rivista anarchica
anno 39 n. 343
aprile 2009


Pinelli

Cos’è successo quella notte in questura?
di Luciano Lanza

Quarant’anni fa Giuseppe Pinelli volava dal quarto piano della sede della polizia milanese. Per un «malore attivo» dice la sentenza che ha chiuso il caso. Oggi un libro di Adriano Sofri ripercorre le tante menzogne e contraddizioni dei «servitori dello stato».

 

«Quando hai finito di leggere tutte queste pagine, ragazza – sei stata molto gentile, molto paziente – mi hai fatto le tue osservazioni, e poi avevi qualcosa di più importante da dirmi, ma si vedeva che esitavi. Mi sono messo a ridere, ti ho invitata a dirlo, qualunque obiezione fosse. Non è un’obiezione, hai detto, è una domanda. Che cosa pensi che sia successo, quella notte, al quarto piano della Questura?
Ti rispondo. Non lo so».
Così si chiude il libro La notte che Pinelli di Adriano Sofri. Un libro che mette in evidenza le innumerevoli contraddizioni di chi era presente al momento del volo di Giuseppe Pinelli la notte del 15 dicembre 1969. In quel quarto piano della questura di Milano che cosa è realmente successo al di là delle palesi menzogne dei poliziotti presenti? Sofri onestamente dice «non lo so». Ma tutta la ricostruzione che l’ex leader di Lotta continua mette in piedi ci dà una semplice verità: se i responsabili mentono vuol dire che nascondono qualcosa e allora è lecito, è giusto sostenere che siano colpevoli. Ma fermarsi ai poliziotti ((Antonino Allegra, Luigi Calabresi, Vito Panessa, Pietro Mucilli, Carlo Mainardi, Giuseppe Caracuta) e carabinieri (Savino Lograno) non basta, perché quanto sono innocenti questori (Marcello Guida), giudici (Giovanni Caizzi, Antonio Amati, Gerardo D’Ambrosio), uomini dei servizi segreti (Federico Umberto D’Amato, Elvio Catenacci)? Chi ha messo in atto depistaggi se non i servizi segreti e chi può ragionevolmente sostenere che i giudici abbiano cercato di fare luce e non invece di nascondere? Le sentenze (soprattutto quella di D’Ambrosio) sono lì, basta leggerle per accorgersi che non stanno in piedi. Eppure quella è la «verità processuale», non certo la verità storica. Per fortuna.

Ma sono passati quasi quarant’anni dal dicembre 1969 e la memoria di quei fatti si affievolisce, cioè quello che gli uomini al potere (ieri e oggi) vogliono: far dimenticare. Perché i morti nella Banca nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana e il morto di via Fatebenefratelli sono il segno tangibile (e macabro) della criminalità del potere, quel potere che non esita di fronte ai morti quando si sente messo in discussione.
E infatti il libro di Sofri inizia così: «Forse l’Italia non sarà mai un paese normale. Forse è il paese in cui tutto diventa normale». Ma proprio per questo mantenere la memoria su piazza Fontana significa mantenere nel discorso sociale e politico la criminalità del potere. E mantenere la memoria su Pinelli ha una rilevanza storica che va molto al di là di questo «onesto miltante anarchico».

Adriano Sofri

Quale memoria storica?

Memoria storica, però, significa anche affiancare alle tante onorificenze per il commissario Calabresi (monumento nel cortile della questura milanese, medaglia, francobollo, lapide e stele a Milano, viale a Roma…) il ricordo di chi era e cosa faceva Calabresi.
Calabresi un buon padre di famiglia? Non ho dubbi a crederlo.
Calabresi un devoto cristiano. Non ho dubbi a crederlo.
Calabresi un fedele servitore dello stato? Non ho dubbi a crederlo.
Ma che cosa significava essere un fedele servitore dello stato nel 1969?

Significava incolpare e arrestare quattro giovani anarchici per le bombe del 25 aprile alla stazione Centrale di Milano e alla Fiera campionaria.
Significava costruire una falsa teste, Rosemma Zublena, per incolpare quei quattro anarchici. Teste poi sconfessata in tribunale tanto che ammetterà: «Io non fatto che ripetere quello che sapeva Calabresi». Significava creare un informatore prezzolato da un ex anarchico, Enrico Rovelli, nome in codice Anna Bolena, per screditare Pinelli.
Significava cercare di incastrare, con il suo capo Allegra, Pinelli per gli attentati a dieci treni nella notte fra l’8 e il 9 agosto. E, particolare non irrilevante, sostenere subito dopo la bomba di piazza Fontana che quell’attentato era opera di anarchici. Significava chiedere con insistenza ai fermati notizie su «quel pazzo di Pietro Valpreda».
E perché lo diceva e teneva illegalmente in questura Pinelli? Perché era stato deciso che per colpire quella sinistra troppo «rumorosa e invadente» si doveva creare il terrore con un fatto clamorosamente criminale. E chi stava dietro a queste manovre? Ricordate quel Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno? Ecco il nome di un infaticabile tessitore di trame.
Ma questa è storia… storia sempre più lontana, sempre più sbiadita. Foto ingiallite, volti che pochissimi riconoscono, pagine cariche di polvere. E i giovani non sanno.
Sofri opportunamente nel suo libro riporta i risultati di due sondaggi fra mille studenti delle medie superiori condotti dall’Istituto per la storia contemporanea di Sesto San Giovanni e dall’Istituto Piepoli. «Nel 2000 il 43 per cento (di quel 75 per cento che diceva di aver sentito nominare la «strage di Stato») attribuiva la strage di piazza Fontana alle Brigate rosse, il 20,5 alla mafia, il 25 agli anarchici, il 23 ai fascisti e il 9 ai servizi segreti. Nel 2006 (quando gli studenti che dicevano di aver sentito nominare la strage di Stato erano scesi al 58 per cento) la strage veniva attribuita alle Brigate rosse dal 42 per cento, alla mafia dal 39, agli anarchici dal 22, ai fascisti dal 18,6 e ai servizi segreti dal 4,3 per cento».
Allora conservare la memoria significa non accettare l’ennesima riscrittura della storia. Una riscrittura fatta sia dai governi di destra sia da quelli di sinistra. Un’opera «meritoria» in cui destra e sinistra si contendono il primato.
Senza memoria una persona, una società diventano una cosa. Senza contesto. Senza discorso.

Luciano Lanza