avanzante da tempo in Grecia. Le riforme liberiste degli ultimi anni del governo di centrodestra Karamanlis, in particolare quelle delle pensioni e del mercato del lavoro, hanno determinato un impoverimento crescente e un aumento costante della precarietà. Le condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro sono andate progressivamente peggiorando e il numero d’incidenti frequentemente mortali si è moltiplicato. Ultima in ordine di tempo la crisi economica mondiale, con conseguenze ancora più devastanti per la fragile economia greca, ha innescato un rovinoso peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori con l’erosione sistematica di ogni garanzia e tutela. Se aggiungiamo i problemi ormai endemici in tutt’Europa, migrazione e impoverimento costante delle classi più deboli ed esposte, in poco tempo si è così definito un quadro fatto di un mix micidiale, in cui la repressione e la brutalità poliziesca si sono saldate alle tensioni e alle lotte sociali contrapponendosi. Miccia pronta ad essere accesa. E così è successo.
Data la crisi economica montante che in tutto il mondo si è abbattuta sul genere umano c’è da supporre che non sarà né la prima né l’ultima sollevazione. Quando infatti le condizioni di vita generalizzate vengono messe seriamente in discussione e peggiorano vistosamente, come sta succedendo in ogni parte del globo, sono ampiamente prevedibili reazioni popolari dettate dalla disperazione e dalla rabbia per come i sistemi di potere sottomettono e annichiliscono i popoli. Ed è proprio qui il punto su cui mi sembra indispensabile azzardare una riflessione in grado di comprendere cosa può succedere e come agire, se si riesce ad agire.
La riflessione fondamentale su cui m’interessa soffermarmi è generale. Per usare un linguaggio che richiama ai tempi del sessantotto, direi che è di carattere strategico. Investe cioè l’intera visione dell’intervento possibile cercando d’identificarne il senso e le prospettive, sia realistiche sia ideali. È riassumibile nella considerazione secondo cui qualsiasi ribellione, per quanto vasta e profonda possa essere, se si limita ad esprimere solo e soltanto il momento della rivolta, non può che esaurirsi in se stessa. Una volta conclusa, entrano in campo coloro che hanno le idee chiare e le forze per intervenire e approfittarne, i quali si assumeranno il compito e l’onere o di restaurare o di ricostruire a seconda dei loro interessi, lasciando a se stesso il popolo insorto che si è appena sfogato.
Dal punto di vista dei processi di emancipazione, che è quello che m’interessa e ci dovrebbe interessare più d’ogni altro, per quanto sacrosanta, giusta e condivisibile, qualsiasi rivolta o insurrezione non può e non deve limitarsi ad insorgere e a scontrarsi con tutte le sue forze contro le nefandezze del potere. Se lo fa, come è sempre successo, tutto tende a ricomporsi e riprodursi, magari con un aspetto falsamente nuovo, lasciando però intatte le cause e le ragioni che avevano portato all’esasperazione dando spinta al bisogno di ribellarsi con estrema concretezza.
Partiamo da una constatazione da cui non si può prescindere. Le rivolte che lasciano il segno prendono sempre fuoco perché scocca una scintilla occasionale e non prevista. Nel caso attuale della Grecia l’assassinio del quindicenne Alexandros Grigoropoulos. Siccome il terreno sociale, per tutta una serie di condizioni precedentemente determinatesi, è predisposto, il fuoco in breve si estende e avvampa. Non ci si può fare niente, succede e basta. Se non fosse stato per quella scintilla effettivamente scoccata, sarebbe stato quasi sicuramente per un’altra. Questo è l’aspetto spontaneo delle condizioni e delle forme che caratterizzano ogni ribellione che dilaga.
Ma subito dopo entrano in campo e partecipano attivamente tutti coloro che sentono il bisogno di opporsi: strutture, partiti, organismi di aggregazione di vario tipo, individui che non ne possono più. Una pluralità di popolo che si trova nell’immediato affratellata dalla volontà comune di attaccare e annientare il nemico del momento, il potere di turno. Contemporaneamente in breve, almeno così ci suggerisce l’esperienza, prendono piede ruoli direttivi, o sorgenti in modo spontaneo nell’ambito dell’azione che incalza o da parte di dirigenti già effettivi di partiti e formazioni preesistenti. Questi ruoli dirigenti non ci mettono poi molto, oltre a dare direttive d’azione indispensabili, a mettere una cappa politica e di marcia al movimento imbrigliandone la spontaneità di origine. Ciò potrebbe essere evitato soltanto se dietro ci fosse, preesistente, un lavoro efficace di acquisizione culturale e di organizzazione propenso a consolidare esperienze consapevoli di autogestione.

Una prospettiva lungimirante

La recrudescenza dello scontro è sterile. Il portare ad oltranza la lotta militare, perché di questo si tratta, quale obiettivo principale e di fondo, non ha prospettive. Dico queste cose perché ho avuto la netta impressione che nella rivolta di Grecia i compagni rifacentisi all’anarchismo, da quello che sembra particolarmente numerosi e incisivi, abbiano proprio fatto una tale scelta strategica. Trainati in particolare dai kukulofori, presentati dalla stampa italiana come una specie di black-blok greci, degli specialisti in loco della guerriglia urbana, hanno cioè scientemente portato avanti quello che, a mio avviso, è un malinteso insurrezionalismo, trascinati dall’illusione, sempre smentita dalla storia, che basti abbattere il potere che sta dominando, ammesso che ci si riesca veramente, per innestare, sua sponte e quasi per un magico atto taumaturgico, un processo conducente di per sé all’anarchia che sta a cuore.
Ovviamente, date le pochissime informazioni che mi sono giunte, potrei benissimo sbagliarmi. E, credetemi, vorrei davvero sbagliarmi. Nel qual caso chiederei tranquillamente scusa alle compagne e ai compagni greci che con tanto ardore lottano e, ahimé!, pagano di persona.
Dati i tempi, non solo in Grecia ma in tutto il mondo, la mia preoccupazione è davvero più che plausibile. Purtroppo temo fortemente di aver intuito giusto, al di là della più completa solidarietà che senza remore va espressa e data a tutti coloro che in qualsiasi modo lottano e si spendono per la libertà, per sottolineare che comunque sto e stiamo dalla loro parte. Ritengo però che riflettere su ciò che avviene e sulle scelte che si fanno sia un contributo importante, nella consapevolezza piena che nessuno è esente da errori e che un’onesta critica di sé e l’autocorrezione sono sempre strumenti indispensabili per capire come procedere e come migliorare la qualità dell’azione.
Indipendentemente perciò da come lì si sono realmente svolte le cose, che non sappiamo con certezza, sono comunque convinto che sia fondamentale riflettere adeguatamente sul da farsi, dal momento che, come anche più sopra ho già sottolineato, non è affatto da escludersi che si possano ripetere rivolte decisive in altre parti, data la crisi montante che sta impoverendo le popolazioni e sottraendo posti e possibilità di lavoro in tutto il mondo.
Credo che bisognerebbe attrezzarsi di una prospettiva lungimirante, tendente a mettere in campo modi e azioni atti a realizzare pratiche di libertà e di autogestione, miranti ad estendersi il più possibile all’intero corpo sociale. C’è bisogno dell’ipotesi di un progetto a lungo raggio, senz’altro complessivo, ma possibilmente pensato anche nella gradualità delle sue diverse fasi, da tradurre nella realtà, in modo che lo scontro col potere non si limiti e non si risolva in uno scontro impari con le forze di polizia o le forze armate, ma che si pensi e pretenda di essere capace di sperimentare costruzioni alternative, in grado di cominciare a mettere in pratica il nuovo tipo di società per cui lottiamo.
Bisogna cominciare a capire e pensare che lo scontro con la polizia e le forze dell’ordine, che l’esperienza ci insegna è quasi impossibile da evitare, dal momento che i poteri costituiti quando si trovano messi alle strette reagiscono con un volume di fuoco difficilmente contenibile, è un momento di risposta all’azione repressiva. Ma soprattutto che è un fatto squisitamente militare, che va perciò affrontato con senso e logiche conseguenti, senza commettere l’errore di caricarlo di una valenza politica che in realtà non ha, di considerarlo cioè come l’elemento fondamentale che dà avvio alla qualità politica delle scelte. Il che non vuol dire che bisogna trasformare la rivolta spontanea in forme militariste, ma che per difendersi e non essere sopraffatti bisogna saper agire con logica militare, mentre bisogna saper agire libertariamente per costruire l’alternativa. Se si entra invece nella logica di vincere soprattutto militarmente, al di là che lo si voglia o no, si entra nella logica di prendere il potere e sottomettere i vinti, perché poi, com’è sempre successo, non se ne riesce a fare a meno. Addio allora ogni prospettiva di libertà e di liberazione.
È fondamentale diventare coscienti che se non riusciremo ad ipotizzare una progettualità adeguata, al di là delle illusioni e delle nostre volontà, lasceremo ad altri, a forze autoritarie con pochissimi scrupoli, lo spazio progettuale per ridefinire l’arena politica. È uno scenario già ampiamente visto lungo il corso del divenire storico e non mi sembra che abbia prodotto granché. Nei fatti ha generato solo sfacelo e disastri non riparabili.

Andrea Papi