rivista anarchica
anno 39 n. 341
febbraio 2009


lettere

 

Obama 1 / Il risveglio dal sogno

Un bravo ad Andrea Papi che sullo scorso numero ha saputo mettere a fuoco una realtà che, purtroppo, non è tipica solo della situazione italiana. I parallelismi sono molti anche se si deve tenere conto delle realtà locali, però l’inganno “democratico” è in atto da tempo e il tentativo puerile di trasformare le “sinistre” è la solita storia “del lupo che perde il pelo ma non il vizio”. In effetti sembra che si interroghino come possano fare ad entrare nel gioco del potere democratico senza perdere troppo la faccia con gli elettori rimasti fedeli.
Obama sta facendo sognare buona parte dell’America e da quello che leggo anche buona parte dell’Europa e non solo. Viene da chiedersi quanto durerà l’ennesima delusione. Si, Obama è certamente un leader molto più sofisticato e progressista del suo predecessore, però è anche vero che non ci voleva molto ad essere un gradino più su dell’ “amico” di Berlusconi. Questa si presenta come la vittoria dei circa 20 milioni di african/american, il 70% dei quali vive al disotto della “poverty line”, con un debito in trilioni di $, con l’economia a pezzi e la concorrenza rampante dei paesi emergenti (India, Cina, Indonesia e altri). Quanto tempo ci vorrà perché l’elettore statunitense dovrà avere un’altra delusione? Il discorso sugli Stati Uniti è particolarmente interessante alla luce delle considerazioni di Papi, quando parla della melassa retorica di un democraticismo di facciata. Infatti il paese dello Zio Sam la sa lunga su questo. Molti in Europa, anche a “sinistra” e in particolare gli intellettuali, spesso fanno confusione sul progressismo che è certamente presente nelle arti (letteratura, cinema, etc.) e quindi inneggiano agli Stati Uniti come al baluardo delle libertà del mondo occidentale. Ma quella sparuta schiera di progressisti coraggiosi è sempre stata una minoranza che alla fin dei conti è sempre risultata ininfluente rispetto a ciò che l’America è oggi economicamente e politicamente.
Gli Stati Uniti sono stati, quasi fin dall’inizio della loro storia, una nazione in espansione. Gli esempi sono molteplici: l’ambiguità nei confronti della rivoluzione messicana, l’interferenza con Cuba, la meschinità della macchinazione politica per annettersi le isole Hawaii, fino alla seconda guerra mondiale quando la potente flotta americana, dopo aver “liberato” l’Europa dal nazifascismo, torna nell’Atlantico passando davanti al nuovo stato fascista di Franco e a quello più vecchio Portoghese di Salazar, senza sparare un colpo. Oltre a tutto questo, l’unica volta che uno Stato ha usato l’arma nucleare cancellando così dalla faccia della terra in pochi secondi milioni di giapponesi (se si contano anche quelli periti dopo atroci sofferenze) sono sempre loro. E poi ancora Corea, Vietnam, Guatemala, Cile, Nicaragua, El Salvador, e quante altre dittature di destra ed emirati sono stati appoggiati, protetti. Quanti, anche tra i più illuminati intellettuali Europei, alla Fallaci, si sono fatti abbagliare dalla sirena a stelle e strisce per il fatto che gli Stati Uniti hanno una tra le Costituzioni più progressiste? Purtroppo anche alcuni dei nostri vedono negli USA un faro di civiltà, trascurando il fatto che per vendicare i circa 3.000 morti delle torri gemelle la cricca di Bush ha sacrificato altre 4.000 mila vite americane e quelle di qualche centinaio di migliaia di iracheni, per lo più civili.
Quindi, caro Andrea, sono con te nell’affermare che le nostre aspirazioni non debbano essere travisate da chi, nascondendosi dietro false affermazioni di libertà o di giustizia che non valgono la carta sulla quale sono scritte, non vuole altro che perpetuare forme di potere più o meno autoritarie che gli fanno comodo. Solo la coscienza della gente può opporsi allo strapotere di governi più o meno democratici, ma purtroppo fino ad ora il salto di qualità verso l’autodeterminazione è ancora di là da venire.

Sempre con voi anche da lontano
Gianni Corini
(Fergus, Ontario Canada)

P.S. Andrea, ma che cavolo vuol dire ermeneutica. Capisco il senso, ma andiamo!

Obama 2 / L’uomo della Provvidenza

«Il mondo è cambiato», titolavano i nostri quotidiani giovedì 6 novembre per celebrare la storica vittoria di Barack Obama, primo presidente afroamericano degli Stati Uniti d’America. Un sogno impossibile che diventa realtà. Una nuova epoca che si apre. Una speranza per tutti. Un giovane uomo che è «l’icona stessa del cambiamento» – come scrive Ezio Mauro –, con una storia incredibile e una straordinaria capacità di cogliere la sensibilità della gente.
Bene, siamo tutti contenti di questo esito elettorale, e soprattutto sollevati dall’esserci liberati da Mister Bush e dalla sua banda di incompetenti guerrafondai. Abbiamo ascoltato e letto con attenzione il primo discorso di Obama, davvero molto bello, ricco di suggestioni e preziosi riferimenti agli aspetti migliori della storia e della cultura americana.
Però – perché c’è sempre un però – non tutto mi torna come dovrebbe. Sarà l’innato pessimismo, sarà la tendenza a considerare anche il lato oscuro delle cose, ma in quelle folle in festa mi pare di cogliere pure segnali inquietanti. In un mondo dominato dall’incertezza, il potere carismatico di weberiana memoria acquista via via un peso crescente. Sempre più ci si aggrappa alle doti di qualche uomo “straordinario” che indichi una via sicura per orientarci dentro quella società del rischio, nella quale da qualche decennio siamo sprofondati. Qualcuno che sappia cosa fare e dove andare. E sono i media, ovviamente, che individuano, sostengono e impongono all’attenzione di tutti questi “uomini della provvidenza”. Gli addetti stampa e i curatori dell’immagine, non a caso, vengono ad avere un ruolo decisivo. La società dello spettacolo detta ritmi, contenuti e modalità dell’azione politica. Il dibattito si semplifica, il confronto tra le opposte fazioni sembra una gara sportiva. E il trionfatore raccoglie l’applauso dei suoi tifosi festanti.
In questi tempi grami chi è chiamato a ricoprire le cariche più prestigiose dovrebbe essere atterrito dai compiti che lo aspettano. Altro che brindisi e bagni di folla. E i cittadini, da parte loro, non dovrebbero considerare esaurito il loro compito con l’espressione del voto, né tanto meno pensare che un uomo solo possa risolvere ogni problema. Al contrario, dovremmo essere tutti protagonisti dell’azione politica. Partecipare sul serio, senza immedesimarci con il leader di turno, ma costruendo e condividendo un progetto articolato, a partire dal basso, dai nostri quartieri e dalle nostre città. La delega inquina la democrazia. Lo penso da tempo. Come ho cercato di argomentare altrove, la rappresentanza ormai non funziona più. È ora di cercare alternative plausibili.
Del resto, perché dobbiamo santificare l’Obama di turno? Quanti Obama non godono ne godranno mai dell’attenzione mediatica, pur avendo doti straordinarie e qualità magari ancor più significative del nostro caro Barack? Come si fa a diventare Obama? Qual è il percorso? Chi decide che Obama a un certo punto divenga per tutti Obama? Gli elettori? Non tanto e non solo, temo. C’è qualcosa che va ripensato in profondità nei nostri sistemi politici, e in quelli presidenziali prima di tutto. Ma anche in quelli parlamentari, se è vero – come è vero – che nel nostro Paese da quindici anni imperversa il piccolo grande Cavaliere, che ha costruito le sue fortune sulle Tv commerciali del Drive-in e dei Telegatti, sulle glorie sportive delle casacche rossonere, sulle indubbie doti da imbonitore un po’ guascone, e su chissà cos’altro ancora. Folgorante l’apprezzamento del Nostro al neoeletto Presidente: «è giovane, bello e pure abbronzato». Abbronzato?! Ma qui siamo al delirio. Che importa, tanto il consenso (non è dato sapere quanto attendibilmente rilevato) non cala mai. Anzi.
Io scelgo di andare controcorrente. Continuo a credere che siano le idee e i valori a dover essere il nostro faro, e non gli uomini che contingentemente ne divengono portatori. Penso ancora che per fare bene politica sia più utile leggere e magari scrivere libri piuttosto che partecipare (e magari vincere..) all’Isola dei famosi. Non ho motivo di rinunciare alla più salda delle mie convinzioni, secondo la quale gli uomini sono tutti uguali, e tutti ugualmente degni di rispetto e considerazione.

Giorgio Barberis
(Alessandria)


Onda, no grazie

Cari compagni,
è da poco più di un anno che sono abbonato a questa rivista, che apprezzo particolarmente, sia per la varietà dei temi trattati, sia soprattutto per la particolarità di dar voce a diverse posizioni, opinioni, pareri, talvolta anche discordanti tra loro, ma sempre e comunque riferibili ad una radice comune, quella libertaria e anarchica. Spesso mi capita di consultare anche altre riviste, in particolar modo UN, per avere un‘idea più completa del panorama anarchico, e per compensare l’impossibilità di impegnarmi attivamente in una realtà, quella sarda, in cui l’antagonismo politico non riesce a superare il limite ideologico dell’indipendenza nazionale. Ed è proprio consultando altre riviste anarchiche che ho notato in quest’ultimo periodo un’attenzione e un interesse particolari per la protesta congiunta di professori e studenti contro la recente riforma Gelmini, con un coinvolgimento esagerato nei confronti di un fenomeno che, a mio parere, dovrebbe essere visto e analizzato decisamente in modo più critico da un anarchico.
Sin da subito ha iniziato a insospettirmi il fatto che la sinistra giornalistica abbia costruito un paragone tra il movimento studentesco attuale, l’Onda, e il “Maggio Francese”, e più in generale il Sessantotto studentesco. Sebbene chi scrive non ha mai avuto una gran simpatia per tutto ciò che puzza di “sessantottino”, va comunque riconosciuto che la loro critica e il loro tentativo di trasformazione dell’Università avrebbe dovuto poi sfociare in una critica e in una trasformazione della società. Anche se lo facevano “così come si gioca”, quelli lottavano per una società diversa. Questi invece, i nuovi sessantottini di oggi, per cosa lottano? Lottano forse per cambiare il mondo? C’è forse nelle loro parole qualcosa che lascia intravedere elementi di critica radicale all’attuale sistema? Non mi pare che sia così, compagni!
Fa un certo ribrezzo vedere nelle trasmissioni di approfondimento politico questi ragazzotti poco più che ventenni, perfettamente agghindati, che parlano senza concetti, con gli atteggiamenti tipici “dei grandi”. Eccola qui la futura classe dirigente! Ma non sono tutti così, per fortuna! I più agguerriti, gli irriducibili, si tirano indietro da qualsiasi collocazione politica, e ciò che hanno di meglio da dire è che la politica è fuori dal movimento, che questo non ha niente a che fare con la politica, che non è «Né di destra, né di sinistra». Ma che vuol dire? Che questi giovani studenti non si riconoscono nei rispettivi schieramenti parlamentari? O più semplicemente che non si riconoscono in alcuna ideologia politica? Io credo, compagni, che sia la seconda delle ipotesi la più aderente alla verità: la politica è fuori dal movimento perché una qualche forma anche soltanto primitiva di coscienza politica è fuori dalle teste di questi giovani studenti.
Vittime di una retorica conformista che negli ultimi 20 anni ha portato avanti la sinistra istituzionale – sempre più in preda a una crisi d’identità e sempre più conciliante con il sistema democratico liberale – questi giovani studenti, tirati su a tarallucci e Mtv, sono cresciuti senza una solida preparazione ideologica e politica, abituati a considerare a-criticamente il mondo attuale, come se fosse non soltanto il migliore dei mondi possibili, ma l’unico mondo possibile. Sono gli stessi giovani che hanno gremito le piazze ai comizi di Beppe Grillo, uno che per la sua ingenuità ideologica si è sempre distinto; gli stessi giovani teledipendenti dal peggio della schifezza catodica. Sono gli stessi giovani che, ispirati dal mito sessantottino dello “scontro generazionale”, mostrano tutta una gamma di ribellismi e riottosità esteriori, di facciata, finché l’età e i costumi sociali glielo consentono; salvo poi cambiare rotta e diventare sempre più concilianti e inseriti all’interno delle logiche del Sistema, rendendo così manifesti ed espliciti quegli atteggiamenti e quelle ambizioni piccolo borghesi già presenti e in nuce sin dall’età adolescenziale. «Né di destra, né di sinistra.» Il conformismo di questi giovani ribelli sta tutto in queste parole, compagni! È il loro rozzo conformismo a scendere in piazza e a produrre le ormai solite argomentazioni che questi studenti, unitamente ai professori, portano a difesa dell’Università di Stato, identificando l’istruzione statale, la scolarizzazione, con la libertà e l’autonomia di pensiero. «Vogliono distruggere l’università pubblica perché vogliono eliminare le teste pensanti» è il solito leitmotiv che si sente ogni volta che c’è un qualche provvedimento che riguarda la scuola.
Eppure mi sembra di ricordare, compagni, che sino a pochi anni fa si sosteneva che il problema della scuola e dell’istruzione in generale era il suo essere “di Stato”. Ovvero si riconoscevano i meriti indubbi dovuti all’allargamento dell’istruzione pubblica alle masse nel corso del processo storico, ma si criticavano senza pietà le finalità e i reali obiettivi della scolarizzazione, ovvero l’inquadramento nell’apparato produttivo o organizzativo dello Stato e la mancata emancipazione degli individui, istruiti per essere sempre più asserviti ad un potere a loro ostile. Quando lo sviluppo tecnologico richiede maggiori competenze specifiche nella produzione, l’istruzione statale svolge il suo ruolo: è ciò che è successo nel periodo della rivoluzione industriale con la creazione di scuole elementari con avviamento professionale, nate perché ai Montezemolo, agli Agnelli e ai De Benedetti di allora servivano operai che sapessero almeno leggere e scrivere. E lo stesso avviene ancora oggi, solo in modo più specialistico: ai Montezemolo, agli Agnelli e ai De Benedetti di oggi servono figure professionali, operai specializzati, elettricisti, meccanici, ingegneri, addetti a questa o a quest’altra mansione. E così si fa sempre maggiore la differenziazione scolastica, con le scuole che ti insegnano a diventare elettricista, a diventare idraulico, o meccanico. Ma nessuna scuola “di Stato” insegna a diventare individui liberi.
La Scuola “di Stato”, Università compresa, è sempre stata al servizio dei vari Montezemolo, Agnelli e De Benedetti di ogni tempo e luogo. Lo dimostra il fatto che i tempi previsti per la nostra istruzione sono rigidamente stabiliti dall’alto: secondo la logica per cui il tempo è denaro, il Sistema ci vuole produttivi subito. La realizzazione dei reali interessi degli individui, la loro emancipazione, è sempre stata ostacolata perché non funzionale al Sistema. La distruzione del mondo accademico che questi giovanotti vanno predicando per le piazze d’Italia, come anacoreti medievali, è già bella che avvenuta, e il loro voler difendere questo cumulo di macerie che è l’Università italiana, a mio vedere non ha alcun senso: non lo ha mai avuto prima e meno che mai lo ha oggi.
Ma noi anarchici, a quanto pare, proviamo grandi simpatie per questi giovani: lo dimostrano gli innumerevoli articoli del bollettino ufficiale della FAI, o la copertina del numero 340 di questa rivista, o meglio ancora lo dimostra il comunicato, apparso sul sito del Circolo “Ponte della Ghisolfa”, riguardante l’ultimissima commemorazione dell’omicidio di Pino Pinelli, in cui si annuncia l’intervento, tra gli altri, anche di uno studente dell’Onda. Cerco di capire, compagni, il motivo di questo appoggio alla protesta di un gruppo di studenti che non sono «Né di destra, né di sinistra.» Vogliamo davvero “cavalcare l’Onda”, compagni? Beh, per ogni destinazione c’è una strada, come diceva Malatesta, e se nonostante i buoni propositi si percorre una strada sbagliata, non si realizzano quei propositi desiderati, e si sbaglia inevitabilmente destinazione. L’Onda poi, per definizione, non ha una direzionalità definita: porta alla deriva.
Queste cose voi le sapete certo meglio di me, compagni, perché è da voi che io le ho imparate. Ma vedervi nelle piazze, in mezzo a quelle folle di giovani conformisti, a difendere l’Università e la scuola pubblica, a difendere un pezzo di Stato, un pezzo di Sistema; vedere che là in mezzo c’eravate anche voi, compagni, mi ha fatto male al cuore.

Gianpaolo Cherchi
(Sassari)
nutmeg.ss@tiscali.it

 

 

 

 

I nostri fondi neri

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